Il problema, ovviamente, non è il diritto alla più piena libertà sessuale, che è sacrosanto, e che peraltro nelle nostre società postcapitalistiche (in cui, quindi, non ci sono più i reazionari tradizionali) è gradito all’establishment, in una funzione di scambio con i diritti sociali sempre più ridotti, e presto sarà sdoganato anche dalla Chiesa nella sua versione progressista-bergogliana (tanto che Salvini, che certo non è uno stupido, ha frenato il suo compagno di partito Fontana, non appena ha fatto una uscita reazionaria “tradizionale”, sapendo di non poter vincere su questo filone).
Il problema è la spettacolarizzazione della diversità fino al grottesco, che conduce ad una assurda santificazione di microscopiche minoranze, peraltro molto ben protette da partiti e sindacati di sistema, come il PD o la CGIL, e quindi certo non appartenenti ai settori fragili della società, quelli che non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena. Da questo punto di vista, la battuta del Presidente piddino della Regione Lazio, ovviamente presente al Roma Pride, è molto rivelatrice: “il tema delle diseguaglianze è diventato drammatico”. Ovviamente il tema che sta a cuore non sono le diseguaglianze lavorative e reddituali, ma presunte diseguaglianze nei diritti civili di queste piccole minoranze.
La spettacolarizzazione al limite del grottesco della diversità non fa che rimandare ad una concezione di individualizzazione metodologica della società, dove il diritto del singolo a scegliere la sua vita prevale sulle esigenze collettive, dove il collettivo non esiste, sommerso da tante individualità alla ricerca di una autorealizzazione, come tante variabili indipendenti rispetto al tutto. Non è un caso che l’esponente più ortodossa del neoliberismo, la Bonino, sia presente al Pride, e parli di quel famoso rischio di “illiberalità” che era nel lessico pannelliano, usato da Pannella come clava per distruggere ogni forma di espressione collettiva di rappresentanza, dai partiti ai sindacati (ma forse la Camusso, che marcia nel Pride con il suo nemico, fa finta di non ricordarlo).
Tale spettacolarizzazione del diverso, al fondo, non fa altro che prevaricare i “normali”, quelli che conducono una esistenza grigia, anonima, senza tanti grilli per la testa, quelli che lavorano, che sostengono l’economia, in condizioni di crescente precarietà e povertà. Non sono spettacolari, non contribuiscono al business mediatico di cui eventi come il Pride si alimentano, quindi non hanno diritto alla piazza. Non meritano i 15 minuti di notorietà, per dirla alla Warhol. La partigiana che, disgraziatamente per la categoria cui appartiene, si è intestata a nome dell’Anpi la partecipazione al Pride lo ha detto in modo limpido, nel suo intervento: “prima dei doveri dobbiamo praticare i diritti per tutti”. Senza probabilmente rendersene conto, ha affermato un caposaldo del pensiero neoliberista. La Thatcher affermava che occorresse “superare le nuvole del socialismo e del marxismo per condividere la fede dei singoli nella libertà” e che “la società non esiste, esistono gli individui”. Nel momento in cui viene meno la sacralità dei doveri perché i diritti prevalgono, come dice la nostra partigiana, la società scompare, al profitto di tanti individui isolati ed in competizione fra loro.
E’ evidente che la cosiddetta sinistra di LeU partecipi convintamente e così facendo giustifichi, nel senso di rendere giusta e corretta, la sua cifra elettorale. Se il problema fondamentale della società viene percepito come quello dell’eguaglianza, peraltro amplissimamente garantita, degli orientamenti sessuali, è evidente che chi, pur confusamente e demagogicamente, parla di contrasto alle delocalizzazioni, riduzione della pressione fiscale, restituzione di una data certa ed onesta di pensionamento, reddito di cittadinanza per chi ne è privo, prenda il 33%. Perché per lo meno mette i piedi nei problemi reali dei ceti popolari. Ed è logicamente coerente che chi si candida a prendere il 2% cerchi ipotetici contenitori più ampi di centrosinistra per ottenere per via politicistica i posti dentro le istituzioni che la sua cifra elettorale gli nega.
Questa sinistra enormemente minoritaria nella società affonda le sue radici nel libertarismo sessantottino, il primo a mettere in discussione, in una società divenuta oramai opulenta e garantista, il predominio dei partiti e dei sindacati in nome di una malintesa liberazione individuale. Quel sessantottismo era egemone in un mondo che aveva realizzato, al livello più alto mai realizzato nella storia, l’eguaglianza dei diritti sostanziali, del welfare, dei diritti lavorativi e reddituali. Oggi, di fronte a milioni di italiani in affanno economico, che si devono vendere la casa per pagarsi le cure mediche, essa è grottesca, inutile, pietosa nel tentativo, storicamente fallimentare, di riesumare categorie storiche, come il fascismo (che non esiste più come forza di massa) nel tentativo di legittimarsi.
Ed in fondo la storia ha una sua grandiosità ed una sua ironia: Grasso ed i suoi, il sindacato che un tempo era protagonista di ben più drammatiche lotte, una storia gloriosa e tragica, finiscono nella burletta di villose drag queen che si chiamano Armando e di grotteschi omaccioni abbigliati in pelle.
Si chiama legge del contrappasso, baby.