Il caso Imane Khelif è ancora vivo. Le Olimpiadi dalle polemiche
infinite che rimuovono lo sport per trasformarsi in un immenso palcoscenico
continuano la loro corsa. I casi sono debitamente resi complessi e sfuggenti,
in modo da tenere gli spettatori incollati
al potere della chiacchiera. I media e i social sono parte del “cinico gioco”,
sono la pubblica ghigliottina e prima
che la lama scenda le vittime della campagna mediatica sono debitamente catalogate-analizzate-squartate.
Si procede ad una pubblica discussione, in cui il “caso persona” è oggetto di
una autentica autopsia, mentre è in vita. In questo caso l’occidente mediatico
ha vissuto la sua passione: sesso, sangue e denaro. Si è proceduto a discorrere
sulla sua anatomia e sul suo sangue (i geni). L’atleta è stata analizzata da un
punto di vista estetico e genetico e si
è trasformato il caso in un “evento mediatico”. Alla fine
di tale processo la fine è diventata “solo nuda vita”. La sensibilità del mondo
liberal sempre accesa sulla fluidità di genere e curvata sulla dimostrazione
che non esistono generi ma solo interpretazioni ha trovato il suo ghiotto
boccone. In tutto questo nessuno ha sollevato la domanda prima: l’atleta in
questo baccano mediatico nel quale non è trattata da persona ma da “elephant man” che cosa ha provato e come ha
vissuto il circo mediatico, giacché è un confronto impari. Nessuno si è chiesto
nella società inclusiva e dionisiaca:
“Come si sente e cosa ha provato Imane Khelif nel vedersi ridotta a ossa,
muscoli e geni da analizzare? Quanto avrà sofferto?”
A nessuno sembra interessare la silenziosa sofferenza di una donna dalla
storia, si suppone, difficile.
Gli organizzatori delle Olimpiadi per risparmiare all’atleta e alle sue
concorrenti lo splendore della gogna
avrebbero dovuto analizzare debitamente il caso prima delle Olimpiadi, al fine
di proteggere colei che in questa storia è misurata solo a base di pugni e che
risulta essere la più debole. L’atleta è di origini algerine e questo non è un
dettaglio.
Il palcoscenico dunque è più importante della condizione emotiva e
psichica delle persone divenute casi mediatici che attraggono pubblico e
attenzione. Per il capitalismo dello
spettacolo per il quale l’inclusione è il trofeo per autolegittimarsi con la sua “superiorità etica” sui blocchi
concorrenti, l’inclusione in realtà è solo un mezzo. Tutti possiamo cadere
nella trappola; possiamo essere inclusi e successivamente diventare casi da
ostentare. La discussione finisce per rendere le persone con la loro storia e
con le angosce che ogni vita reca con sé solo “spettacolo”. Finita la scena
prima, si è gettati nel calderone della dimenticanza e coloro che sono saliti
sul podio della gogna sono lasciati soli: non servono più, si va avanti con
altri “casi”. Al suo rientro in Algeria, c’è da chiedersi come sarà accolta e
come sarà vissuta. Mettiamoci nei panni di coloro che sono all’interno della
macchina dello spettacolo, proviamo a farlo e, forse, vivremo la verità di un
sistema senza pietà. L’Occidente capitalistico fondato sull’individualità
atomistica è profondamente disumano, in quanto ha perso la capacità di sentire
la presenza dell’altro.
Cambiamo prospettiva, obliamo la chiacchiera tagliente che gode del vino
dell’eccitazione mediatica, per porci nella prospettiva di Imane Khelife
comprenderemo che l’inclusione, quella reale, è sensibilità nel silenzio,
perché l’altro in ogni circostanza è persona, è
relazione nell’immanenza della storia.
Tutto questo è venuto a mancare, pertanto viviamo e ci dibattiamo in una
realtà senza pietà che con lo sguardo e con la parola riduce le persone ad ossa
e muscoli da soppesare. Forse, a noi tutti, farebbe bene rivedere il film The Elephant Man, la versione in bianco
e nero e attraverso di esso rivederci nella nostra orrida realtà-verità. Senza
inclusione e senza empatia non c’è civiltà e non c’è uguaglianza, ma solo l’uso
economico di valori irrinunciabili. G. Debord nel saggio La società dello spettacolo aveva ben dire che lo spettacolo è la
truce verità del capitalismo dalla quale dobbiamo emanciparci per
riumanizzarci:
“11. Per descrivere lo spettacolo,
la sua formazione, le sue funzioni e le forze che tendono alla sua
dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inseparabili.
Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso
dello spettacolare, in quanto si passa sul terreno metodologico di questa
stessa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è niente
altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale,
del suo impiego del tempo. E’ il momento storico che ci contiene”.
Si esce da tale condizione ripensando l’ovvio di cui ci nutriamo e non poniamo in discussione, è un ovvio tossico che a taluni può procurare inaudite sofferenze.
Fonte foto: Corriere della Sera (da Google)