“Di lavoro non ce n’è più bisogno” è il titolo di un interessante articolo di Franco Berardi (Bifo):https://www.linterferenza.info/contributi/di-lavoro-non-ce-ne-piu-bisogno/
E’ un tema d’importanza cruciale ed è necessario continuare la discussione “Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi.”
Il culto del lavoro esiste solo nel capitalismo. Nei Grundrisse Marx si burla di un padrone di una piantagione, nostalgico della schiavitù, che sul “Times” inveisce conto i Quashees, i liberi neri di Giamaica, campagnoli autosufficienti che producono solo quanto basta per vivere, e se ne infischiano del capitale investito nelle piantagioni. Una popolazione vive per lavorare solo quando il capitalismo l’ha sottoposta al suo giogo, non più col lavoro coatto diretto (schiavitù), ma col lavoro coatto indiretto, il lavoro salariato. “Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo pluslavoro, questo lavoro superfluo dal punto di vista del semplice valore d’uso, della pura sussistenza; e la sua funzione storica è compiuta quando, da un lato, i bisogni storici sono talmente sviluppati che il pluslavoro al di là del necessario diventa esso stesso un bisogno generale, scaturisce cioè dagli stessi bisogni individuali – dall’altro la generale laboriosità, mediante la rigorosa disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, è diventata un possesso generale della nuova generazione”(1) In Occidente abbiamo superato da molto tempo questa fase, ora siamo nel periodo in cui “…il possesso e la conservazione della ricchezza generale esigono un tempo di lavoro inferiore per l’intera società…”.
Lungi dall’accettare queste conclusioni, il capitale tende a sfruttare in modo bestiale una parte del proletariato e a lasciare nell’assoluta precarietà, disoccupazione, fame, la parte rimanente. E’ il segno inequivocabile che il capitalismo ha esaurito il suo ruolo storico, e che, se non verrà abbattuto entro tempi ragionevole, trascinerà l’umanità in una serie ininterrotta di sciagure. Il capitale è fondamentalmente espropriatore. L’espressione “proprietà privata” ha due significati diversi: 1) La piccola proprietà formata col lavoro personale, che viene inevitabilmente distrutta dal grande capitale 2) La proprietà che sfrutta il lavoro altrui, mediante il lavoro salariato. La seconda distrugge la prima. La borghesia ha sempre avuto un gioco facile, raccontando alla piccola borghesia che i comunisti l’avrebbero espropriata. In realtà, è il capitale che lo fa, per cui artigiani, piccoli contadini proprietari o affittuari e commercianti, laddove resistono, hanno posizioni sempre più marginali, oppure lavorano di fatto, pur mantenendo l’apparenza dell’autonomia, per i capitalisti. Il fondamento di tutte le espropriazioni va cercato nel lavoro salariato stesso. Marx comprese fin dai Manoscritti economici- filosofici che il cuore del problema non era la proprietà. Il linguaggio è ancora filosofico, ma inequivocabile: “…anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dei non sono la causa, ma l’effetto dell’umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in azione reciproca.”(2) E nel Capitolo VI inedito del Capitale sostiene: “Nella misura … in cui il processo di produzione è nello stesso tempo processo di valorizzazione, nel suo svolgersi il capitalista consuma la capacità lavorativa dell’operaio, ovvero si appropria il lavoro vivo, come sangue vitale del capitale. La materia prima, l’oggetto del lavoro in generale, non serve qui che ad assorbire lavoro altrui, e lo strumento di lavoro non serve che da conduttore, da veicolo, per questo processo di assorbimento. Nell’incorporare la forza lavoro viva alle sue parti componenti oggettive, il capitale diventa così un mostro animato e comincia ad agire come se “avesse l’amore in corpo” .(3)
Questo mostro animato in cerca di valorizzazione travolge ogni ostacolo. Il piccolo contadino, artigiano, il piccolo artigiano non possono resistere a questa concorrenza, e, a poco a poco tutta la società viene modellata a immagine e somiglianza del rapporto capitale lavoro. L’incomprensione di questo punto ha portato a pensare che fosse possibile arrivare al socialismo attraverso le nazionalizzazioni mantenendo il rapporto salariale. Un po’ come voler superare il feudalesimo affidando le terre allo stato e conservando la servitù della gleba. Il capitale non è una semplice quantità di denaro e di beni, è un rapporto sociale. Una quantità di denaro non è capitale se non si valorizza, cioè crea plusvalore, che può essere ottenuto solo attraverso il rapporto salariale. Finché c’è salario c’è capitalismo, c’è sfruttamento, e poco importa se al posto di un capitalista proprietario del capitale c’è una società anonima o un fondo pensioni o anonimi funzionari statali. La nazionalizzazione, in un paese in via di sviluppo, ha la funzione di sottrarre le terre, le miniere, il petrolio e i gas al dominio diretto dell’imperialismo, a beneficio soprattutto della borghesia locale, ma, se la ricchezza è ingente, anche della piccola borghesia e di settori del proletariato. Ma i rapporti di forza –attraverso operazioni finanziarie, commerciali o militari – permettono alle grandi compagnie o di impadronirsi nuovamente, o almeno beneficiare abbondantemente, attraverso il meccanismo dei prezzi delle materie prime, dei beni altrui. Nei paesi sviluppati la nazionalizzazione è quasi sempre una truffa – è risaputo – e consiste nel far pagare ai contribuenti la ricostruzione di industrie distrutte dalla guerra o da una crisi, per poi privatizzarle quando tornano a dare profitti. Persino in una situazione di dittatura del proletariato, se l’economia è arretrata e semidistrutta dalla guerra rende impossibile il superamento della forma salariale, il mercato torna ad affermarsi, e nessuno ebbe questa terribile consapevolezza più di Lenin: “Lo stato è nelle nostre mani, ma ha forse funzionato a modo nostro, nelle condizioni della nuova politica economica? No…La macchina sfugge alle mani di chi guida; si direbbe che qualcuno sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidata da una mano segreta, illegale.” E quando Ustrialov scrisse: “Io sono per l’appoggio al potere sovietico in Russia, sebbene sia stato un cadetto, un borghese e abbia appoggiato l’intervento… sono per l’appoggio del potere dei soviet perché esso si è messo lungo la strada la quale rotolerà verso il comune potere borghese”, Lenin disse che si trattava della “verità di classe detta dal nemico di classe”(4)
L’espropriazione non riguarda solo la terra, il frutto del lavoro, ma ogni aspetto della vita sociale. Esproprio del tempo “libero”, i lavoratori che devono stare sempre pronti col telefonino accanto in attesa di una chiamata del padrone; i tempi perduti sui mezzi per recarsi al lavoro e tornare. Esproprio della scienza: lo scienziato asservito, costretto a ricercare, non prodotti migliori, ma surrogati che permettano di sostituire materie prime costose con altre scadenti; milioni di brevetti comprati dalle grandi imprese e tenute nei cassetti per non favorire la concorrenza. Esproprio delle competenze individuali, laureati o tecnici altamente specializzati costretti a lavori dequalificati, alla precarietà o alla disoccupazione. Esproprio dello spazio vitale, con la speculazione edilizia che occupa sempre più il territorio, distruggendo campi e orti; i parchi, le zone ecologiche, spesso sono soltanto fiori all’occhiello dei governi, per nascondere la crescente distruzione, desertificazione, avvelenamento del territorio. Esproprio dei servizi sociali, dell’assistenza medica, sempre più privatizzata. Persino i WC pubblici vengono sostituiti da altri, con doppia porta come le banche, invalicabili per chi non ha la monetina da inserire nell’apposita fessura. Dipendiamo dal capitale direttamente, o tramite lo stato o gli enti locali, sempre più asserviti al capitale a causa del debito pubblico, per non parlare degli immondi intrallazzi che accompagnano sempre la gestione del potere nel capitalismo maturo, anche nei paesi che riescono a mantenere una parvenza di rispettabilità, come Norvegia, Danimarca, Svizzera… Il capitale finisce col togliere alla forza lavoro la sua unica possibilità, quella di trovare occupazione, e il disoccupato non è un uomo libero, è un ricattato. I disoccupati, dice Marx, appartengono al capitale, che può attingere al loro lavoro in qualsiasi momento, alle sue condizioni. I disoccupati, è ovvio, devono avere un assegno per sopravvivere, ma il reddito di cittadinanza generalizzato non è la soluzione del problema. Una completa automatizzazione nella società capitalistica non è possibile, perché le macchine possono produrre tutto, tranne che il plusvalore. Una macchina trasferisce pro rata, nel corso del suo esercizio, il proprio valore ai prodotti, non ne crea di nuovo. Una macchina che costi un milione e che produca negli anni un milione di sedie, trasferisce ad ogni sedia 1 euro, il resto del valore è dato dalla materia prima e dal plusvalore. L’automazione è spesso una forma di ricatto per spingere i lavoratori ad accettare le condizioni volute dai capitalisti. Si può fare l’ipotesi di un paese completamente automatizzato che succhia plusvalore da quelli arretrati, approfittando del dislivello di produttività, ma non di un mondo capitalistico completamente automatizzato. Perché al capitalista non interessa il prodotto in sé, ma il plusvalore. Discorso diverso per il comunismo, dove si potrebbe realizzare il sogno di Aristotele, di far lavorare, al posto degli uomini, gli automi di Dedalo o i tripodi di Efesto. Ma questo nell’avvenire, perché nelle prime fasi ci sarà un immenso lavoro da compiere per riparare i colossali danni del capitalismo, inflitti alle popolazioni, alle condizioni di vita, alla natura. Un lavoro duro, ma ne varrà la pena. Ma tornando all’oggi, non è possibile liberare dal lavoro l’intera popolazione, quindi ne rimarrebbe una parte, sfruttata fino all’inverosimile, mentre la rimanente, tagliata fuori dal mondo del lavoro, perderebbe ogni possibilità reale di combattere contro il capitale. Marx voleva affrontare il capitale nel suo punto cruciale, e diede un particolare rilievo alla lotta per la riduzione dell’orario di lavoro mediante una legge, “la trasformazione della ragione sociale in forza sociale… Facendo introdurre tali leggi, la classe operaia non accrescerà la forza del potere governativo. Come vi sono leggi per difendere i privilegi della proprietà, perché non ne dovrebbe esistere per prevenire gli abusi?…La classe operaia allora, tramite una misura generale, farà quanto essa tenterebbe invano di compiere con un numero altissimo di sforzi individuali”. “Consideriamo la riduzione della giornata lavorativa la condizione preliminare, senza cui abortiranno tutti gli ulteriori tentativi di miglioramenti e di emancipazione”.(5)
Questa risoluzione fu approvata all’unanimità dal Congresso di Ginevra dell’Internazionale. Naturalmente, si troveranno compagni ultrarivoluzionari che diranno: queste indicazioni erano giustissime allora, ma non valgono più oggi, perché siamo nell’età imperialistica. Se questi compagni rileggessero Lenin, vedrebbero quante volte ha cercato di mettere in luce, oltre alle differenze, la continuità dell’imperialismo rispetto al capitalismo concorrenziale, nelle sue polemiche con Piatakov, Bucharin, Radek. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, colpendo direttamente il profitto, e liberando tempo, è l’unica “anticipazione socialista” all’interno della società borghese, permette a un numero maggiore di proletari di rimanere nel mondo del lavoro, e quindi di essere in grado di contrastare il capitale.
Note 1) Karl Marx, “Grundrisse, Il processo di produzione del capitale –Plusvalore” “I liberi negri della Giamaica”. “La funzione storica del capitale”.
2) Karl Marx, “manoscritti economico –filosofici del 1844”, “Il lavoro estraniato”.
3) Karl Marx, Capitolo VI inedito de “Il Capitale”, “Sfera della circolazione e sfera della produzione: il lavoro salariato presupposto necessario della produzione capitalistica” “Il capitale, mostro animato”; riprodotto anche nell’antologia “L’alienazione”, a cura di Marcello Musto, pp. 90/91.
4) Lenin, XI congresso del PC(d)R, Rapporto politico del Comitato centrale, 27 marzo 1922.
5) Karl Marx, “Istruzioni per i delegati del Consiglio centrale provvisorio sulla singole questioni, Congresso di Ginevra dell’Associazione Internazionale dei lavoratori, 1866.