Nel contesto intellettuale contemporaneo, numerosi
intellettuali si sono ritrovati a sostenere posizioni che, seppur mascherate da
un’apparente difesa dei diritti e della giustizia, favoriscono in realtà un
sistema economico-sociale che concentra ricchezza e potere nelle mani di una
ristretta élite. Questo fenomeno si è manifestato ampiamente sia in Italia sia
a livello globale tra coloro che si sono definiti “intellettuali radicali” –
magari di sinistra. Tuttavia, la loro presunta radicalità si è spesso rivelata
un mero esercizio teorico, disconnesso dalla concretezza delle dinamiche
sociali e dalle politiche quotidiane. Invece di affrontare le problematiche
urgenti relative alle disuguaglianze e alle condizioni di vita della
maggioranza della popolazione, costoro hanno preferito rifugiarsi in
discussioni astratte, lontane dalla realtà economica e sociale, incapaci di
rispondere alle necessità di cambiamento che il presente richiede. Tale
distanza dalla realtà ha comportato il progressivo ritiro degli intellettuali
dalle proprie responsabilità politiche e sociali. Invece di fare un’analisi
critica della condizione storica, molti di loro si sono persi in battaglie
ideologiche contro nemici immaginari, distorcendo la realtà con caricature su
cui alimentare polemiche sterili. Quando finalmente hanno trattato questioni
concrete, le loro analisi sono risultate spesso nient’altro che uno sterile esercizio
di sapienza accademica, tale da non contribuire in alcun modo a chiarire o
risolvere i problemi sociali reali.
Paradossalmente, pur proclamandosi difensori dei
diritti civili, molti intellettuali si sono concentrati su tali diritti solo
quando non venivano minacciati dai propri alleati o dai propri contesti
sociali. La loro difesa dei diritti civili appare quindi selettiva, attivandosi
solo in determinati contesti o a seconda degli interessi in gioco, senza mai
compromettere i loro privilegi personali o la loro posizione nel sistema
esistente. Insomma, la posizione di tali intellettuali cambia in base agli
schieramenti e alle circostanze politiche, in un continuo adattarsi alla realtà
che non mette mai in discussione i fondamenti del potere.
Un altro grave errore è l’accentuata enfasi sull’individualismo,
che ha progressivamente oscurato la comprensione della lotta materiale ed
economica come elemento centrale della realtà sociale. Concentrandosi sulla
libertà personale e sull’autodeterminazione, essi hanno finito per allinearsi,
consapevolmente o meno, con il sistema capitalistico individualistico. Un
sistema che, sebbene proclami la libertà di scelta e la meritocrazia, in realtà
disprezza i diritti collettivi e sociali, quelli che dovrebbero costituire la
base di ogni vera giustizia. In questo modo, gli intellettuali che sostengono
la libertà dell’individuo hanno, senza rendersene conto, rinforzato un sistema
che non permette una reale emancipazione, poiché, sotto la facciata di libertà,
il capitalismo continua a mantenere il controllo della ricchezza e del potere
nelle mani di pochi. La celebrazione dell’individuo, in quanto simbolo della
libertà, ha oscurato la consapevolezza che in un sistema che premia solo pochi,
la libertà democratica diventa un’illusione. È in questo contesto che il
capitalismo, celato dietro la retorica della libertà individuale, genera
inevitabilmente conflitti sociali e disuguaglianze crescenti.
In effetti, il capitalismo non può fare a meno di
alimentare le disuguaglianze. La sua natura intrinseca esige necessariamente
che esse esistano, poiché la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi
è un meccanismo necessario per il suo stesso funzionamento. Le disuguaglianze
non sono un problema che il capitalismo tenta di risolvere, ma una
pre-condizione della sua stessa sopravvivenza. Senza di esse, senza un continuo
flusso di risorse che separa l’élite da una vasta maggioranza, il sistema perde
la sua coesione e la sua capacità di produrre profitto. Pertanto, il capitalismo
si trova, prima o poi, di fronte a contraddizioni insolubili, contraddizioni
che esso stesso crea e che non può superare senza entrare in crisi. Ed è
proprio questa crisi, questa tensione tra le forze produttive e le strutture
sociali, che alimenta la guerra come una delle sue espressioni inevitabili. Insomma,
la natura intrinseca del capitalismo richiede la perpetuazione delle
disuguaglianze per funzionare, e si manifesta in modo evidente nei conflitti
globali e nelle guerre. Tuttavia, ciò che spesso sfugge ai più è che la guerra
non è solo una conseguenza di queste disuguaglianze, ma anche uno strumento
attraverso cui il sistema economico si rigenera. Ogni conflitto, ogni crisi,
fornisce l’opportunità per i potenti di ridisegnare le regole del gioco,
riorganizzare le risorse e rafforzare il controllo sulle masse.
Prendiamo ad esempio le guerre imperialiste del XX
secolo: ogni conflitto, che fosse economico, ideologico o territoriale, è stato
anche una lotta per il controllo delle risorse e dei mercati. Dietro le
bandiere della “liberazione” o della “democrazia”, si
nascondeva spesso un interesse economico che alimentava il ciclo di profitto
per una ristretta élite. Il capitalismo non solo sopravvive alla guerra, ma la
esige come mezzo per mantenere la sua espansione globale, poiché senza la
guerra, senza il caos generato da essa, il sistema non riuscirebbe a mascherare
le sue contraddizioni interne.
Inoltre, la guerra è da sempre uno strumento
fondamentale per canalizzare la rabbia e il malcontento popolare. In un mondo
dove le disuguaglianze crescono e il senso di impotenza si diffonde, le guerre
forniscono un nemico esterno, una distrazione che serve a ridurre le tensioni
interne. La retorica patriottica e nazionalista serve a unire le masse sotto un
obiettivo comune, mentre nel frattempo le strutture di potere continuano a
consolidarsi, indisturbate. Così, il capitalismo non solo crea le
disuguaglianze, ma le sfrutta come terreno fertile per perpetuarsi.
Gli intellettuali “radicali”, sono dunque tali solo
a parole, poichè si ritrovano spesso a legittimare proprio ciò che dichiarano
di combattere. Il loro linguaggio si presenta come uno strumento di
liberazione, ma diventa in realtà un mero mezzo di distorsione. Anziché
denunciare l’ipocrisia dei poteri che alimentano la guerra per i propri
interessi economici, si limitano a criticarne le manifestazioni più evidenti,
senza mai mettere in discussione le radici strutturali del conflitto. Allo
stesso modo, proponendo l’individualismo come un valore di emancipazione,
accettano passivamente un sistema che sfrutta la disuguaglianza come motore del
progresso. Il loro radicalismo diventa quindi un velo dietro cui si nasconde la
mancanza di una vera volontà di cambiamento. Questo paradosso si concretizza nell’incapacità
di riconoscere la guerra non come un accidente, ma come un elemento costitutivo
del capitalismo stesso, che si rigenera attraverso la distruzione e la
conquista di nuove risorse. La loro posizione finisce per rafforzare il potere
che tanto criticano, contribuendo a perpetuare un ordine globale ingiusto e
diseguale.
Insomma, la lotta per l’autodeterminazione non può essere disgiunta dalla comprensione delle forze economiche che regolano il mondo. E senza una vera sfida al sistema capitalistico, ogni appello alla libertà rimarrà una chimera.