Le giornate dedicate sono divenute ormai così numerose da rischiare forse di andare in concorrenza o da rendere prima o poi necessaria una coabitazione all’interno della stessa giornata di più “cause”; per cui si può immaginare che nel breve futuro ci sarà la mattinata di qualcosa, il pomeriggio di qualcos’altro e la serata di un’altra cosa ancora. È evidente che, andando avanti così, si debba in qualche modo provvedere e allora delle due l’una: o si allunga l’anno, oppure per starci tutti dentro bisognerà farsi più piccini e accontentarsi di un pezzettino della giornata.
Eppure, al di là dei risvolti ridicoli nella liturgia del politicamente corretto, questa proliferazione delle “giornate-di-qualcosa” a ben vedere è già un riflesso compiuto dell’ideologia corrente, la cui esigenza primaria è quella di scomporre e dissolvere la coscienza sociale. Laddove una analisi critica radicale dell’esistente non potrebbe essere se non globale, le giornate-di-qualsiasi-cosa incanalano la critica, per bene che vada molto annacquata, la protesta e la solidarietà ad una causa verso compartimenti separati ai quali si chiede, in fondo, proprio di non essere comunicanti. Tanti rivoli dispersi e del tutto inoffensivi; tanto più che le giornate irrinunciabilissime, oltre ad essere cieche, sono anche, nella declinazione dei temi, orientate a senso unico. Non potrebbe essere diversamente, visto che le giornate-di-qualcosa sono, per definizione, calate dall’alto, corrispondono ad una agenda stilata dai centri di potere che dettano forme, contenuti e anche i tempi: oggi è il giorno di questo, domani di quest’altro. Va bene tutto, perché il punto è proprio che non si debba mai affiorare al livello della dimensione complessiva dei problemi.
Questo accade perché le giornate-di-questo-e-quello costituiscono vere e proprie forme di indottrinamento all’ideologia mercantile dominante; già a monte, nella parcellizzazione dei problemi riflettono lo sforzo principale cui essa è protesa, quello di frammentare e dissolvere la coscienza sociale, che non deve emergere al livello unitario e complessivo, il solo a rendere possibile l’individuazione delle cause radicali dei problemi. Si additano ai subalterni i principi sui quali non si può non essere d’accordo; si detta e si delimita il tempo della riflessione e delle battaglie imprescindibili e indifferibili; che, ovviamente, con queste premesse, sono per altro plasmate ideologicamente, sono già date nel formato desiderato. Non soltanto vengono imposte le priorità, ma anche il modo stesso in cui certi temi devono obbligatoriamente essere trattati, pena lo stigma sociale e anche, concretamente, l’allontanamento da posizioni lavorative e l’interruzione di carriere professionali. La trasmissione del catechismo neoliberale, dunque, poggia sui ben soppesati meccanismi della rispettabilità sociale.
È il caso, su tutte, della giornata cult per eccellenza dell’agenda del politicamente corretto, il 25 novembre, divenuta ormai una “festa comandata” alla stessa stregua del natale. Puntualmente, alle giornate dedicate si abbinano le “campagne di sensibilizzazione”, che non a caso nascono sul terreno della ritirata della lotta sociale. Calate dall’alto, sono sponsorizzate dal cuore del potere a caratteri cubitali e rilanciate dai subalterni desiderosi di guadagnarsi, in forza della loro adesione acritica, la patente di persone civili e rispettabili. Le “campagne di sensibilizzazione” sono, quindi, sotto la loro maschera progressista, forme di indottrinamento all’ideologia mercantile e al sistema di potere che la sostiene. Per altro, all’interno della cornice ideologica neoliberale, tra il concetto di “sensibilizzazione” e il feroce fanatismo liberale e benpensante esiste un nesso originario, perché lo zelo a sensibilizzare presuppone il sicuro possesso del punto di vista unico sulla realtà dei fenomeni sociali. Soltanto sotto questo presupposto è possibile pensare di “sensibilizzare” quanti, invece, sarebbero ancora nel pieno della cultura da sradicare. In questo atteggiamento non manca una buona dose di arroganza.
Contro questa impostazione ideologica, volta a inibire l’analisi delle cause radicali dei problemi affinché tutti gli assetti di potere possano restare inalterati e indisturbati, occorre in primo luogo adottare un approccio de-ideologizzante teso a demistificare il sistema di idee egemone. L’ideologia neoliberale, mercantile, cosmopolita, femminista (ma anche e sempre più trasnumanista) e politicamente corretta annovera tra i suoi capisaldi la proiezione della linea del conflitto sulla sola “questione di genere” rimuovendo completamente la questione sociale. La cosiddetta questione di genere è, dunque, un arnese al servizio della de-conflittualizzazione della società. Si tratta di una narrazione che non pochi e non poche abbracciano con fanatismo benpensante (dal quale discendono inevitabilmente nuove discriminazioni e nuovi stereotipi), mentre molti di più, probabilmente, preferiscono dare mostra di condividerla perché dissentire comporta conseguenze; una narrazione che deve essere smontata e denunciata perché, tra l’altro, porta per via prestabilita alla guerra tra sessi.
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