Il travisamento del dato di genere nelle morti sui luoghi di lavoro da parte della comunicazione mediatica
Capita che m’imbatta in un articolo di Enzo Riboni, giornalista del Corsera, scritto nel dicembre scorso a seguito del rilascio da parte dell’INAIL, dei dati riferiti agli infortuni/morti sul lavoro – periodo gennaio-ottobre 2022.
https://www.corriere.it/buone-notizie/22_dicembre_06/lavoro-che-uccide-tre-morti-ogni-giorno-piu-colpiti-donne-giovani-b63f7b2e-7371-11ed-b14d-1643ca78068e.shtml
Questo il titolo: Il lavoro che «uccide»: tre morti ogni giorno. Più colpiti donne e giovani.
Una sintesi che, per chi non conosce in modo approfondito il fenomeno in oggetto (la stragrande maggioranza dei lettori di quotidiani) appare inequivocabile.
Immaginando si trattasse di un refuso mi inoltro nella lettura e, con nessuna particolare sorpresa, mi rendo conto che si tratta dell’ennesimo articolo indirizzato ideologicamente (il Riboni è convinto assertore della strutturale penalizzazione socioeconomica-lavorativa delle donne nei confronti degli uomini, di matrice femminista *) che, muovendo dalla sovra-valutazione di un modesto dato in termini assoluti, cioè uno scostamento di morti femminili nel periodo in oggetto (+8 unità) finisce per adombrare nel lettore, a mio parere in modo surrettizio e volontario, una rappresentazione deformata della realtà fattuale: numericamente le morti sui luoghi di lavoro infatti, da sempre sono “appannaggio” quasi esclusivo dei lavoratori maschi, rispetto alle lavoratrici femmine.
E quel dato femminile in leggero aumento non rappresenta nessuna sostanziale controtendenza rispetto alla lugubre linearità del dato statistico storico: la mattanza di più di un migliaio di lavoratori di sesso maschile all’anno, ogni anno. Da sempre.
L’equivalente dato storico femminile inoltre, come pure quello comparato riportato nell’articolo, è costituito per la gran parte da morti avvenute durante l’itinere casa-lavoro (incidente stradale).
Una metodologia di raccolta dei dati da parte dell’INAIL che, se trova la sua sacrosanta ragione da un punto di vista giuslavoristico (mi riferisco agli indennizzi economici, poiché si tratta comunque di una fase lavorativa a tutti gli effetti) poco o nulla racconta delle cause profonde di questa drammatica strage di genere (e di classe) da un punto di vista sociologico, che va inquadrata nel feroce modello di produzione del sistema capitalistico, basato su profitto e produttività.
La sintesi mediatica che emerge dall’articolo di Enzo Riboni porta invece necessariamente, per un lettore non avvertito come è quello dei quotidiani generalisti, a concludere che esista un sostanziale equilibrio tra i due sessi in termini di danni gravi da lavoro (morti ed infortuni) all’interno di dinamiche fluttuanti e significative.
Naturalmente le morti/infortuni delle lavoratrici donne, hanno singolarmente la stessa identica valenza etica e politica di quelle maschili (entrambi appartengono alla medesima categoria sociale) ma è la diversa frequenza degli eventi, ed il suo legame diretto con la cronicizzazione del fenomeno in atto da tempo, a definirne la diversità di lettura (sacrificabilità sociale maschile).
Questo strutturale e significativo dato, lungi dall’essere sottolineato e messo in evidenza da qualche parte nel dettagliato articolo di Enzo Riboni, costruito non solo sulla esposizione dei dati comparativi accompagnati da grafici ed istogrammi (nella versione cartacea) ma anche su un malriuscito ed a mio avviso inefficace tentativo di inquadramento generale del fenomeno (il solito rimando a questioni tecnico giuridiche [insufficienze ispettive e carente quadro normativo] che ovviamente non sono in grado di spiegare l’enorme differenziazione sessuale del dato) finisce per stingersi fino quasi a scomparire agli occhi del lettore di un quotidiano.
Nell’articolo sono rappresentati anche gli scostamenti del dato infortunistico che vedono un netto aumento della casistica femminile rispetto a quella maschile, dato però “distorto” dalla contingente recrudescenza Covid durante il ’22, che ha interessato settori a prevalenza femminile (principalmente servizi).
Anche il fenomeno “laterale” delle morti per malattia professionale diluite nel tempo (e mai correttamente contabilizzate) rimanda ad una preponderanza della percentuale maschile (soprattutto l’Asbertosi).
Gli faccio presente tutto ciò sulla sua personale pagina FB, argomentando e proponendogli di “rimediare” con un articolo in cui si cimenti a spiegare il macroscopico, endemico, inalterato dislivello tra le morti maschili e quelle femminili sui luoghi di lavoro, dato che non può certamente trattarsi di una coincidenza o di una casistica dovuta ad incidentalità. O, come spesso accade, connotarlo attraverso una banale e superficiale lettura di una (seppur vera) mera preponderanza maschile in settori lavorativi ad alto rischio.
Mi risponde dopo qualche ora con tono seccato, ricordandomi che la sua lettura del fenomeno si riferiva al solo dato comparato delle ultime due annualità e che io (“ottuso” e “analfabeta funzionale”) non lo abbia compreso.
Gli rammento che il Corsera non è un media specializzato sul tema degli infortuni/morti sul lavoro e che quindi, in quanto giornalista “cultore della materia” che scrive su un autorevole quotidiano generalista a tiratura nazionale, si deve assumere la responsabilità del linguaggio e delle formule lessicali utilizzate per comunicare quei dati statistici e del taglio operato al pezzo.
Io invece, che sono un “umile lettore”…ed in quanto tale, stando alla retorica del giornalismo contemporaneo, suo unico “editore di riferimento” non posso essere liquidato come incapace di leggere o vittima di un fraintendimento.
Manco a dirlo, saluta frettolosamente e si congeda in malo modo (affermando che non avrebbe perso ulteriore tempo in spiegazioni).
Discorso chiuso anche per me.
Le contrapposte tesi sono li, nero su bianco ed ognuno può farsi la propria opinione.
Il ruolo dei social media lo intendo così.
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Ciò che mi preme estrarre da questo scambio di vedute è mettere in rilievo la metodologia con cui i media strutturano e alimentano nei loro lettori, la cognizione delle realtà sociali.
Evidenziare come non sia necessario “mentire” o divulgare dati “falsi” per manipolarne e sconvolgerne le sembianze.
Disvelare, con un esempio concreto, come l’oggettività nell’attuale sistema informativo sia una chimera ed un inganno il convincere che si possa perseguirla ed attuarla.
La linea editoriale del Corriere della Sera sui temi di genere infatti è nota…e non da oggi.
Non si comprende quindi la strenua difesa del giornalista Enzo Riboni rispetto alle critiche da me mosse al suo profilato articolo, in linea con le sue “legittime” quanto opinabili letture del fenomeno.
Ma anche questo aspetto, la netta chiusura ad ogni forma di contraddittorio per timore di vedere vacillare consolidate narrazioni, racconta a mio parere cosa sia…al vero, il giornalismo d’opinione contemporaneo, fuori dalle edificanti (auto)rappresentazioni del politicamente corretto.
Anche quando si traveste da quello tematico divulgativo.
Sono certo che questo giornale, che cortesemente mi ospita, garantirà all’occorrenza tutto lo spazio che Enzo Riboni richiedesse, per contro-dedurre le mie tesi e le mie affermazioni.
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https://www.corriere.it/buone-notizie/22_gennaio_17/lavoro-futuro-non-rosa-donne-sempre-penalizzate-adesso-anche-part-time-5d8b01a8-739d-11ec-947d-d1048d2c4770.shtml
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https://www.corriere.it/buone-notizie/22_novembre_09/lavoro-non-donna-si-fatica-doppio-si-guadagna-meta-45746df2-5db7-11ed-9d14-8ce45c5ff6bb.shtml
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https://www.corriere.it/buone-notizie/22_giugno_06/valle-lacrime-tante-donne-agricoltura-che-sono-sfruttate-molestate-5fc8aa04-e00f-11ec-907c-89e18a84369e.shtml
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https://www.corriere.it/economia/trovolavoro/13_settembre_20/riboni-budget-uomini-premiati_41b908f6-21cd-11e3-897d-ba51c5bbc4c9.shtml
Fonte foto: RaiNews (da Google)