Si, lo so, faccio il tifo per la Lazio e, ovviamente, sono di parte. Sarebbe quindi del tutto inutile se ora mi sforzassi di dire che queste cose le scriverei anche se non fossi un tifoso laziale, perché tanto non sarei creduto. E allora proprio questa premessa mi permette di andare a ruota libera. Dopo di che ciascuno sarà libero di pensare se parlo solo da tifoso laziale oppure da libero pensatore, come si suol dire. Insomma, fate vobis.
Il “Tottismo” è ormai da molto tempo un vero e proprio fenomeno di costume, pompato da tutto l’ “ambient” mediatico, politico e “culturale” romano e nazionale (con rare eccezioni).
Un fenomeno che trovo ovviamente molto fastidioso, né più e né meno di come trovo fastidioso tutto ciò che diventa luogo comune, da Fabio Fazio e Roberto Saviano al “femminicidio”, dai film monotematici di Ozpetek (arriverà un giorno in cui un suo film non tratterà esclusivamente di tematiche lgbt? Così, tanto per variare…) a quelli che “destra e sinistra non significano più niente, perché sono categorie superate”, dagli sketch pseudo femministi della Littizzetto alle sparate (forse non solo metaforiche, per lo meno per quanto riguarda il “suo popolo”…) dell’onnipresente Salvini contro gli immigrati e così via.
Il “pupone”, che si è accorto di essere diventato grande (era ora che qualcuno glielo facesse capire; ci ha pensato il nuovo direttore sportivo della A.S. Roma, poche settimane fa, dal momento che i tentativi di Spalletti per ben due anni sono andati a vuoto…), ha dato l’addio al calcio giocato davanti a 70.000 persone in lacrime. Ora se dico che preferirei vedere lo stesso pathos e la stessa partecipazione emotiva (e magari anche un po’ più di incazzatura…) in altre occasioni e in altri frangenti un po’ più importanti, divento retorico, me ne rendo conto, però siccome lo penso lo dico lo stesso.
E allora restiamo in ambito sportivo. Nessun calciatore è mai stato celebrato come Totti. Tanti altri campioni, sia in campo che fuori, che hanno vestito la stessa maglia per tutta la loro carriera come Mazzola, Facchetti, Rivera, Riva, Bulgarelli e, di recente, Zanetti e Maldini, hanno lasciato il calcio in modo molto sobrio. Giro di campo nell’ultima partita di campionato, applausi, ringraziamenti e fine della storia. Ricordo la partita di addio di Pelè (ho detto Pelè…) alla nazionale brasiliana: era il 1971, la partita era Brasile Jugoslavia. Aveva 31 anni, era nel pieno della forma, ma volle chiudere in bellezza. Al contrario, diciamolo, di Totti, che ha dato vita ad una penosa pantomima negli ultimi anni della sua carriera, costringendo il suo allenatore a farlo entrare negli ultimi dieci minuti non per ragioni tecniche ma per assecondare la piazza. Alla fine, naturalmente, ad essere cacciato è stato l’allenatore, non certo lui.
Al “pupone” si perdona di tutto: gomitate malandrine e sputi in faccia agli avversari sperando di non essere inquadrati dalle telecamere, palle tirate con le mani a gioco fermo in faccia agli avversari in segno di disprezzo, calcioni rifilati alle spalle in mondovisione previa rincorsa da venti metri, esposizione rituale e sistematica di magliette con sfottò alla tifoseria laziale dopo ogni stracittadina vinta. Data la sistematicità di tale ultimo comportamento è lecito oltre che logico supporre che se ne sia rinfilate nella borsa altrettante, anzi, anche qualcuna in più, in occasione di ogni derby perso. Ma questo è un altro discorso…
Ve li immaginate fuoriclasse come Mazzola, Rivera o Zanetti (così come tanti altri…) che al termine di un derby vinto “comunicano” ai tifosi avversari di “averli purgati ancora”? Io proprio no. E infatti non lo hanno mai fatto. E non mi risulta neanche che abbiano mai sputato in faccia ad un avversario.
Neanche Maradona è stato celebrato come Totti. E’ stato amato e osannato dai tifosi napoletani (e vorrei ben vedere…) ma è stato massacrato dai media e dal “palazzo” del calcio mondiale a cui non è mai stato simpatico, ne prima, né durante, né dopo. Troppo fuori dalle righe, troppo sregolato, troppo cocainomane, troppo poco se non per nulla formale, troppo “napoletano”, troppo amico di Fidel Castro (e di Gianni Minà), troppo poco politicamente corretto. Al “palazzo” servono quelli come Platini, addomesticati e tutti d’un pezzo, oppure i guitti, che ne siano consapevoli o meno.
E insomma, si arriva al giorno dell’addio. E allora giù lacrime. Piangono i vip, Carlo Verdone, Massimo Ghini, Claudio Amendola (come dimenticare molti anni fa la sua performance all’Olimpico con indosso la maglia del Milan per festeggiare la conquista dello scudetto da parte della squadra meneghina avvenuta a spese della Lazio?…), Maurizio Costanzo (il cantore ditirambico di Totti, nonchè fra i principali creatori della “Totteide”…), Lino Banfi, Claudia Gerini, Massimo D’Alema (ieri lo ha dichiarato anche a “Piazza pulita” sulla 7), Sabrina Ferilli (che una volta era della Lazio ma poi ha capito che era meglio diventare della Roma; del resto fa poco “in” essere della Lazio e meno male…), Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Maurizio Gasparri, l’immancabile Venditti (uno dei pochi, fra i vip di fede giallorossa, la cui commozione va obiettivamente rispettata…) e tanti altri ancora. Sicuramente avrà pianto o avrà finto (o comunque fingerà, se non lo ha già fatto…) di piangere anche lo juventino conclamato Veltroni (quello che “non è mai stato comunista”, quello delle figurine Panini, e pure quello che ha lasciato costruire non so quanti centri commerciali ai “palazzinari” quando era sindaco di Roma…) il quale, tenuto sottobraccio da Venditti, quando la Roma vinse il suo secondo scudetto nel 2001 si presentò al Circo Massimo, dove per l’occasione si erano radunate per festeggiare almeno cinque milioni di persone, e dichiarò: ”Questo non è lo scudetto della Roma ma lo scudetto di Roma”. L’anno prima la Lazio aveva vinto il campionato ma lui al Circo Massimo a pronunciare le stesse parole non c’era. Forse perché c’erano solo 200.000 persone… Non che qualcuno ne sentisse la mancanza, sia chiaro, anzi, ma ci siamo capiti…Del resto la Roma fa trend…
E naturalmente con loro piange tutto il popolo romanista, nessuno escluso, da Torbellamonaca ai Parioli. Piange naturalmente la curva sud, storica culla del tifo giallorosso e da almeno tre decenni covo riconosciuto (non dai media, ma sicuramente dalla questura) di tutti i gruppi ultrà neofascisti romani, Casa Pound in testa (e però è risaputo che “la Lazio è la squadra dei fasci”, che vogliamo scherzare…), ma piange anche la “sinistra antagonista” romana. Guardate infatti questa foto:
“Hasta siempre capitano”, recita lo striscione collocato in alto. Il riferimento non è a Ernesto “Che” Guevara (quello era il Comandante…) ma a Totti, il capitano (ormai ex) della A.S. Roma.
No, non è la sede di un club di ultrà romanisti ma del centro sociale “La strada”, uno fra i più noti a Roma, politicamente vicino a Casarini e ideologicamente al Tony Negri-pensiero (per lo meno così mi pare di ricordare, in ogni caso se mi sbaglio mi correggeranno, tanto non è questo il punto in questione…).
In proporzione – va detto – neanche Mohammed Ali fu tanto celebrato. Eppure stiamo parlando di un gigante, in tutti i sensi, che per essersi rifiutato di andare a combattere in Vietnam fu condannato a cinque anni di galera (che non scontò mai, ma fu privato del titolo, gli fu tolta la licenza e per quattro anni gli fu impedito di combattere, proprio all’apice della sua carriera e nel pieno dei suoi anni migliori). Sarà pure retorico ma è bene citare testualmente le sue parole, quelle con cui spiegava perché si rifiutava di andare a combattere contro i vietkong: ”La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato “sporco negro”, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Se le cose stanno così portatemi in galera”.
Teofilo Stevenson, campione del mondo cubano di boxe, scelse di restare fedele al suo paese e alla rivoluzione cubana e rifiutò un contratto di 5 milioni di dollari (parliamo di una quarantina di anni fa) per andare a combattere negli USA perché – disse testualmente anche lui – “Cosa volete che siano 5 milioni di dollari in confronto all’amore di 8 milioni di cubani?».
I due atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos pagarono molto duramente per il loro gesto di protesta alle Olimpiadi del 1968 a Città del Messico (alzarono il pugno durante la premiazione in segno di protesta contro la discriminazione razziale negli USA) e la stessa sorte toccò all’australiano Peter Norman che aveva solidarizzato con loro. Tutti e tre, fin dal loro rientro in patria furono per lungo tempo ostracizzati, emarginati, derisi, insultati e addirittura minacciati di morte.
Retorica? Può darsi, però i fatti, e anche gli uomini, sono e si manifestano per quello che sono. E questi, dal mio punto di vista, sono atleti che meritano di essere celebrati.
Ma il “tottismo” è anche altro. E’ la fenomenologia (un parolone ma ci capiamo…) di una “romanità” che ha perso ogni suo carattere originario e genuino. E’ la rappresentazione estetico-mediatica di un popolo che negli ultimi trent’anni si è andato modificando: in peggio, molto in peggio, diciamoci le cose per come stanno. E in questo caso, naturalmente, non sto parlando solo del popolo romanista ma di tutto il popolo, quello romano nella fattispecie, visto che di quello (cioè anche del mio) stiamo parlando. E dal momento che abbiamo utilizzato il calcio e i suoi protagonisti per capire questa metamorfosi (degenerazione?…) sociale, culturale e antropologica che è davanti agli occhi di tutti noi, voglio portare l’esempio (è proprio il caso di dirlo…) di un altro grande campione, dentro e soprattutto fuori dal campo, che ha fatto la storia del calcio romano e che a suo tempo è stato la bandiera indiscussa del popolo giallorosso: Agostino Di Bartolomei. Il mitico “Ago Diba”. Sembrano secoli da allora, eppure sono passati solo alcuni decenni.
E’ sempre poco piacevole fare paragoni, ma quanto rimpiango la sua malinconia, la sua serietà, la sua sobrietà, la sua passione tutta interiorizzata. Erano i tempi in cui non ci si ricopriva il corpo di tatuaggi impensabili e inguardabili, in cui non c’era necessità di tagliarsi i capelli in modo improbabile per essere più appariscenti e il consumo di massa di sostanze sintetiche era relativamente meno diffuso. Sia chiaro, il calcio era già da moltissimo tempo un’industria, un business, e anche, diciamocela tutta anche stavolta, uno specchietto per allodole, un momento di evasione dalla realtà per tanta gente a cui veramente, se gli si toglie anche quello, resta ben poco. Ma questa funzione di falsa coscienza, i “panem et circenses” l’hanno sempre svolta, non la inventiamo di certo noi. E dopotutto, è anche giusto svagarsi, a patto di non smarrire la bussola e di non arrivare ad identificarsi con chi nella testa, non ha nulla, ma solo tanti milioni in tasca o in beni immobili.
Ecco, Ago Diba era una sorta di “antieroe”, cioè in fondo un eroe vero. Perché gli eroi veri sono quelli che lo diventano per caso e/o per necessità, perché le circostanze, anche le più oscure come nel suo caso, alle quali se potessero si sottrarrebbero volentieri, li rendono tali. Ago Diba era uno di quelli e per quanto mi riguarda, lo ha dimostrato. Sono passati tanti anni ma quando penso a lui ancora mi commuovo…
Murales di Totti sulla facciata della scuola media pubblica Giosuè Carducci di Roma
Fonte foto: Magazine Roma (da Google)