La pedagogia rivolta alle
bambine e alle giovani in formazione è un incitamento a sgomitare all’interno
di un gioco competitivo che si richiede di non sottoporre a critica. Sotto
l’ombrello dell’autonomia e dell’emancipazione, non si vuole affatto educare
all’autodeterminazione, perché questa richiede l’attivazione dei processi che
conducono a capire dove e da che parte ci si mette come persona che esercita la
sua soggettività singolare. Ma proprio questa domanda e questi processi
aprirebbero alla questione sociale ed è quanto si vuole accuratamente evitare.
La questione di genere offre per il potere il grande vantaggio di dividere il
mondo in due, e inoltre di farlo orizzontalmente.
Il modello è estremamente pervasivo
e di grandissima efficacia pratica. In questo modo, molte ragazze e donne che
sono sinceramente convinte di partecipare ad una battaglia di emancipazione
sono le pedine di una subdola guerra orizzontale, la guerra tra i sessi.
Essendo una guerra orizzontale, essa ha precisamente la funzione di lasciare
inalterate, e anzi inasprire, tutte le regole del gioco; e di sguinzagliare,
nel contempo, subalterni contro altri subalterni per preservare intatti e
intangibili tutti gli spazi dell’attuale sistema di dominio. Il femminismo
neoliberale protegge il sistema. Altre donne giocano questa partita in modo
spregiudicato, cavalcano il vento prendendosi cinicamente tutti i vantaggi che
si possono prendere proprio mentre ostentano pose emancipatrici. Esistono
infatti donne di questa indole, proprio come esistono uomini di questa indole.
Né di più, né di meno. Ma l’occidente politicamente corretto ormai preda del
tecno-capitalismo e permeato dai suoi valori incoraggia questo tipo di donne.
Altre ancora, infine, hanno perfettamente compreso quanto sta accadendo e la
vera funzione, tutta ideologica, delle sfere discorsive delle “pari
opportunità” all’interno del femminismo neoliberale, la cui grande efficacia le
deriva, tra l’altro, dall’essere divenuta l’ideologia ufficiale anche delle
istituzioni, propagata dall’Unione europea, dai ministeri nazionali e da questi
alle scuole che, ormai a valle di tutti i processi decisionali e prive di
reazione come corpi morti, per lo più recepiscono in assenza di critica come anche
di dibattito interno. Del resto, come è noto il discutere non è tra le
caratteristiche dei cadaveri.
Eppure l’odierna narrativa
emancipatrice e progressista fa acqua da tutte le parti e le stesse fonti di
provenienza dovrebbero renderla come minimo sospetta. A meno che non si voglia
ancora credere che l’Unione europea, cioè una super-struttura burocratica al
servizio della governance mercatista e strumento della colonialità
europea nei confronti degli Stati Uniti, sia, nel quadro attuale, motrice di un
progresso civile oppure, e crederlo sarebbe fede ancora più cieca e
ardita, sociale.
Tuttavia, è evidente, e
sotto gli occhi di tutti, che il bollo istituzionale favorisce notevolmente la
coesione e il radicamento dell’ideologia. Il modus operandi è facile da
comprendere. Si prende un ordine di fatti del tutto selettivo, trascurandone
altri di segno opposto che sarebbero a pari titolo né più né meno importanti.
Per esempio si prendono le cosiddette facoltà STEM, dove le donne sono di meno;
e cioè si prende un dato come un altro all’interno di una serie statistica, dal
momento che esistono evidentemente altre facoltà dove sono i maschi ad essere
in numero minore. Tuttavia, si stabilisce aprioristicamente che soltanto uno di
questi dati non dovrebbe essere come è (tutti gli altri vanno bene); e si
asserisce, secondo un teorema per lo più deduttivo, che questa situazione è il
frutto di un pregiudizio radicato che deve dunque essere modificato.
Dopo aver consolidato tutti i passaggi di questo ragionamento fallace, si
dirigono in quel senso finanziamenti, si convogliano risorse; di più, lo si
adotta come punto di vista ufficiale del quale si fanno carico le istituzioni,
si costruisce di conseguenza la comunicazione istituzionale, si irrobustiscono
tutte le cinghie di trasmissione. Il gioco è fatto. Qualcuno ci crede. Qualcun
altro si adatta per opportunismo o per pigrizia. In ogni caso va bene.
Non è casuale, del resto,
l’alleanza tra “parità di genere” e ambito scientifico, perché si tengono
insieme, nell’ecosistema valoriale neoliberale e tecnocratico, femminismo,
capitalismo e retorica dell’innovazione. Quest’ultima, ovviamente, nella
neolingua diventa parte integrante di un postulato scientista parzialmente
implicito ma centrale nell’impalcatura ideologica, secondo il quale il
potenziamento illimitato della tecnologia tende ad essere di per sé
fonte di innovazione. Di fatto qualunque approccio critico, solo teoricamente
incoraggiato, è messo al bando. L’innovazione è un treno salvifico dietro al
quale bisogna correre, non c’è niente da discutere. Quindi, ci sono troppe
poche donne nel settore e punto, le donne devono essere di più, ma non c’è
nulla che non va nel modo di intendere la scienza, né la Tecnica, né il suo
illimitato potenziamento, che costituisce il sacro assioma del neoliberalismo
sfociato nell’ultimo quindicennio in un nuovo potere di natura tecnocratica. Ne
consegue che le regole del gioco sono perfette, anzi è chiaro che non devono
essere toccate, non devono essere spostate di un solo millimetro. Il punto è
che sempre più donne debbano parteciparvi, perché sono ancora troppo poche. È
qui che si tocca con mano come le “pari opportunità” e tutto quanto ruota
attorno ad esse costituiscano un apparato ideologico a protezione del sistema e
anzi a disposizione della sua recrudescenza. Che siano centrali le facoltà
scientifiche non è nulla di casuale. A nessuno verrebbe mai in mente di
eccepire sugli iscritti e le iscritte a facoltà di Lettere, di fare le pulci ai
numeri di filologia ecc. in base al sesso degli iscritti. Sono, invece, le
facoltà di ambito scientifico a legarsi strettamente al mito scientista e
all’idolatria della Tecnica al centro del nuovo potere tecnocratico; e dunque ad essere investite di tutta la
retorica emancipatrice delle pari opportunità e del femminismo neoliberale, che
sono gli arnesi ideologici al servizio del potere tecnocratico e della
definizione del suo orizzonte antropologico.
Le cosiddette “pari
opportunità” sono dunque utilizzate per blindare il gioco e le sue regole. Il
problema è soltanto che le donne debbano parteciparvi in numero maggiore. Il
messaggio è che quelle regole non rappresentano affatto un problema. Sono,
anzi, le regole dell’unico gioco possibile.
Quelle regole sono, invece, sempre più alienanti e disumanizzanti.
Ovviamente anche un’ampia
fetta dell’editoria incoraggia la stessa idea, cioè che le donne debbano farsi
strada al pari degli uomini in un mondo disegnato dal mercato e dalle sue
logiche competitive. In questo modo si usa la pedagogia rivolta alle ragazze
per confermare e anzi per iperbolizzare l’ordine mercantile; per far emergere
il messaggio che debbano armarsi di determinazione per affermarsi in un mondo
che non le accetta ancora come dovrebbe ma, e proprio questo è l’essenziale, in
un mondo che per il resto va benissimo cosi com’è. E nel quale rimane da fare
soltanto la battaglia progressiva per l’affermazione delle donne. Su questa
base nasce la “questione di genere”, tracciando una linea di divisione tanto
netta quanto artificiale utile all’annichilimento della questione sociale.
L’essenziale è che le lotte
non devono essere fatte contro i dominatori, cioè verticalmente dal basso verso
l’alto, ma devono essere riorientate orizzontalmente, cioè da subalterni verso
altri subalterni. Il sistema di valori dominato dall’etica del denaro, dal
commercio di ogni aspetto dell’umano, tutto questo va bene, anzi benissimo, si
tratta soltanto di renderlo paritetico tra i due sessi.
Non deve allora apparire
strano se proprio l’epoca delle STEM e delle stemmine, delle “pari
opportunità” e della “questione di genere” appiccicata come
contrassegno in copertina sui manuali, divenuta marchio doc che
certifica l’assolvimento del requisito di servilismo all’ideologia dominante
per un pugno di copie in più, è anche l’epoca in cui la scuola non più pubblica
viene forse definitivamente prostrata al mercato, viene resa ancella del
mercato; perché non sono affatto cose scollegate, sono anzi in stretta
relazione.
Così, laddove l’insegnamento
dovrebbe aiutare il discente a conoscersi, a capire dove si mette, quale parte
prende e quali valori sceglie, si profonde ogni sforzo perché non ci si conosca
più, perché ci si identifichi come genere, naturalmente in senso
interclassista all’ennesima potenza; e dunque impegnati in una lotta basata su
una linea di divisione per lo più artificiale. Molti educatori partecipano
attivamente nel trasferire questo messaggio. E non poche educatrici, in
maggioranza nella scuola (per carità, nulla in contrario..), lo fanno per una
non analizzata esigenza di auto-rappresentazione che poggia sulla stessa
confusa nebbia ideologica.
È questa la via giusta per incentivare l’auto-determinazione della soggettività, coniugata con la responsabilità che sempre comporta? Credo di no. Perché il messaggio di questa pedagogia, della cui trasmissione sono proprio le istituzioni a incaricarsi, è proprio questo: le regole del gioco non necessitano affatto di essere cambiate, vanno bene come sono, occorre solo garantire le “pari opportunità” cioè le stesse possibilità per le donne di partecipare allo stesso gioco competitivo e di mercato sempre più disumanizzante. Ma se le regole non hanno bisogno di essere cambiate e il mercato decide tutto, perché poi lamentarsi se, tra l’altro, la scuola pubblica frana paurosamente trainata dalle logiche del mercato?