Sanna Marin è stata presentata come la nuova eroina della post-modernità. Il suo incedere fluido, giovanilistico, apparentemente non convenzionale si è prestato alla perfezione per reclamizzare in tempi di guerra le virtù della libertà occidentale. D’altronde la sua scelta di avviare il processo di integrazione della Finlandia nella NATO doveva apparire agli occhi del mondo come la rappresentazione plastica della cultura emancipatrice nella società dei mercati. E non come la rottura di un equilibrio di pace. La propaganda di casa nostra fa buon uso delle armi argomentative in suo possesso. Oggi una giovane donna, per di più progressista, può permettersi di dichiarare guerra, di sovraintendere ai più perfidi negoziati, senza che alcuna responsabilità politica gli possa essere addebitata.
In realtà la premier finnica ingloba nella sua personalità, nei suoi tratti comportamentali, tutto ciò che oggi appare funzionale alla riproduzione illimitata del potere. La cultura manageriale che sostanzia l’ideologia neo-liberale è riuscita nel miracolo di miscelare politiche reazionarie con l’idea di un evoluzionismo individualista che aspira di continuo al progresso. Rendendo la diseguaglianza un accidente incontrastabile della natura. In questo contesto, premesso che l’affrancamento dall’ingiustizia è problema personale al massimo psicologizzabile, governare non è altro che un’applicazione tecnica di schemi valutativi equivalenti alla gestione d’impresa.
Ciò che colpisce delle foto in cui la giovane statista è stata ritratta nel corso di festini effervescenti è proprio la rivendicazione del diritto al tempo libero. Di un tempo da dedicare alla professione e di uno in cui abbandonarsi all’evasione. L’attività politica perde qualsiasi caratterizzazione etica, capace di assorbire l’intera esistenza, ma non per diventare immorale di per sé. I suoi tratti degenerati diventano equivalenti a quelli di qualsiasi attività ad alta responsabilità dirigenziale. In una sostanziale privatizzazione del fine pubblico. La politica si assoggetta alla dittatura del nuovo, del creativo, della scintilla imprenditoriale in una continua stimolazione verso il produttivo. Deve vivere intensamente attraverso lo stratagemma della comunicazione. Così le Istituzioni senza coscienza del passato, senza una predisposizione alla durata si riducono a prodotto commerciale. A ornamento del sociale.
Ma esiste una particolarità ulteriore nel consumo dello svago contemporaneo. Difatti la Marin non è il primo politico che si lascia andare a eccessi ludici. Celebri, ad esempio, i tavoli dei night club degli anni ’80 nei quali qualche ministro si lasciava andare a danze sfrenate. Ma allora quella socialità appariva più ingenua. Una manifestazione edonista poco ideologica, più casereccia. Non si rivendicava un diritto al piacere. Si cristallizzava l’ascesa del parvenu in un’estetica ridanciana. Quella sovrabbondanza di sudore, di cravatte arrotolate sulla testa, disegnavano una distanza di gusto, di inclinazione rispetto alle sobrie passeggiate in montagna dei politici di vecchia generazione. Però non delineavano un confine rigido tra vita privata e vita pubblica. Per questo motivo risultava indigesta ed esecrabile. Con tutto il suo portato grottesco.
Nella dimensione contemporanea irrompe al contrario un’etica del piacere illimitato. Dice di sé la premier “spero che nel 2022 si possa accettare che anche chi prende decisioni per un Paese, nel tempo libero possa essere felice e andare alle feste”. Si misura il livello di responsabilità con la legittimazione allo sballo. In una logica del tutto produttiva. Il tempo da dedicare a sé è una continua consumazione del presente, dell’attimo episodico in cui ci si affranca, attraverso l’oblio, dalla logica di produzione. Il tempo del riposo è così sacralizzato dal non poter essere giudicati, in quanto nella dimensione ricreativa il soggetto accumula serialmente esperienze individuali di ogni genere al solo scopo di ricaricarsi in vista della prossima performance. La consegna di un curdo nella mani dei suoi aguzzini diventa una generica responsabilità manageriale che contempla il successivo momento di ferie. Da assaporare con la disinvoltura dei giusti.
Il momento del piacere dunque viene integrato dalla cultura capitalista nel principio di prestazione. Più risulta sfrenato il godimento più la condizione estatica si eleva a emancipazione personale. Una depurazione dalle scorie della concorrenza che riconduce successivamente a un orizzonte esistenziale ossessivamente ripetitivo. Produzione – divertimento – produzione e così via all’infinito. Nel consumo famelico di sempre nuove emozioni si è costretti a rapportarsi esclusivamente a sé stessi, a un narcisistico rispetto di sé. Lo stress personale per la sovra-produzione è decontaminato da pratiche rigeneranti che nell’internazionalismo delle classi dirigenti sono uniformi e standardizzate. Così diete, svaghi, yoga, cura del corpo, assumono un significato messianico. Ascesi personale che prepara alla brutalità del combattente.
Questa spirale esistenziale che accompagna l’ideologia d’impresa è il meccanismo non compreso dal femminismo militante alla Michela Murgia, sempre pronto a difese d’ufficio delle donne che “contano” in quanto prede privilegiate di un patriarcato globale. In realtà la cultura dello sballo, della cura perfezionista di sé, della libertà sfrenata nei costumi, tratteggia e plasma una nuova aristocrazia, imbevuta di progressismo civilizzante. Solo chi ha alte responsabilità potrà legittimamente rivendicare un diritto all’eccesso. Da divulgare come fosse una nuova Morale. In questa dinamica si accentua la separazione antropologica tra popolo e classi parlanti. Con il merito professionale, con le luci della ribalta si ha il diritto di superare ogni limite senza apposizioni di stigmi. In quanto chi è relegato in esistenze in cui la routine annoia le giornate non potrà mai capire quell’intimo bisogno di evasione euforica che santifica le feste.
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