Proprio nei giorni in cui la repressione padronale ha trovato la sua espressione più cruenta servendosi di milizie private per aggredire i lavoratori, di crumiri per uccidere sindacalisti, riportando indietro le lancette della storia a inizio ‘900; quando insomma la questione sociale, il dramma del neo-schiavismo lavorativo, tornava prepotentemente all’ordine del giorno, ecco che in un batter baleno l’opinione pubblica è stata dirottata su tematiche etiche e civili, inter-classiste, che non toccano i rapporti di produzione e la questione dello sfruttamento umano da parte del capitale.
A far da eco a questo consueto dirottamento delle coscienze è quel ceto medio riflessivo, semi-istruito, perfettamente a proprio agio all’interno delle dinamiche dello spirito d’impresa, radicato nei quartieri giovanilistici, perennemente aderente ai dispositivi di comando del neo-liberalismo culturale. Come ha giustamente fatto notare qualcuno è sbagliato dividere la società contemporanea tra l’1% di miliardari e il 99% del resto della popolazione. Questa divisione percentuale non chiarisce i reali rapporti di forza tra chi si sente avvantaggiato dal sistema concorrenziale dei mercati e chi ne subisce le conseguenze in termini sociali. Non si spiegherebbe altrimenti il fallimento di movimenti quali Occupy Wall Street. La verità è che anche quelle rivolte così edulcorate sono state condotte da quella parte di popolazione comunque integrata nei meccanismi evolutivi e darwiniani della concorrenza mercantilistica.
Il punto di vista dei laureati cosmopoliti non ha a che fare con la realtà dei rapporti di dominio all’interno della globalizzazione dei mercati, ma tende lo sguardo sulla rincorsa alla realizzazione personale tenute ferme quelle dinamiche. Difatti continuano a porre come centrale la questione del merito. Quel ceto si sente meritevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Ammira la concorrenza forsennata dei nostri tempi pur raccogliendo le briciole a loro devolute dall’1% dei multi-milionari. Non contesta i presupposti ideologici dello spencerismo rammodernato ma si incapriccia per i criteri di accesso al club dei super privilegiati. Fatto sta che aderisce – inconsapevolmente o meno – al pensiero dominante in uno sconfortante conformismo ideologico. Il presupposto del merito è la creazione intellettuale o artistica, una sorta di folgorazione mistica, che fa il paio con il mito dell’innovazione imprenditoriale. Quel blocco sociale non rappresenta né potrà mai rappresentare le classi subalterne e degli esclusi.
In questo contesto esistenziale è assolutamente normale che le rivendicazioni abbraccino il terreno del personale. Il personale è politico insomma. Ma quel personale non ha alcun ancoraggio alla realtà o a ciò che realmente si è. Nell’ansia della prestazione competitiva il miraggio personale è attaccato a ciò che si percepisce di sé, a ciò che si vorrebbe essere. Per questo le inclinazioni, gli stati d’animo, i gusti si trasformano in diritti. Ma questi diritti non hanno nulla di relazionale, non contemplano l’altro o gli altri. Non si pongono in termini dialettici con la società. Tutto è racchiuso nell’ombra della propria volontà di affermazione. Ogni crisi personale, qualsiasi stato d’animo ha una sua etichetta che non dipende dal confronto con gli altri. Io sono sempre qualcosa. Io.
Quel ceto afferma dittatorialmente il proprio essere e lo impone senza dialettica. La proliferazione indefinita delle categorie di appartenenza sessuale non contempla né il reale né le dinamiche di relazione. La percezione di sé è imposta a tutti e assume rango di diritto assoluto, sempre indiscutibilmente giusto. Dipende esclusivamente dal desiderio di avere di più, dalla pretesa di assecondare sempre maggiori capricci esistenziali. Non concepisce lacci e strettoie al diritto ad avere diritti. Alla possibilità di poter fare o essere qualsiasi cosa. Esattamente il medesimo stato d’animo della libertà d’impresa che non può concedersi ostacoli etici o comunitari. Il profitto è etico di per sé. Sottolinea sempre coraggio e competenza. Il massimo godimento personale traccia culturalmente la linea che porta al massimo profitto.
Così nei prossimi giorni le multinazionali che riducono in schiavitù i lavoratori riceveranno applausi dai civilizzatori erasmussini per le loro campagne pubblicitarie colorate da arcobaleni. I partiti che indebitamente portano il nome socialista o comunista si accoderanno festanti. Il Partito Socialista Italiano o quel che ne rimane nelle ore della violenza padronale lancia la propria campagna per l’eutanasia legale. C’è da provare vergogna per loro