Oggi è politicamente corretto, anzi obbligatorio, definire Vladimir Putin un pazzo e un brutale assassino e addirittura auspicare la sua soppressione fisica, come fanno schiere di pacifinti sui social network. Questa reazione isterica all’invasione dell’Ucraina non ha nulla di genuino, a parte l’ottusità dei tanti che in (inescusabile) buona fede la diffondono, prestandosi a un gioco infinitamente più grande di noi tutti le cui regole non sono state dettate dalla Russia.
E’ persino banale osservare che la Storia dell’umanità è stata scritta da grandi personalità amorali, che per raggiungere i propri obiettivi non hanno lesinato sofferenza e privazioni a masse di individui e popoli interi, sacrificati come pedoni su una scacchiera: in una nota del suo romanzo Annibale, lo scrittore tedesco Gisbert Haefs contrappone il protagonista ad Alessandro Magno, Cesare e Napoleone, evidenziando che solo il primo combatté per impedire la rovina della patria – e va perciò moralmente assolto – mentre gli altri condottieri citati meritano la taccia di criminali poiché, una volta dissoltasi l’iniziale ammirazione per l’obiettiva grandezza delle loro imprese, ci appaiono nelle vesti di conquistatori spietati. Su questo giudizio si potrebbe discutere, ma merita tenerlo presente dal momento che pure Annibale è tecnicamente un “aggressore”. Sono in molti tuttavia a sostenere che la sua fu in sostanza una guerra difensiva cui fu indotto dall’intransigenza di Roma che, ingerendosi nelle vicende spagnole, cercava lo scontro risolutivo – e lo ottenne, anche se per vincerlo e annientare la rivale dovette impegnarsi e soffrire più del previsto.
Ci sono dei casi, anche recenti, in cui è più semplice effettuare una valutazione: l’attacco statunitense condotto nel 1983 contro l’isola di Grenada, un innocuo staterello sovrano delle dimensioni della provincia di Gorizia, fu senz’altro proditorio e ingiustificabile[1], ma la schiacciante disparità di forze consentì un rapidissimo successo e l’opinione pubblica mondiale non manifestò particolare indignazione, pur a fronte di numerose vittime civili. Altrettanto indiscutibilmente costituirono guerre di aggressione quella contro l’Afghanistan del 2001, la seconda spedizione contro l’Iraq, “motivata” da prove fabbricate ad arte, le campagne di Serbia e di Libia: eppure in tutte queste occasioni le voci di protesta in Occidente si levarono solo dal campo della sinistra c.d. radicale, i bravi cittadini non si scomposero troppo e nessuno si sognò mai di invocare condanne penali per Reagan, Clinton e George W. Bush – a finire male (o malissimo: si pensi a Gheddafi, scannato come una bestia fra le risa degli aguzzini) furono i leader aggrediti e la loro gente.
Come giustificare un doppiopesismo di cui qualunque essere senziente dovrebbe riconoscere l’abnormità? Nessun mistero: chi maneggia le tecniche di marketing sa benissimo che percezioni e atteggiamenti dei cittadini-utenti sono plasmabili più agevolmente del pongo. Una strategia comunicativa a bassa intensità, ma ben orchestrata, continuativa e coerente ci ha inculcato alcuni “punti fermi”, che non poniamo neppure in discussione perché sentiamo ormai nostri: l’Occidente è sinonimo di democrazia e diritti umani, ogni sua azione – anche la più efferata – è in difesa della libertà, i nostri governanti possono sbagliare, ma sono mossi da ottime intenzioni. Specularmente gli altri, specie se non sottomessi, sono tiranni e delinquenti che opprimono i propri sudditi e minacciano la pax americana a noi graziosamente elargita: vanno pertanto contenuti, indeboliti, all’occorrenza fatti fuori senza particolari scrupoli. Questa narrazione in bianco e nero, del tutto inverosimile per la sua apparente rozzezza, è divenuta col tempo senso comune, e ciò spiega la disarmante corrività di moltissimi cittadini, anche acculturati, e la loro prontezza pavloviana a indignarsi a comando. Prigionieri di un Truman show dai contenuti spazzatura, ma girato con grande perizia tecnica, i nostri indignati ripetono a pappagallo battute suggeritegli dallo sceneggiatore americano.
Una domanda che potremmo porci è la seguente: ammesso che il distinguo di Haefs (che mi convince) abbia una sua logica, è ragionevole paragonare mutatis mutandis il presidente russo ad Annibale Barca, che si difendeva attaccando? Ricordiamo che dagli storici romani egli fu accusato di perfidia plus quam punica, cioè di giocare sporco, e di ogni possibile nequizia, anche se i fatti riportati attestano una condotta a tratti cavalleresca verso il nemico (esempio: l’onorevole sepoltura del console Marcello caduto in battaglia, trattamento ben diverso da quello riservato all’eroico Asdrubale) e la ritrosia a cancellare l’avversario dalla faccia della terra (il Barcide si riproponeva non la distruzione di Roma, bensì una sorta di “smilitarizzazione”). Grazie al lavoro di storici come Giovanni Brizzi oggi assistiamo a una rivalutazione del condottiero cartaginese, ma sono passati più di duemila anni dalle sue gesta: all’epoca egli era assurto a orco cattivo, al punto che le matrone romane evocavano il suo fantasma per spingere i figli recalcitranti ad andare a letto. C’è una frase di Polibio, riferita alla contesa con Sagunto (città situata a sud dell’Ebro, e dunque all’interno del dominio punico, ma alleatasi in extremis con l’Urbe) che vale la pena di riportare, perché suona molto attuale: “Annibale era dominato dalla propria impulsività e dal proprio odio (antiromano ndr), e non si legava a motivi reali, ma andava a cercare inutili pretesti […] come fanno coloro che non tengono in considerazione ciò che è giusto”.
E’ innegabile che questa frase assomigli molto a quelle di condanna rivolte oggidì a Vladimir Putin, e potrebbe anzi venir ripresa pari pari da un quotidiano mainstream. L’Ucraina come Sagunto, assediata per mesi prima della capitolazione? E’ possibile sostenerlo, esaminati taluni elementi: il Paese dell’est si trova all’interno di un’area storicamente russa, è spalleggiato da potenze straniere, rifiuta di trattare se non da presunte posizioni di forza e non vuole concedere nulla. C’è però una piccola differenza: Sagunto, vicina al mare senza essere porto, rappresentava in combutta con i romani una minaccia secondaria per Cartagine, mentre un’Ucraina prossima all’ingresso nella NATO è un avamposto strategico contro la Russia e Mosca, esposta al lancio di armi devastanti che nel III secolo a.C. non erano neppure immaginabili. Non finisce qui: da vent’anni a questa parte la Russia seguita ad affermare che l’entrata del Paese storicamente fratello nell’alleanza che gli ingenui (o beoti) definiscono “difensiva” sarebbe inaccettabile e causerebbe l’assunzione di ferme contromisure. Il truce Putin è stato così ambiguo e poco chiaro da ribadire mille volte l’assunto, pubblicare le richieste del suo Paese e – il giorno antecedente l’attacco – assistere con l’alleato Lukashenko a un’esercitazione missilistica che aveva l’evidente scopo di manifestare agli occidentali la serietà delle sue intenzioni, già desumibili dal prolungato schieramento di truppe ai confini ucraini. Nessun effetto: gli hanno dato del folle, dopo aver riempito per anni gli arsenali di Kiev e aver avallato, con un complice silenzio, i crimini commessi dai miliziani ucraini contro le popolazioni russe del Donbass.
Qua non si tratta di stabilire se Volodja sia una “brava persona”: raramente uno statista lo è, come ben sapeva Harry Truman[2] – si tratta di comprendere le ragioni di una scelta senz’altro dolorosa e foriera di lutti. Che gli USA e i loro satelliti bramassero questa guerra è per me palese: il susseguirsi tamburellante, nell’arco di pochissimi giorni, di provvedimenti sanzionatori certifica che non sono stati presi alla sprovvista, e la premeditata russofobia scatenatasi nel giro di una settimana (con la messa al bando di artisti, fotografi e perfino di atleti paraolimpici, i più innocenti di tutti, per non parlare dei furti a danni di magnati che non fanno più schifo di quelli occidentali) e facilitata dalla gestione autoritaria dell’emergenza Covid-19, che ha generato assuefazione all’obbedienza cieca, conferma l’impressione che hoc erat in votis. Putin sapeva che stava cacciandosi in un ginepraio, era ben conscio che il copione era stato redatto da altri quando la notte del 24 febbraio ha ordinato l’inizio dell’operazione speciale: per questo io credo gli tremassero le mani mentre, qualche giorno prima, si rivolgeva a un popolo russo di cui – secondo me non per assumere una posa – si erge a tutore. L’Ucraina è una trappola ben architettata: estesa e provvista di un esercito agguerrito – oltre che di feroci bande nazionaliste – non può essere piegata con ciechi e distruttivi bombardamenti come la Cecenia (oppure l’Iraq), perché è parte integrante della Storia nazionale. Dalle poche notizie credibili evinciamo che l’Armata si sforza di risparmiare i civili, ma questo la espone al logoramento e a punzecchiature continue da parte dei resistenti, rinvigoriti da forniture di armi effettuate o anche solo annunciate: il Presidente russo è in oggettiva difficoltà, poiché non può permettersi né la distruzione dell’Ucraina (che contraddirebbe la sua retorica, che valuto sincera, dei popoli fratelli) né perdite eccessive in mezzi e soprattutto in uomini, che finirebbero per alienargli la fiducia del grande Paese. D’altra parte è consapevole che non ci sono alternative alla vittoria, per costosa che sia: da anni gli Stati Uniti puntano a un cambio di regime che comporterebbe, oltre a conseguenze personali per lui e chi gli sta intorno, l’implosione della Russia, la sua scomparsa dal novero delle potenze, una ricaduta della popolazione nello stato di indigenza e insicurezza sperimentato durante l’era del Quisling ubriacone Eltsin. Sono perciò dell’avviso che la messa in allarme delle forze di deterrenza strategica non sia affatto una boutade o un gesto dissennato, come la propaganda nostrana vuol farci credere, bensì la mossa lucida e disperata di un uomo che tiene alla sopravvivenza della sua patria e che, pur non avendo molti scrupoli, sa per esperienza professionale che il nemico “democratico” ne ha ancora meno.
Forse il paragone con Annibale non è allora campato in aria, anche se le due personalità sono solamente in parte sovrapponibili: grande mente politica lo statista nato a Leningrado, genio a tutto tondo il punico che, tuttavia, non riuscì a impedire la rovina della sua terra e morì braccato e colmo d’amarezza in esilio.
Se è vero quel che dice nella sua ultima intervista quel nobile combattente delle idee che fu Giulietto Chiesa (e io ne sono persuaso) gli Stati Uniti si preparano a cacciare russi e cinesi dalla Storia: ci riuscissero questo mondo non avrebbe più ragione di esistere. Nel frattempo i loro agenti bandiscono Dostoevskiy dalle università e direttori d’orchestra russi dai teatri, contribuendo allo spargersi di un odio che – fossimo davvero persone civili, libere e mature – non proveremmo.
Purtroppo siamo nella maggioranza pecore, e a Dostoevskiy possiamo rinunciare: perché non lo comprendiamo, così come non comprendiamo la Storia che da lustri ci addestrano a reputare una materia inutile.
[1] E anche piuttosto codardo, mi si passi il termine: https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Urgent_Fury
[2] Che a quanto ci raccontano affermò una volta: “Anche mio zio Joe è una brava persona, ma non per questo può diventare Presidente degli Stati Uniti”.