La bancarotta universale in cui siamo è puntellata di tragedie che non si vogliono leggere nel loro valore contestuale. La morte tragica e orrida della piccola Diana di soli diciotto mesi in un piccolo appartamento della periferia milanese non è solo un fatto di cronaca, ma è la spia degli effetti distopici del neoliberismo.
La madre l’ha abbandonata per circa una settimana, il padre pare sia sconosciuto alla stessa madre. Storia di monadi che si infrangono in una giornata d’estate. Le responsabilità individuali saranno accertate, ma se ci si limita a registrare queste ultime senza il contesto si cade nell’astratto, per cui il semplicismo rischia di oscurare la verità sociale di questo dramma estivo. Non si può restare stupiti dalla notevole morigeratezza delle parole e dei commenti dei media. La condanna è unanime naturalmente, ma non si può non notare una certa misura nelle parole. Si può ipotizzare che tale prudenza nel commentare l’accaduto celi il timore che si possa discutere criticamente un certo modello sociale di emancipazione da ogni regola ed etica tanto caro ai media. Nello stesso tempo vi è da sollevare un dubbio: qualora fosse stato il padre a commettere un crimine tanto efferato l’effetto sarebbe stato uguale? Dubitare è lecito, in quanto per il semplicismo nel quale siamo caduti gli uomini sono associati in toto al genotipo negativo dell’umanità: sono stupidi, violenti ed anaffettivi, mentre le donne sono il genotipo positivo dell’umanità, pertanto avvenimenti che smentiscono il neopositivismo lombrosiano imperante sono trattati con particolare “attenzione”. Pensare insieme è di ausilio per razionalizzare il presente ed uscire dalle pastoie dei nuovi pregiudizi di genere.
Il contesto e l’humus culturale cambia il tipo di azione e reazione dinanzi ai crimini, dobbiamo prenderne atto. Nulla è neutro, in nessun caso è possibile la semplice registrazione di un fatto di cronaca con i suoi contenuti.
Il primo punto da cui partire in un’analisi che non vuol essere esaustiva, ma ha lo scopo di pensare l’accaduto è l’indifferenza generale che fa da sfondo alla vicenda, essa è la vera causa remota e prossima della tragedia che non cancella in alcun modo le responsabilità personali.
I vicini non hanno sentito nulla, si limitano a rilevare le carenze materne, ancora una volta si inciampa in individui separati e incapaci di comunicare e solidarizzare. Ogni bambino in una comunità sana è di tutti, ogni componente della comunità può fungere da genitore, ne può avere cura fino a far sfumare la rigidità dei ruoli famigliari. L’individualismo liberista, invece, insegna a nutrirsi del solo privato, è lecito coltivare solo i propri interessi individuali tanto che non si osa entrare nelle vite degli altri anche in presenza di dinamiche famigliari non positive.
La cultura liberista non può eliminare l’intenzionalità empatica, condizione prima del vivere comunitario da mediare con il logos, ma la inibisce, la rinchiude in sovrastrutture che ne neutralizzano l’azione. Se dinanzi alle necessità di una madre e di una figlia in palese difficoltà ci si ritrae è evidente che vi è un problema etico profondo, il quale favorisce il prodursi di tali tragedie che si ripetono puntualmente nel periodo estivo.
L’estate nell’ottica liberista non è la stagione dell’incontro, ma del consumo senza vincoli, l’estate è il narcisismo senza limiti che si materializza nei sogni speculari agli slogan pubblicitari: tutto dev’essere senza limiti. Ci si sente conformi allo stile della propaganda della macchina dei consumi solo se si eccede e si abbandonano i vincoli affettivi in nome della libertà che si ribalta in nichilismo edonistico. In tale clima la speranza di una vita migliore diviene fuga dai vincoli, anche del più profondo: la maternità-paternità. Diana non è stata percepita come un dono, forse perché non voluta, frutto di un incidente fugace, è stata vissuta come un limite alla speranza di un vita migliore che in linea con l’ideologia liberista è solo individualismo senza legami, il quale promette l’impossibile, ma regala solo disperazione.
Le immagini della madre in rete con il suo vestito rosso sono in linea con la logica della vetrina che ha pervaso ogni ambito. L’autopromozione continua sostenuta dal sistema in un contesto di solitudine, povertà etica e di incapacità di senso critico sono il cocktail venefico che non può che produrre tragedie di tal genere. Sul fondo vi è una crisi profonda: le donne costrette dal sistema ad inseguire il modello del maschio liberista e predatore non riescono a dare valore alla maternità, potenzialità iscritta nel loro corpo, essa è vissuta come un disturbo e un limite alla carriera o semplicemente alla libertà interpretata come liberazione da ogni legame. In realtà le donne che sono esaltate dal sistema sono negate nella loro specificità, le si usa semplicemente. Donne che non hanno avuto formazione adeguata sono le prime a cadere nella trappola liberista. A questa crisi profonda della maternità e della donna si risponde solo con lo scandalo ipocrita che dura lo spazio di un mattino ed è occasione per i media per vendere soffermandosi sui dati pruriginosi, i quali non aiutano a comprendere la profondità della tragedia in cui siamo.
Società del male
Il male è superficiale, vivere in superficie, sperare che l’esistenza possa avere una svolta qualitativa per la sola autopromozione significa vivere in superficie e nell’abbaglio di sé, e ciò non può che indurre a tragedie inaudite, in quanto si coltiva la dimenticanza di sé e dei propri legami. Sul banco degli imputati non vi dovrebbe essere la sola madre, ma un intero sistema che sradica da se stessi, che ha in odio la maternità in quanto relazione gratuita. Ci si ostina a giudicare, ci si limita ad indicare la madre colpevole, ma si assolve il contesto desertificato a livello assiologico ed istituzionale. I servizi sociali sono stati tagliati, i più deboli, i bambini, sono lasciati al loro destino e alla buona fortuna che spesso non bussa alla porta degli ultimi. La nuda vita avanza e falcidia i più deboli, i carnefici si confondono con le vittime, in tale frangente ricordiamo le parole del poeta Nazim Hikmet ai bambini:
Prima di tutto l’uomo
Non vivere su questa terra
come un estraneo
e come un vagabondo sognatore.
Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare,
ma prima di tutto credi all’uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri,
ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca,
dell’astro che si spegne,
dell’animale ferito che rantola,
ma prima di tutto senti la tristezza
e il dolore dell’uomo.
Ti diano gioia
tutti i beni della terra:
l’ombra e la luce ti diano gioia,
le quattro stagioni ti diano gioia,
ma soprattutto, a piene mani,
ti dia gioia l’uomo!
Non c’è umanità, se viviamo da estranei e stranieri: alla distanza del liberismo bisogna opporre nel nostro quotidiano la cultura dei legami senza i quali non abbiamo un volto ma solo distruttivi desideri. Ricordare Diana e la madre significa ripensare la realtà e la verità in cui siamo. Nessuno diventa umano senza essere amato.
Fonte foto: Corriere Milano (da Google)