Un segno di controtendenza? Sì, se lo si studia con un’angolazione ristretta. Di riaffermazione dei Jobs act se lo si esamina nei dettagli e nei suoi principi di fondo.
Tra i tanti meriti che gli vengono attribuiti: un sostegno al dopo il licenziamento, nei contratti a tutele crescenti, con un aumento da quattro a sei mensilità come soglia minima e da 24 a 36 come soglia massima. Una cosa buona per sopravvivere un poco di più. Ma nessuna altra garanzia. Rimane invariato il concetto di licenziabilità ingiustificata da risolvere con una elemosina. Rimane fuori dalla porta l’articolo 18 che tutela il lavoratore dai capricci e dai ricatti del padronato. Viene riaffermata l’esclusione dell’articolo 18 che simboleggiava realmente la conquista della dignità e che, in assenza, simboleggia, nei jobs act e così ora nel c.d. Decreto dignità, il potere dittatoriale dell’imprenditore, dell’impresa.
Può essere considerato positivo l’abbassamento del contratto a tempo determinato a 24 mesi e non più a 36 con quattro proroghe e non più cinque. Ma non esistono prescrizioni perché ciò venga rispettato. Il padrone o il padroncino possono licenziare e poi riassumere facendo rimanere il lavoratore sempre al primo gradino. Non solo. Non vi sono delle norme che costringano l’impresa a non praticare il turn-over licenziando ed assumendo nuovi lavoratori a tempo determinato e che prescrivano invece che un determinato numero di lavoratori già assunti precariamente conquistino il tempo indeterminato.
Altra novità rispetto ai tempi bui creati dalla Riforma Fornero è il recupero della “causalità”. il datore di lavoro deve giustificare l’utilizzo del contratto a tempo determinato (assenza di personale o aumento del carico di lavoro, previsioni di aumento del fatturato…). Anche questa una cosa buona, tuttavia facilmente smontabile dal datore di lavoro che può scrivere tutte le menzogne che vuole ( chi ha avuto a che fare con i capitani dell’industria conosce la malafede, l’arroganza, l’astuzia, la complicità con il potere politico).
Misure contro le delocalizzazioni. Ottimale, sarebbe. Le imprese che delocalizzano con aiuti di stato dovrebbero subire delle sanzioni pesanti ( restituire i fondi ricevuti ed essere multate). Le imprese ricevono regalie notevoli in forma di sussidio all’occupazione, tramite varie tipologie di bonus fiscale, da parte dello Stato, nonché altre agevolazioni che provengono da fondi europei… Ma nessuna di tante donazioni può essere configurata come aiuto di stato che è proibito dalle normative dell’Unione Europea. Potrei affermare che nessuna impresa sarà penalizzata per aiuti di stato. Perciò nessun reale ostacolo alla esternalizzazione oltre i nostri confini
Per quanto riguarda il lavoro relativo alle piattaforme digitali. Per il lavoro a chiamata, per il lavoro c.d. “non subordinato” e per tutte le altre forme di precariato indecenti e “indegne” nessun intervento. Categorie di lavoratori senza nessuna tutela (ferie, maternità, infortunio, malattia…) lasciati completamente allo sbando dai jobs act, e ancor prima dalla c.d. legge Biagi…
Naturalmente la Confindustria è montata su tutte le furie perché ha scorto qualcosa che non era in linea con la politica anti-operaia di questi ultimi 40 anni e che ha visto nel PD il pilastro neoliberista delle conquiste confindustriali di questi ultimi anni. Il PD, del tutto inconsapevole delle ragioni profonde delle sue sconfitte, ha farneticato di prossimo disastro occupazionale, dovuto alla “rigidità del mercato del lavoro” creato dai 5Stelle. Le grida di questi avventurieri della politica accompagnata dalle asinerie del mainstream (capofila come di consueto “Repubblica”) hanno fatto pensare a molti che il Decreto avesse un carattere eversivo. Ci hanno pensato poi i 5Stelle a pompare l’importanza “rivoluzionaria” di un provvedimento legislativo che scalfirà appena il diritto al lavoro fondato attualmente sul precariato e sulla mancanza di dignità del lavoro.
Ma è importante che non venga sottovalutato dai sindacati di base (USB, Cobas…), che sappiano aprire vertenze sulle problematiche sollevate dai 5Stelle (abbassamento dei contratti a tempo determinato, indennità per il licenziamento, delocalizzazione…) e che riescano a introdurre nuovi termini di conflitto (lavoro a chiamata, lavoro “non subordinato”…).
Due passi indietro perché è stata sancita con questo Decreto la legittimità dell’esclusione dell’articolo 18 che è la vera garanzia della dignità del lavoro, il simbolo della conflittualità di classe tutelata per legge. Al di là di questo articolo si è potuto assistere al crollo dei diritti sindacali e del lavoro, della democrazia interna alla fabbrica, dello sbandamento della classe operaia, del suo declassamento politico, della sua decimazione. Perciò un ringraziamento ai 5Stelle per essere andati, pur con tutti i limiti che ho voluto rilevare, in “controtendenza”… e un appello ai militanti perché sappiano andare oltre… per recuperare realmente la “dignità” perduta.
NOTA
Tra gli articoli di rilievo di commento al “Decreto Dignità” cito innanzitutto “Il decreto che conferisce dignità al jobs act” di Giorgio cremaschi in “Micromega 4/7/18, da tempo fuori dalla Cgil e vicino attualmente ai sindacati di base. La vicinanza ideologica con il sottoscritto risulta evidente. Naturalmente più autorevole il testo di Giorgio Cremaschi.
Voglio ricordare anche Federico Martelloni “Lavoro e (decreto) dignità” Micromega 3/7/18 e Norberto Fragiacomo “Decreto dignità: un primo passo (timido) in controtendenza” in l’Interferenza 6/7/18
Foto: Uilfplpavia.it (da Google)