La favola del Patriarcato (una
realtà virtuale che assieme ad un altro ectoplasma, il merito, si aggira ultimamente per l’Italia mediatica) avrà, a
quanto pare, un lieto fine con l’introduzione del reato di “femminicidio”: lo
schema di disegno di legge, predisposto un po’ alla chetichella dal Governo, è
stato presentato al Senato a inizio marzo.
Il testo consta di sette
articoli, solamente il primo dei quali apporta modifiche al Codice penale
inserendovi per l’appunto il nuovo delitto di “Femminicidio” (art. 577-bis). Il
brutto neologismo è ormai entrato nell’uso giornalistico ed è ozioso perciò
lamentarsene: meglio esaminare la norma sotto il profilo contenutistico.
Apprendiamo che “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in
quanto donna o per reprimere
l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione
della sua personalità, è punito con l’ergastolo.
Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575 (quello che
punisce l’omicidio volontario)”; in ogni caso, anche in presenza di una
pluralità di attenuanti, la pena non può mai essere inferiore a 15 anni di
reclusione. Una volta accertati l’intento discriminatorio ovvero l’“odio di
genere” ecc. incorrono in un pesante aggravamento della sanzione edittale anche
gli autori di reati di maltrattamento, lesioni personali, omicidio
preterintenzionale, interruzione non consensuale della gravidanza, violenza
sessuale e c.d. revenge porn,
Si nota di primo acchito una
certa sciatteria redazionale, cui peraltro siamo avvezzi da tempo: nelle prime
due ipotesi (fintamente) alternative l’odio e la “discriminazione” si configurano
come moventi e il dolo resta generico, mentre nelle ultime due il legislatore
individua un’apparente pluralità di fini particolari e l’elemento soggettivo
acquista pertanto il carattere di dolo specifico (agisce allo scopo di…). A ben vedere, tuttavia, è abbastanza inverosimile
che qualcuno uccida o ferisca un’altra persona con l’intenzione di compiere un
“atto discriminatorio” (può darsi si volesse stigmatizzare il disprezzo esibito nei confronti della
vittima…), mentre l’odio è, insieme all’istinto predatorio, la causa più comune
dei fatti di sangue. Si osservi però che la scelta di valorizzare l’odio
(concetto, per vero, piuttosto vago e indefinito, anche perché i sentimenti di
ostilità possono essere gratuiti o, al contrario, ben motivati) soltanto se
diretto contro una “persona offesa in quanto donna” si traduce di fatto in un
atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’essere umano di sesso maschile
che a sua volta subisca un’analoga violenza – sulla questione torneremo nel
prosieguo. Ma c’è pure un altro problema che la succitata formula non risolve:
come facciamo a capire se il risentimento provato da Tizio verso Sempronia sia
diretto contro di lei “in quanto donna” o in quanto singolo e irripetibile
individuo? Quanto all’intenzione di “reprimere l’esercizio dei diritti e delle
libertà”, non sempre essa si manifesta chiaramente e l’autore del crimine – si
pensi all’ipotesi del raptus – potrebbe persino esserne inconsapevole, non
avendola formulata a livello conscio; idem dicasi per la volontà di impedire
attivamente l’espressione dell’altrui personalità. I soggetti individuati dalla
fattispecie sono, a ben vedere, “uomini che odiano le donne” in quanto tali,
misogini dottrinari (per così dire)
che costituiscono tuttavia solamente un’infima percentuale di coloro che si
macchiano di condotte violente contro appartenenti all’altro sesso. Il modello
parrebbe lo stupratore in divisa del tempo di guerra, che però oltraggia la
donna anzitutto in quanto componente di
una popolazione nemica.
Il rischio è che la norma risulti
inapplicabile ovvero che essa, al contrario, sia applicata meccanicamente –
senza troppe indagini fattuali e psicologiche – in tutti i casi in cui la
vittima sia femmina e il colpevole maschio. Si introdurrebbe così di soppiatto
nel nostro ordinamento penale un concetto mutuato da quello (nazista) di Tätertyp, cioè di tipo di reo: la
gravità del fatto e addirittura la punibilità dell’agente dipenderebbero
dall’appartenenza di quest’ultimo a specifiche categorie di persone, valutate
positivamente o meno.
È legittimo chiedersi, giunti a
questo punto, se l’introduzione di un nuovo reato proprio (tipico cioè degli
individui di sesso maschile) risulti davvero necessaria e se la norma, così
come la leggiamo, sia conforme al principio di uguaglianza sostanziale (art. 3,
2° comma, della Carta Fondamentale) e dunque immune da vizi di
incostituzionalità.
Per rispondere al primo quesito dobbiamo confrontare
la fattispecie di prossima introduzione con la disposizione che punisce
l’omicidio (art. 575 c.p.) e che così recita: “Chiunque cagiona la morte di
un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Condotta
ed evento devono essere voluti, il reato è a condotta libera (potendo
consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione), moventi e circostanze
rilevano soltanto ai fini della quantificazione della pena e dell’applicazione
di aggravanti e attenuanti, il termine “uomo” è pacificamente da intendersi
come “essere umano”. Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: la
“reclusione non inferiore ad anni ventuno” viene sensibilmente ridotta al
ricorrere delle attenuanti comuni (art. 62 c.p.) che, al pari delle aggravanti
standardizzate di cui all’art. 61, sono pacificamente applicabili – ne consegue
che la pena effettivamente comminata nel caso concreto può scendere molto al
di sotto del minimo di 15 anni stabilito invece per il c.d. femminicidio.
Merita osservare che i successivi articoli 576 e 577 disciplinano delle
fattispecie di omicidio aggravato, sanzionabili addirittura con l’ergastolo:
tra le ipotesi annoveriamo l’omicidio premeditato, cioè pianificato in anticipo
(l’esempio più noto è quello dell’assassinio di Giulio Cesare ad opera dei
congiurati…), l’avvelenamento nonché il delitto commesso “contro l’ascendente (=parricidio) o il discendente anche
per effetto di adozione di minorenne o contro il coniuge, anche legalmente
separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona
stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione
affettiva” (art. 577, 1° comma, n. 1). Se invece la vittima coincide con “il
coniuge divorziato, l’altra parte
dell’unione civile, ove cessata, la
persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove
cessate, il fratello o la sorella, l’adottante o l’adottato (…), il padre
o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta”,
vale a dire suocero/a, genero o nuora, la pena detentiva va da ventiquattro a
trent’anni (2° comma). Come si vede il legislatore aveva già previsto un
incremento sanzionatorio in tutte le eventualità di “delitti in famiglia”,
ricomprendendo fra questi ultimi pure l’uccisione dell’ex partner, maschio o
femmina che sia: l’innovazione normativa non fa altro che differenziare il
trattamento a seconda del sesso della persona offesa. Certo, vi è una
minoranza di “femminicidi” che avvengono al di fuori dell’ambito familiare lato
sensu inteso, ma al riscontro, da parte del giudice penale, dei presupposti
“tipizzati” (si fa per dire…) dal futuro articolo 577-bis l’autore già oggi
incorrerebbe perlomeno nell’aggravante dei motivi futili o abietti.
In sostanza la recentissima previsione si limita ad
inasprire le pene per condotte già severamente sanzionate, a condizione però
che siano rivolte contro un essere umano appartenente al genere femminile: se ceteris
paribus ad essere ucciso è un uomo – nel senso di vir –
continueranno a trovare applicazione i “vecchi” articoli del codice… anche
nell’evenienza, statisticamente meno frequente ma non proprio “di scuola”, che
ad agire mossa dall’odio o dal disprezzo sia una donna.
Per giustificare l’evidente discriminazione ci
si richiamerà senz’altro al principio costituzionale di uguaglianza
sostanziale, che consente (anzi: imporrebbe) di affrontare in maniera diversa
situazioni apparentemente analoghe allorquando si manifesti l’esigenza di
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana”. Il ragionamento – presentatoci dai media e dalla politica come
un indiscutibile assioma – è il seguente: visto che le donne versano in
condizioni di intollerabile inferiorità rispetto ai maschi e sono esposte alla
brutalità di questi ultimi esse hanno diritto a una maggior tutela giuridica
(“Tutti gli uomini devono fare mea culpa!” ha tuonato la sorella di
Giulia Cecchettin, coniando un nuovo tipo di responsabilità, quella”di genere”,
che pochi hanno osato contestare nonostante l’assoluta gratuità
dell’affermazione).
Si tratta a questo punto di appurare se le cose stiano effettivamente come ci vengono raccontate e se l’allarme causato da disparità sociale e aggressività maschile renda opportuno ed anzi improcrastinabile un intervento come quello di cui si discute. Partiamo da un dato – credo – incontestabile: negli ultimi 150 anni la condizione muliebre è gradualmente migliorata in tutta Europa, Italia compresa, e il tasso di violenza domestica è ovunque scemato – e di parecchio. Sopraffazioni che a suo tempo il sentire comune e le stesse leggi giustificavano quali espressioni di un supposto jus corrigendi maritale – per non parlare di turpitudini su cui vicinato e società preferivano in genere chiudere gli occhi – vengono oggigiorno denunciate con giusto sdegno e doverosamente perseguite: l’ambito familiare non è più una sorta di corte dei miracoli o di zona franca e l’eguaglianza di diritti fra i sessi è data per scontata. È difficile negare, insomma, che la diffusa scolarizzazione e il raggiungimento da parte delle classi subalterne di un tenore di vita più dignitoso abbiano contribuito all’elevazione della coscienza sociale e alla messa al bando di costumi e comportamenti che in altre epoche erano tacitamente accettati. Al di là di queste considerazioni utili elementi di analisi ci vengono forniti dalla statistica. Dall’esame di un recentissimo rapporto del Ministero dell’Interno[1] emerge che attualmente “l’Italia risulta tra i Paesi dell’Unione Europea “statisticamente” più sicuri, con uno dei più bassi rapporti tra il numero degli omicidi e la popolazione” corrispondente a un tasso pari a poco più della metà di quello medio europeo (0,55 contro 0,86 ogni 100 mila abitanti nel 2022): nel 2023 gli omicidi volontari sono stati 340, per poi scendere a 319 l’anno dopo. Nel 49% dei casi (2024) le uccisioni si sono verificate a seguito di liti finite in tragedia, mentre solo nel 5% il movente è risultato di natura passionale. Recita il rapporto che “nel biennio in esame, resta invece invariata la percentuale del movente pietatis causa (3%),ovvero di quegli eventi commessi con sentimenti di compassione e di pietà da un familiare, solitamente un coniuge o un compagno che, spesso a sua volta in una condizione di vulnerabilità e solitudine, pone fine alla propria esistenza; sono i casi definiti dalle cronache giornalistiche quali episodi di omicidio-suicidio”, che non possono ovviamente venir conteggiati tra i femminicidi. Interessante è anche un altro dato, piuttosto stabile nel tempo: il rapporto fra vittime maschili e femminili è di circa due a uno (220 contro 120 nel 2023, 206 contro 113 lo scorso anno).Da una relazione ministeriale[2] coeva alla precedente apprendiamo che il numero di omicidi commessi in ambito familiare/affettivo, comprendente dunque anche i casi c.d. pietatis causa, è in lieve ma costante calo, e riguarda per circa 2/3 vittime di sesso femminile, maggioritarie soltanto in questo composito segmento.
Quali conclusioni possiamo trarre da queste aggiornatissime analisi? Anzitutto una: che percezione e realtà dei fatti non coincidono, e che il preteso boom dei femminicidi è un’impostura mediatica, benché (e ci mancherebbe altro!) ogni singola vicenda verificatasi debba indurci a una dolorosa riflessione – non però in quanto maschi o femmine, ma in quanto esseri umani. Stando così le cose – e in presenza di sanzioni penali già adeguate e dissuasive – una tutela selettiva come quella apprestata dal disegno di legge in itinereappare a chi scrive ingiustificata e, in quanto lesiva del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, grossolanamente incostituzionale.
In definitiva il c.d. femminicidio è un
manifesto ideologico: si punta a far leva sull’emozione comprensibilmente provocata
da crimini infami per innalzare una barriera di sospetto e paura tra maschi e
femmine nella vita quotidiana e anche all’interno del nucleo familiare, in modo
che giunga a compimento quel disegno di completa atomizzazione della società che
l’élite occidentale porta avanti da decenni per garantirsi un incontrastato
dominio sulle masse. Nella guerra scientemente alimentata fra cittadini comuni
(precari contro “garantiti”, giovani contro pensionati, femmine contro maschi)
c’è un solo vincitore annunciato: il regime che – democratico a parole, ma autoritario,
suprematista e subdolo nei fatti – si prepara ad incendiare il mondo.
[1]https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2025-02/elaborato_omicidi_volontari_2015-2024.pdf
[2]https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2024-07/elaborato_semestrale_15_07_2024.pdf
Fonte foto: Virgilio Notizie (da Google)