Si fa un gran parlare in questi giorni di Craxi e del “craxismo” per via dell’ultimo film di Amelio (che non ho visto).
La mia opinione è che – al di là del film – ciò che definiamo come “sistema dominante” abbia in qualche modo la necessità di rimettere mano ai propri scheletri nell’armadio, ora che se lo può permettere, anche riabilitando quel periodo e quegli uomini che di quella fase storica sono stati protagonisti seppur successivamente criminalizzati. Dal momento però che, in fondo, sempre di suoi figli si tratta, sul lungo periodo nuoce al sistema stesso che vengano storicamente ricordati solo come riscossori di tangenti e sperperatori di denaro pubblico. Lo stesso discorso può valere per tanti altri leader politici dell’epoca, come Andreotti, ad esempio, addirittura accusato (non senza fondamento…) di essere il garante, il “puparo” che stava alle spalle della mafia. Solo che Andreotti – incredibilmente (avesse veramente stretto un patto col diavolo, come si diceva allora?…) – riuscì ad uscire indenne anche da quella vicenda, a differenza di Craxi, accusato di reati (anche se di certo minori rispetto a quello di essere il burattinaio della mafia…) quali corruzione, finanziamento illecito dei partiti ecc. e per i quali fu condannato.
Fatta questa premessa, cerchiamo un po’ di capire chi era Craxi e cosa era il “craxismo”.
Sgomberiamo intanto subito il campo dalle ipocrisie e dai luoghi comuni. Il sistema politico all’epoca si fondava sulla commistione fra pubblico e privato e sulla spartizione più o meno sistematica delle aziende pubbliche, dei consigli di amministrazione e quindi anche delle tangenti e degli appalti, fra tutti i partiti dell’arco costituzionale. Non c’è quindi dubbio che Craxi, sotto questo profilo, abbia svolto la funzione “catartica” del capro espiatorio. La gogna mediatica a cui fu sottoposto servì da lavacro purificatore per il sistema che si stava rinnovando e stava voltando pagina. Con la sua morte si chiuse anche formalmente la stagione di “Tangentopoli e di “Mani pulite”. Una stagione necessaria per il sistema politico che in quella fase – subito dopo il crollo del muro di Berlino – aveva, come già detto, necessità di rinnovarsi profondamente.
Facciamo però un passo indietro. Craxi diventa segretario del PSI nel 1976 – dopo aver assassinato politicamente Francesco De Martino – ma è negli anni ’80 che la sua strategia politica si dispiega pienamente. Sono gli anni del riflusso post anni ‘70, seguito alla fine dei movimenti, alla storica e drammatica sconfitta operaia alla Fiat con la famosa marcia dei quarantamila quadri (non ci siamo più ripresi da allora…), al tramontare del conflitto di classe (che Craxi si impegnò strenuamente a disinnescare in tutte le maniere possibili, a cominciare dal referendum per l’abolizione della scala mobile, grande regalo fatto ai padroni e vero e proprio pugno in faccia al movimento operaio…); gli anni della “Milano da bere”, dello “yuppismo”, del carrierismo, dei “paninari”, dell’effimero, del disimpegno, del “privato è bello”, della “nave che va” (come usava ripetere lo stesso Craxi…). E sono contestualmente gli anni in cui la società capitalista sta vivendo un processo di profonda modernizzazione e ristrutturazione sia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro sia per quanto riguarda la tecnica, con tutto ciò che questo ha comportato e comporta tuttora dal punto di vista sociale.
Craxi si fece interprete di questo processo di modernizzazione, anzi, ne fu il principale interprete e anche ideologo (il tutto camuffato dietro ad un generico e volutamente nebuloso e ambiguo concetto di “riformismo”) fino a quando non ne diventò egli stesso la “vittima”, cioè fino a quando il sistema non ebbe più bisogno di lui e lo scaricò perché era diventato ormai un fardello ingombrante e anche inutile.
Del resto, il muro di Berlino era crollato, il capitalismo aveva trionfato e non c’era più necessità di continuare a mantenere un gigantesco carrozzone politico (il famoso sistema “partitocratico”) che da una parte occupava sistematicamente la pubblica amministrazione ma dall’altra fungeva anche da strumento di mediazione sociale, e di cui Craxi era diventato il massimo rappresentante. Ma non c’era neanche più necessità di un anticomunista viscerale come lui, dal momento che il PCI era stato sciolto (e Craxi ci aveva messo del suo), il conflitto sociale disinnescato, i sindacati completamente addomesticati e il partito post-comunista (il famoso “serpentone metamorfico” PCI-PDS-DS-PD, per usare una brillante definizione del filosofo Costanzo Preve) si apprestava – anche se non il solo e non da solo – a sostituire la vecchia classe dirigente democristiana e “craxiana” e a diventare così il nuovo garante della “governance” per conto terzi.
In realtà c’è stato un momento – siamo nella seconda metà degli anni ’80, in cui, approfittando della crisi in cui versava il PCI (ormai da tempo un partito di fatto socialdemocratico) soprattutto dopo la morte di Berlinguer, avrebbe addirittura avuto le chances per diventare il nuovo leader della sinistra, sia pure in una versione ultramoderata. Ma era troppo accecato dal suo forsennato anticomunismo per poter rompere il patto di ferro che aveva stretto con Andreotti e Forlani (il famoso CAF, come veniva denominato) e aprire ad un PCI in crisi di identità che, in fondo, non cercava altro che di essere sdoganato proprio da Craxi. Scelse invece la strada del conflitto aperto con quel partito, portato avanti con toni e atteggiamenti il più delle volte eccessivi se non tronfi (chi, di quella generazione, non ricorda le esternazioni quotidiane del suo portavoce Ugo Intini, tanto gratuite quanto stucchevoli) inimicandosi, così facendo, tutto il popolo della sinistra.
Guardò prevalentemente al centro e anche alla destra, alla quale cercava di rosicchiare consensi elettorali con proposte di legge che facevano irritare non solo la sinistra ma spesso anche gli alleati laici, come quando ad esempio avanzò la proposta di finanziare con soldi pubblici le scuole cattoliche o di penalizzare l’uso, anche individuale, della marjuana e dell’hashish.
Cambiò completamente il volto e l’immagine del Partito Socialista, traghettandolo fuori della storia e della tradizione del movimento socialista, cambiando il simbolo, togliendo, falce, martello e libro e trasformandone i congressi in mere kermesse mediatiche, con tanto di celebrazione e culto della personalità del capo e contorno di “nani e ballerine”. Uccise letteralmente il dibattito politico interno, emarginando i critici e gli oppositori e distribuendo, comprandoli, incarichi di governo e sottogoverno a tutti i dirigenti e capi corrente e sottocorrente che gli erano fedeli. Così facendo, ridusse il partito ad un comitato di affari e di clienti alle sue dipendenze. A molti ex “craxiani” piace (e forse conviene…) pensare che il PSI sia stato sciolto dalla magistratura, ma è una balla. Il PSI era già stato distrutto da Craxi; con uomini come Nenni, De Martino o Lombardi, il pool di “Mani pulite” avrebbe fatto un buco nell’acqua…
A suo merito – va riconosciuto – una politica estera non prona agli interessi e alla volontà degli USA, della NATO e di Israele e sempre attenta a mantenere buoni rapporti con i paesi arabi e anche con i palestinesi dell’OLP. Celebre il suo discorso alla Camera dove difese il diritto di questi ultimi alla lotta armata (pur non condividendola, per ragioni politiche) al fine della liberazione della loro terra. Altrettanto celebre e soprattutto politicamente decisiva (anche per le sue sorti personali oltre che politiche) la vicenda di Sigonella, dove impedì ai marines USA di catturare il commando palestinese che aveva sequestrato la nave “Achille Lauro” (uccidendo un cittadino ebreo americano), lasciando riparare all’estero, nella ex Jugoslavia, il capo del commando. Il tutto, facendo circondare l’aereo, con a bordo il comandante palestinese, dai carabinieri schierati con i fucili puntati contro i soldati americani. Un atto sicuramente di grande coraggio che, a mio parere, gli americani ma anche e soprattutto gli israeliani, si sono legati non ad un dito ma a tutte le dita delle mani. Nessun leader politico a lui successivo – va riconosciuto – avrebbe mai avuto la forza e il coraggio di un simile atto. Ve lo immaginate un Renzi o un Veltroni, un Monti o un Salvini fare la stessa cosa? Questi non sarebbero neanche capaci di far intervenire i vigili urbani per impedire a dei turisti americani di farsi il bagno nella Fontana di Trevi… E questo perché – altro titolo a suo merito – Craxi era figlio di un’epoca in cui la politica aveva ancora il primato, e lui stesso era figlio di quella concezione. Era un uomo di potere, un uomo del sistema, ma non prendeva ordini da nessuno. Dopo di lui, cioè dopo il crollo del muro di Berlino e dopo Tangentopoli la politica è stata ridotta a mera ancella del mercato.
La sua figura non è certo riducibile a quella di un mariuolo ma non è neanche elevabile, dalla parte opposta, a quella di un martire. Un combattente per la libertà e tanto più un grande leader non fuggono all’estero perché accusati di aver intascato tangenti, per evitare l’arresto. Se fosse rimasto in Italia e – se fosse stato veramente convinto della sua buona fede politica e quindi anche della sua innocenza e della sua estraneità al sistema – avrebbe potuto portare avanti la sua battaglia politica fino in fondo, anche a costo di finire in galera per un certo periodo. In fondo, se ci pensate, sarebbe stato dirompente per il sistema stesso tenere in carcere un segretario di partito, e di quella stazza; non sarebbe stato in grado di gestire la vicenda, con tutte le conseguenze politiche del caso. Ma lui ha scelto la fuga. E non per viltà ma, appunto, semplicemente perché non era un martire bensì un uomo di potere finito in disgrazia a causa delle dinamiche interne di quello stesso sistema di potere di cui lui era parte integrante.
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