8 marzo 2020, ore 18.00, Napoli, Italia.
Una professoressa dei miei due figli potrebbe essere contagiata, o almeno lo teme. Un suo compagno ha un caso nel palazzo di casa e un altro, di un’altra classe, risulta positivo. Ma in Campania quasi un giorno fa risultavano meno di novanta casi.
Nel mondo cento paesi risultano[1] contagiati, in Cina si è arrivato al picco di circa ottantamila casi ma ora è in fortissimo calo, in Corea del Sud ci sono oltre settemila casi, in Italia più di seimila probabilmente, l’Iran ha quattromisettecento casi, seguono la Germania con seicentotrentanove casi, la Francia con seicentotredici, il Giappone con quattrocento, la Spagna con trecentosettanta, la Svizzera con duecento, gli Stati Uniti con duecentotredici casi, il Regno Unito con centosessanta, e via dicendo. In tutto circa centomila casi nel mondo e tremilacinquecento morti.
Obiettivamente, se fosse questo, sarebbe un’inezia.
Ma quel che conta sono due cose: ieri in Italia c’erano oltre mille casi in meno, e ovunque, salvo in Cina, l’andamento quando è monitorato è in crescita esponenziale; una parte dei casi rilevati, uno su cinque, sviluppa complicazioni polmonari serie o gravi e la metà deve essere ricoverato in terapia intensiva pena una rapida morte per asfissia.
Quanti sono uno su dieci? Troppi.
Prendiamo la celebrata sanità italiana: sessanta milioni di abitanti, al vertice insieme a Germania e Giappone della classifica delle popolazioni più anziane; centocinquantamila posti letto pubblici e quarantamila privati; ma solo cinquemila al massimo abilitati per la terapia intensiva per la quale bisogna avere, oltre alle attrezzature mediche un medico specializzato e due infermieri specializzati per ogni quattro posti letto. Complessivamente si stima che sono impegnati fino a quindici addetti per ogni persona in grave rischio di vita.
Dunque, in condizioni normali quale sarebbe il punto di crisi della sanità italiana? Cinquantamila contagiati. Dopo questo numero chi dovesse avere un infarto, o dover avere un decorso post-operatorio complesso rischierebbe di morire per assenza di trattamento idoneo.
Prendiamo quel che sappiamo[2] dal caso più sviluppato nel mondo, quello cinese:
- si trasmette per goccioline aereodisperse da breve distanza (88% dei casi),
- il 20% dei contagiati deve essere ospedalizzato, tre quarti per trattamenti con ossigeno ospedaliero e un quarto per respirazione artificiale (intubamento),
- la malattia dura da due a sei settimane,
- in Cina avevano 5,5 milioni di posti letto (0,4% popolazione), contro i nostri 150.000 (più 40.000 privati) (0,2% della popolazione),
- a Wuhan (65.000 infetti) sono stati impiegati 45 ospedali, specializzandoli per gravità (6 per i casi critici, 39 per i gravi) oltre a 10 nuovi ospedali di emergenza per casi lievi, 40.000 medici ed infermieri sono stati inviati da tutta la Cina,
- quasi tutti quelli che si infettano sviluppano la malattia, i cui sintomi iniziali sono uguali alla febbre di stagione, ma in due casi su dieci diventano insufficienza respiratoria acuta,
- l’infezione ora sta calando, le drastiche misure di contenimento della mobilità hanno avuto successo,
La conclusione della commissione dell’OMS inviata in Cina è dunque netta:
“L’approccio coraggioso della Cina per contenere la rapida diffusione di questo nuovo agente patogeno respiratorio ha cambiato il corso di un’epidemia in rapida escalation e mortale. Di fronte a un virus precedentemente sconosciuto, la Cina ha messo in atto forse lo sforzo di contenimento della malattia più ambizioso, agile e aggressivo della storia. L’uso senza compromessi e rigoroso da parte della Cina di misure non farmacologiche per contenere la trasmissione del virus COVID-19 in molteplici contesti fornisce lezioni vitali per la risposta globale. Questa risposta di salute pubblica piuttosto unica e senza precedenti in Cina ha invertito la tendenza all’aumento dei casi sia nell’Hubei, dove si è verificata una diffusa trasmissione comunitaria, sia nelle province di importazione, dove sembra che siano stati i gruppi familiari a guidare l’epidemia.
…
Gran parte della comunità globale non è ancora pronta, nella mentalità e materialmente, ad attuare le misure che sono state impiegate per contenere COVID-19 in Cina. Queste sono le uniche misure che sono attualmente dimostrate per interrompere o ridurre al minimo le catene di trasmissione negli esseri umani. Fondamentale per queste misure è una sorveglianza estremamente proattiva per individuare immediatamente i casi, una diagnosi molto rapida e l’isolamento immediato dei casi, un monitoraggio rigoroso e la quarantena dei contatti ravvicinati e un grado eccezionalmente elevato di comprensione e accettazione di queste misure da parte della popolazione.
…
COVID-19 si sta diffondendo con una velocità sorprendente; le epidemie di COVID-19 in qualsiasi ambiente hanno conseguenze molto gravi; e ci sono ora forti prove che gli interventi non farmaceutici possono ridurre e persino interrompere la trasmissione. Riguardo a tali interventi, la pianificazione della preparazione globale e nazionale è spesso ambivalente. Tuttavia, per ridurre la malattia e la morte di COVID-19, la pianificazione della prontezza a breve termine deve comprendere l’attuazione su larga scala di misure di salute pubblica non farmaceutiche di alta qualità. Queste misure devono comprendere l’individuazione e l’isolamento immediato dei casi, il rigoroso monitoraggio e la quarantena e l’impegno diretto della popolazione/della comunità”.
Di fronte a questa situazione si stanno prefigurando nel mondo essenzialmente due tipi di risposta:
- il “modello cinese”, in cui un governo, magari dopo qualche esitazione iniziale, assume d’autorità drastiche iniziative per ostacolare la diffusione da persona a persona del virus. In pratica c’è un solo modo, non incontrare altre persone. Questo modello richiede due condizioni per essere implementato con successo, una è la determinazione del governo a far passare avanti la tutela della salute pubblica alle esigenze a breve termine dell’economia, un’altra è che i cittadini concordino con questa priorità e collaborino, mettendo l’interesse collettivo avanti alle proprie esigenze immediate.
- Il “modello tedesco”, in cui un governo reticente, fa ogni sforzo per nascondere i dati evitando le diagnosi e riclassificando i morti[3] perché teme le conseguenze economiche.
Il nostro è un modello intermedio, più vicino a quello cinese, anche se a tratti abbiamo avuto tentazioni verso quello tedesco (ad esempio lo hanno avuto le nostre associazioni industriali). Quel che abbiamo fatto è di assumere iniziative drastiche di confinamento, le “zone rosse”, nelle parti più importanti del paese sotto il profilo economico, ma senza il coordinamento e soprattutto la determinata durezza necessaria. In Cina la popolazione è molto più disciplinata e malgrado ciò c’è stato l’esercito nelle strade, posti di blocco ai confini delle città, arresto di tutte le attività economiche non indispensabili, confinamento a casa di tutti, e massive misure monetarie di sostegno, distribuzione di beni di necessità, fino alla decisione della Banca Centrale a Hong Kong (che, ricordo è Cina) di bonificare una somma ad ogni cittadino.
Invece noi ci siamo mossi anarchicamente, il cattivo disegno istituzionale della nostra sanità ha mostrato i suoi limiti e la tendenza di ogni centro di potere (a partire dai media) di pensare in primo luogo a salvaguardare se stesso ha fatto il resto. Presidenti di regione con la mascherina, capi di partito che per farsi belli dichiarano di avere il virus, decreti che vengono fatti filtrare, sindaci che fanno le più strane ordinanze, liti in diretta o quasi, circo di “esperti” a dire tutto e il contrario di tutto in prima serata, ….
Chi avrà avuto alla fine ragione? Ovviamente lo sapremo allora, ma qualcosa si può tentare di dire. Nessuna sanità può reggere ad una prova simile, se i malati salgono anche solo al livello di una “normale influenza” (in Italia circa[4] dieci milioni di malati all’anno, che, con i tassi di ospedalizzazione di questo virus, porta a due milioni di ricoverati di cui uno in terapia intensiva). Le terapie intensive costano infatti circa il dieci per cento del costo totale della sanità: tremiliardi e quattrocentomila euro all’anno. Come detto, questi costi corrispondono ad una dotazione di cinquemila posti circa (di cui novecento in Lombardia), che trattano qualcosa come centomila persone all’anno. È chiaro che un impatto dieci volte superiore, in un periodo molto più ristretto, sarebbe assolutamente non affrontabile. Con misure da economia di guerra (requisizione di tutte le strutture disponibili a qualsiasi titolo, precettamento di tutti i medici ed infermieri pubblici e privati, accelerazione e qualificazione ope legis di persone in corso di formazione, assunzioni straordinarie e senza concorso, imposizione alle industrie fornitrici del programma di fabbricazione secondo le esigenze pubbliche e non quelle del mercato, etc…) può darsi che si potrebbe moltiplicare per dieci, o venti, la dotazione. Ma qui potrebbe essere necessario un fattore cento o duecento.
E, se bastasse avere cinquantamila posti, per una degenza media di venti giorni, quanto costerebbe? Circa settantacinque milioni al giorno, ovvero sette miliardi per tre mesi. E sarebbero necessari quindicimila medici specializzati e trentamila infermieri specializzati. In tutto in Italia abbiamo centotrentamila medici ospedalieri, di cui centomila sono specializzati, quasi la metà in Lombardia. Gli infermieri invece sono trecentocinquantamila, ma di entrambi c’è carenza già normalmente, di medici specializzati e di infermieri (dei secondi si stima ne manchino cinquantamila).
La cosa non finisce qui, perché, oltre a non andare in vacanza il resto delle ragioni per ammalarsi e per fare uso della sanità, l’impatto di questa epidemia è molto più ampio.
Se quello sulla sanità milita in favore del “modello cinese”, la cui ragione essenziale è di proteggere la vita dei cittadini impedendo il collasso del sistema sanitario, le conseguenze economiche generali militano a favore del “modello tedesco”.
Il nostro sistema economico è completamente privo di capacità di assorbire shock di questo genere. Le catene di fornitura e produttive, di tutti i beni e servizi, sono estese a livello mondiale ed interconnesse. Nulla o quasi si può produrre senza ricevere componenti, materiali, competenze da qualche altra parte del mondo, spesso a grandissima distanza. Se abbiamo bisogno di un numero straordinario di mascherine per il viso scopriamo che la carta viene dalla Cina, o dall’Indonesia, il cotone dagli Stati Uniti, la fabbrica è in Germania. Quando allora il nostro governo, come ha fatto due giorni fa, davanti alla previsione di un’impennata dell’uso, richiede di poter accedere al mercato, scopre che in effetti gli Stati esistono. Ma gli altri. La Germania e la Francia si rifiutano, dopo aver parlato per decenni di mercato unico e di vantaggi comparati del commercio (per cui noi facciamo vino ed olio e loro medicali) ora ricordano che la frontiera c’è e, in effetti, le mascherine servono a loro[5]. Del resto la Cina ne usa centomilioni al giorno (e ce le sta mandando per solidarietà). La Protezione Civile, dato che in Italia non ne produciamo, ha comprato allora quattrocentomila dispositivi dal Sud Africa, e ne sta cercando altre cinquecentomila. La Regione Lombardia ne ha ordinate duemilioniemezzo.
L’intera nostra catena economica è eterodiretta, dai centri decisionali delle multinazionali, o dipende per segmenti decisivi da fornitori che non possiamo controllare. Ad esempio, la nostra logistica, l’intero movimento primario delle merci, è in misura prevalente organizzata su gomma e la grandissima parte degli autisti e dei mezzi sono rumeni, o dell’est europeo perché costano di meno e sono meno protetti dalle norme del lavoro. Per ogni viaggio devono partire da Bucarest e passare il Brennero, attraversando Ungheria e Austria, caricare e scaricare più volte, poi tornare. Che succederà quando non potranno entrare in Lombardia, o andandoci rischieranno di essere messi in quarantena a casa? Ancora, la carta con la quale la nostra industria editoriale produce i libri, le riviste, e le brochure o altro, viene dalla Cina o dal nord Europa.
Questo modello è insostenibile sotto il profilo ambientale e fragilissimo sotto quello economico. È stato interamente ed unicamente costruito, in una lunga fase di follia e debolezza degli Stati, per sfruttare fino all’ultimo centesimo i differenziali di prezzo e di potere che il capitale mobile riusciva a estorcere a lavoratori deboli o a imprese subordinate. Si tratta di un modello che parte dal presupposto che mai nessun paese si ricorderà di esercitare i propri poteri sovrani, o potrà farlo.
Inoltre questo modello è esattamente lo stesso che ha compresso per decenni il reddito e l’indipendenza dei lavoratori in occidente, rendendo ovvio che la maggior parte delle persone viva con contratti senza protezioni, precari, a tempo, con singole settimane di risparmi, sovraindebitati. Fa stare l’economia in costante stato di carenza di domanda, per cui i prezzi dei beni di prima necessità continuano a calare, e tutti coloro che li producono sono giorno dopo giorno alla disperata ricerca di un modo di risparmiare qualche costo di produzione, anche se comporta andarsi a cercare un fornitore dall’altra parte del mondo che costa il 2 per cento meno di quello sotto casa, che chiude. È così che ci siamo trovati senza mascherine.
I tedeschi lo sanno. Che succede ad un simile sistema se per qualche settimana una regione centrale, che produce il quarantapercento del Pil e una quota maggiore dei prodotti industriali, resta isolata? Che collassa completamente.
Dunque, loro scelgono di lasciar morire i propri concittadini, tanto muoiono di “polmonite”.
E noi che dovremmo fare?
Scegliere un modello e portarlo in fondo, con logica. Se, come credo, deve essere quello “cinese”, allora ci vuole anche l’autorità per programmare la produzione, nazionalizzare le strutture sanitarie, assumere il personale, riconvertire quel che si può, impedire gli spostamenti non necessari effettivamente e non a parole, sostenere il reddito delle famiglie con misure straordinarie da ‘economia di guerra’ (come l’elicopter money[6]), sospendere le normative dannose, come il Mes e la normativa bancaria, avocare allo stato il sostegno della moneta, sospendere il Trattato di Shengen, controllare le frontiere.
Dovremmo, intanto, spendere in due tre mesi qualcosa come i sette miliardi per la sanità, le risorse per sostenere per almeno sei mesi i redditi di una quota maggioritaria della popolazione, che subirà gli effetti a cascata dell’arresto delle attività produttive ed economiche in buona parte del paese, quindi tenersi pronti a nazionalizzare le imprese che non dovessero farcela, aumentare la spesa pubblica per fare fronte alle carenze di beni e servizi (ordinandoli direttamente e provvedendo a forniture in natura ai più deboli). Tornare, almeno in parte, ad un’economia di comando e programmazione. Liberarci dei vincoli europei, in un modo o nell’altro.
O, come diceva Malcom X: “Con tutti i mezzi necessari”.
Ma dovremmo essere una nazione, ed avere uno Stato.
[1] – Dati dal Coronavirus disease 2019 “situation Report” della World Healt Organization.
[2] – Si veda il Rapporto finale della commissione OMS inviata in Cina.
[3] – Un trucco che qualche medico italiano ha provato a “vendere” anche nella televisione italiana è di dire che la data persona morta a seguito di crisi respiratoria, o complicazioni a carico del cuore o altro, non è “morta di” coronavirus, ma è “morta con” il coronavirus. Ovvero è morta per altre cause, mentre il coronavirus è solo una concausa. Un poco come se si dicesse che una persona che viene trapassata da una pallottola al cervello, in seguito al quale evento il cuore si ferma, non è morto per la pallottola, ma per l’arresto cardiaco. Nello stesso modo un anziano (o un giovane) con varie problematiche pregresse che muore in terapia intensiva sarebbe morto per queste e non per la causa della terapia. Peccato che altrimenti sarebbe ancora con noi.
[4] – Si veda, “Influenza stagione in corso”
[5] – Si veda qui.
[6] – Come fatto a Hong Kong, erogare alle famiglie, e non alle imprese, somme di denaro per sostenere i consumi e farsi carico di alcune spese necessarie, come i mutui e gli affitti, o le bollette indispensabili (energia elettrica e gas, acqua). Il meccanismo di base potrebbe essere semplice: la Banca Centrale eroga alle banche commerciali somme che queste riversano sui c/c dei clienti e si fanno carico di pagare bollette e affitti registrati, oltre alla sospensione delle rate dei mutui.
Fonte articolo: http://tempofertile.blogspot.com/2020/03/coronavirus-cronache-del-crollo.html