A che punto della Storia, a quale incrocio esistenziale si trova oggi la civiltà europea e occidentale? Cosa è rimasto del grande sogno di emancipazione del lavoro e di una nuova civiltà che aveva animato il movimento operaio e socialista nel novecento? Cosa invece sta emergendo in alternativa? In sostanza, in che mondo oggi viviamo? Sono domande, queste, che ritornano e assillano le menti e le coscienze di tutti quelli che hanno vissuto una fase storica piena di promesse e che hanno visto svanire ed evaporare inesorabilmente le attese di una palingenesi che avrebbe indirizzato il destino dell’umanità verso l’approdo all’umanesimo socialista. Ma la storia ha marciato nella direzione opposta e contraria ed oggi in Europa, la patria degli ideali socialisti, dominano una ideologia ed una antropologia umana ai suoi antipodi, in cui si è persa perfino la memoria delle grandi lotte sociali che hanno reso grandioso e terribile il Novecento, che ha fatto tremare le classi possidenti di fronte all’assalto al cielo tentato dal movimento operaio col suo grido di rivolta. Tutto è finito, quel grido è rimasto soffocato nella gola dei vinti in attesa di essere riaccolto e rilanciato dai suoi eredi, di cui non si intravedono le sembianze. A noi sopravvissuti spetta il compito di coltivare la memoria di quelle lotte e di quei sacrifici e di comprendere gramscianamente le lezioni della storia. Di fronte al fallimento della rivoluzione in Occidente, cosa dobbiamo mettere in discussione dall’impianto teorico e politico che lo ha accompagnato? Mi verrebbe da dire quasi tutto: un certo marxismo economicista; il suo preteso universalismo erede dell’Illuminismo e dell’escatologia ebraico-cristiana; il suprematismo occidentalista e il suo retaggio coloniale in cui è rimasta impigliata la teoria e la prassi del movimento operaio e socialista; l’introiezione del dogma della democrazia liberale e del liberalismo come un punto di non ritorno della filosofia politica. La rivoluzione neoconservatrice ha vinto e colonizzato oggi in Occidente le menti della sua intellighenzia e formattato il senso comune dell’agire individuale e collettivo. L’identità individuale e collettiva non è piu determinata dall’ “essere sociale”, ma sovraordinata dall’ “essere culturale” costruito attraverso una manipolazione dall’alto che ha imposto come naturale l’adesione ai valori di quella che definiamo come ideologia neoliberale, una ideologia reazionaria organica al neocapitalismo finanziario e post borghese, che si presenta nello stesso tempo come inclusiva e totalizzante, apparentemente contraddittoria. Inclusiva perché si fa alfiere dei diritti delle minoranze culturali identificate nelle minoranze etniche, razziali, sessuali da difendere contro le maggioranze definite a seconda dei casi razziste, nazionaliste, omofobe. Ma anche totalizzante perché non contempla un superamento dialettico di queste contraddizioni e conflitti, ma una cristallizzazione di questi accompagnata da uno stigma morale che ghettizza e sottopone a linciaggio mediatico chi non si adegua ai valori del politicamente corretto. Questa strategia, sostenuta e promossa nelle istituzioni, nelle scuole, nei posti di lavoro, nei media, nella produzione cinematografica, nel dirittocivilismo, tende a delegittimare una opposizione critica incarnata nella condizione sociale, e a dividere e frammentare le identità collettive per linee culturali. Questa scissione tra identità sociale e identità culturale è oggi lo strumento attraverso cui si esercita il dominio e il controllo di quelli che Giulietto Chiesa definiva come “I padroni universali”: l’oligarchia finanziaria; le élite dell’apparato politico-militare-industriale, delle multinazionali, della manipolazione tecnologica, del monopolio della comunicazione, che dominano l’Occidente e che tendono a sottomettere alla sua Agenda il resto del mondo e gli Stati attraverso le sue istituzioni globaliste. Questo potere si nutre di una narrazione essenzialmente binaria: globalismo contro nazionalismo, cosmopolitismo contro sovranità, progresso contro conservazione, democrazia contro autocrazie, capitalismo contro socialismo, libertà contro oligarchie, diritti civili contro oscurantismo “asiatico”, e quindi si presenta come glorificazione dell’Occidente portatore di una civiltà superiore. Questa narrazione è ormai egemone in tutto l’Occidente e ha pervaso e colonizzato le menti delle nuove generazioni e non trova resistenza neanche nella cultura politica delle varie componenti in cui si articola oggi la sinistra di ispirazione marxista in Europa, con poche eccezioni come quella di Sara Wagenknecht in Germania. Questa narrazione sostiene la persistenza e la legittimazione morale di una postura aggressiva e neocoloniale dell’Occidente contro civiltà e popoli estranei ai “valori” liberali e che perseguono modelli sociali e culturali diversi. La sinistra occidentale in questo senso non ha ancora fatto i conti fino in fondo con la natura coloniale della civiltà occidentale e non ha preso nettamente le distanze da essa, come denunciava il compianto Domenico Losurdo. Come non ha fatto i conti con le sconfitte del movimento socialista in Europa. La teoria della lotta di classe binaria borghesia-proletariato non ha prodotto nessuna rivoluzione in Occidente, ma solo sconfitte o peggio una sua deriva corporativa e socialdemocratica indifferente ai movimenti anticoloniali o addirittura complice delle politiche coloniali dei rispettivi paesi. Le vere rivoluzioni sono state anticoloniali e contadine a partire da quella russa, che ha avuto la sua base nei Soviet, che altro non erano che le forme comunitarie contadine dell’Obscina, per continuare con quella cinese antigiapponese, o antimperialiste e improntate alla rivendicazione della indipendenza e sovranità nazionale come quella cubana e vietnamita. In un certo senso sono state tutte rivoluzioni antiprogressiste e sovraniste, conservatrici come lo sono oggi le rivoluzioni anti-neocoloniali in Africa improntate anche nel recupero dei valori tradizionali e delle forme comunitarie precoloniali di organizzazione sociale. Così come dobbiamo fare i conti col liberalismo e la sua deriva neoliberista e neo- liberale. Il vecchio liberalismo ottocentesco è stato la sovrastruttura ideale della vecchia borghesia industriale, portatrice di un’etica e di valori morali e religiosi certamente contrassegnati da una forte identità di classe, ma ancorati ad una dimensione umana e al riconoscimento dialettico dell’altro da sé, del suo antagonista storico incarnato nella classe operaia. Hegel rappresenta questo conflitto come l’Io diviso, che tende dialetticamente ad una sua ricomposizione unitaria, tanto da definire il comunismo come la” coscienza infelice della borghesia”. Questo liberalismo è finito insieme alla borghesia e al vecchio capitalismo industriale. Oggi domina il nuovo capitalismo postborghese e finanziario, senza etica, senza religione, predatorio e antiumano che ha elaborato ed estremizzato una ideologia dell’individuo come soggetto e padrone assoluto, portatore di una idea di libertà senza limiti che sta distruggendo ogni vincolo sociale, comunitario, di genere, e che punta direttamente al superamento della natura umana in un delirio di onnipotenza faustiana. La resistenza a questa deriva nichilista viene da civiltà e popoli estranei alla storia e alla cultura dell’Occidente, dai grandi Stati-civiltà della Russia, della Cina, dell’India, dell’Iran, dai popoli che si stanno liberando dal giogo neocoloniale e che sono il perno del mondo multipolare in costruzione, che non può non fondarsi su valori antiliberali e antiglobalisti, nemici dell’universalismo coloniale dell’Occidente. Ecco, se la storia ha ripreso a correre, lo sta facendo contro di noi, contro l’Occidente e anche contro la pretesa che la rivoluzione mondiale passi inevitabilmente attraverso le categorie teoriche elaborate dal marxismo occidentale. Lenin, Mao, Ho Chi Minh, Fidel Castro, i patrioti panafricanisti, i socialisti bolivariani ci indicano altre vie da percorrere. Una rivoluzione mondiale è in corso contro i padroni universali e le oligarchie mondialiste e alla sua testa non c’è il proletariato delle metropoli occidentali, ma i popoli delle periferie del mondo e gli Stati che definiamo sprezzantemente “autocrazie”. Per la rivoluzione in Occidente non c’è invece alcun popolo in marcia, soggiogato e disperso nel soggettivismo anarchico e consumistico, che ha smarrito la memoria dei padri, sradicato dalla sua storia e dalle sue tradizioni, comprese quelle del movimento operaio di classe. Ma la ricostruzione di una classe non può prescindere dalla rivendicazione di una storia, di una civiltà a cui si appartiene come popolo, nel nostro caso l’appartenenza alla civiltà latina e mediterranea come uno dei poli del mondo multipolare, con la sua storia, la sua filosofia, la sua antropologia umana, la coscienza del suo essere autentico, del suo Dasein heiddeggeriano. Siamo lontani, molto lontani da questa consapevolezza, e non ci resta che sperare nella sconfitta del nostro mondo per ricostruirne uno nuovo.
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