In miei precedenti contributi per il blog Punto Critico ho rievocato possenti figure di sovrani e condottieri antichi capaci di influenzare a proprio vantaggio la percezione delle masse senza nome.
La stesura dopo la battaglia di Qadesh dell’omonimo poema, “pubblicato” all’interno dei templi e sulle facciate dei palazzi, consentì a Ramses II di accreditarsi presso i sudditi come insostituibile punto di riferimento per l’intero Paese (oltre che come suo eroico salvatore): il contrasto fra le prodezze del faraone e la pretesa viltà dei soldati al seguito costituiva un ammonimento e insieme un rimprovero estensibile alla generalità degli egizi. Un popolo educato a provare gratitudine mista a senso di colpa non metterà mai in discussione la legittimità del potere incarnato da un semidio che lo osserva benevolo dall’alto di statue monumentali. Diversa, come abbiam visto, è la truculenta propaganda assira, diretta più che altro a terrorizzare le genti straniere – l’esaltazione delle imprese guerresche, tuttavia, del re e del suo esercito non manca di ingenerare fierezza nell’intera nazione, che si sente oltretutto invulnerabile alle minacce esterne. A ben vedere una funzione altamente rassicurante assume anche lo spettacolo – teatrale e all’apparenza grottesco – di un re che “punisce” il mare colpevole di aver disperso la sua flotta: frustando le onde ribelli Serse riafferma il proprio potere sugli elementi, e dunque l’attitudine (illusoria, ma efficacemente messa in scena) a garantire il mantenimento dell’ordine naturale. Nelle antiche culture “prescientifiche” nulla è considerato impossibile, e una rappresentazione vale un accadimento reale: perché essa funzioni è però necessario il coinvolgimento di professionisti (scribi, architetti ecc.) che padroneggiano tecniche sconosciute al grande pubblico e in grado di impressionarlo e ammaliarlo. All’interno di questa schiera di persuasori precristiani il più spregiudicato, colui che ottiene un più durevole successo è senz’altro Ottaviano Augusto il quale, con l’aiuto di Mecenate, costruisce una “macchina della propaganda” attiva ancora oggi, a oltre venti secoli dalla dipartita del princeps. L’erede di Cesare non soltanto arruola i più talentuosi letterati del suo tempo, ma riesce con la loro complicità a rimodellare il reale a proprio piacimento: un’epoca sanguinosa e turbolenta diventa nell’immaginario collettivo la pax romana, un’età dell’oro celebrata da un coro di fanciulli angelici che intonano l’oraziano Carmen saeculare. Termini ed espressioni come vangelo (nel senso di buona novella), figlio di Dio e assunzione in cielo ci sono oggi familiari, ma il lessico cristiano mutua immagini, concetti e parole dalla narrazione augustea rivolta a tutti i popoli dell’ecumene. L’operazione è condotta magistralmente, e non sono ammesse deviazioni o dissonanze: chi, come il poeta Ovidio, mostra di non trovarsi in sintonia viene sanzionato, bandito, messo a tacere. La propaganda imperiale è un canto monodico che sovrasta ogni altra voce e arriva nelle più remote plaghe del mondo assoggettato, esaltando l’indispensabilità di un principe alla cui sovranità non sono concepibili alternative. Un totalitarismo pienamente realizzato coincide con un regime che non solo non è oggetto di contestazione, ma che dall’opinione diffusa è considerato alla stregua di un benefico fenomeno naturale, di una condicio sine qua non.
Quasi tutti i governanti aspirarono e aspirano al controllo delle menti, ma per molti l’obiettivo si rivela purtroppo irraggiungibile. Pensiamo all’Atene “culla della democrazia” del V sec. a.C.: un leader saggio e visionario come Pericle verrà trascinato in tribunale dai suoi nemici e patirà umiliazioni, il demagogo Cleone, “uomo forte” dei popolari, sarà crudelmente sbeffeggiato da Aristofane nella commedia I cavalieri, di un altro capo “di sinistra” – Cleofonte – il commediografo invocherà addirittura l’assassinio. Qualcuno potrebbe minimizzare dicendo “era solamente satira”, ma sbaglierebbe di grosso: il ruolo del teatro, oggi assolutamente marginale (entertainment), era centralissimo e strategico nella Grecia di allora, dal momento che alle rappresentazioni, che si tenevano in occasione delle festività più importanti, assisteva partecipe l’intera cittadinanza – e attacchi scopertamente politici come quelli di un opinion maker del prestigio di Aristofane lasciavano il segno. Il grande comico non fu tuttavia mai perseguitato: conviene chiedersi il perché. La risposta tranquillizzante e “politicamente corretta” è la seguente: perché Ramses II, Tiglath Pileser, Serse, Augusto, Nerone ecc. erano degli autocrati che non ammettevano alcuna forma di dissenso, mentre Atene era per l’appunto una democrazia. La spiegazione più verosimile è però un’altra, assai meno ottimistica e manichea: Aristofane poteva scrivere e far recitare quel che gli pareva semplicemente perché la fazione al momento dominante esprimeva gli interessi di una parte (o partito) riconosciuta da tutti come tale, cioè non identificata con la comunità, lo stato o “i migliori” – camminava insomma sul filo. Che le cose stessero così lo dimostrano i numerosi e repentini rivolgimenti politici che afflissero la metropoli attica nei pochi decenni di un’egemonia mai comunque indiscussa: nonostante gli sforzi i capi democratici non riuscirono mai a creare una coscienza popolare loro pienamente favorevole (=asservita) né a presentarsi come insostituibili “uomini del destino”.
Affinché una narrazione, piccola o grande che sia, conformi l’opinione pubblica è necessario che chi detiene il potere si erga su uno stabile basamento (l’esercito, il controllo delle fonti produttive ecc.), abbia avversari deboli e screditati e – naturalmente – conosca l’animo umano e non sia affetto da un eccessivo idealismo. Contano insomma gli schietti rapporti di forza, non etichette e (auto)dichiarazioni di intenti.
La lezione di Cesare viene diligentemente mandata a memoria dalla Chiesa cattolica, che sfruttando il possesso delle chiavi di un regno (forse) di fantasia riesce a colonizzare l’immaginario europeo per quasi duemila anni. Alternando il bastone – metaforico, ma non sempre – e la carota (la promessa di eterna letizia nell’aldilà per chi ubbidisce e si rassegna alla sua condizione terrena) la nuova Roma asservisce generazioni di fedeli, ma a un certo punto – all’alba dell’età contemporanea – mutano le esigenze dei dominanti, moltiplicatisi fino a divenire legione. Lo Stato liberale ottocentesco, innervato dal dinamismo di una giovane classe imprenditoriale, si appaga di sé e delle conquiste tecnologiche, ma poco si cura dell’indottrinamento delle masse, relegate sullo sfondo e prive di soggettività e di diritti: al massimo l’élite si sforza di instillare nei dominati un senso di superiorità nei confronti dei popoli extraeuropei al fine di agevolare l’espansione coloniale in Asia, Africa, Americhe e Oceania. Il razzismo però è utilizzabile a intermittenza, e nel vuoto narrativo si fanno strada inedite consapevolezze e visioni del mondo proposte da pensatori non addomesticati: le classi possidenti reagiscono allora con violente repressioni, per poi armare il braccio di cinici agitatori che garantiranno lo status quo fingendo di voler accogliere alcune istanze provenienti dai ceti inferiori. Nel primo Novecento assistiamo – soprattutto in Italia, Germania ecc., ma anche nell’Unione Sovietica di Stalin – alla “socializzazione” delle moltitudini, coinvolte in grandiosi eventi di massa che regalano un senso di appartenenza alla comunità nazionale. Le adunanze oceaniche in cui il Duce dialoga con il “suo” popolo (e con ciascun suddito), le divise del sabato fascista, le suggestive marce notturne in camicia bruna cancellano in apparenza le distinzioni sociali, irreggimentano, e il resto fanno gli innovativi mezzi di informazione che plasmano una coscienza comune, una Weltanschauung a 360 gradi pienamente coerente. Saldezza del potere, mancanza di alternative concrete e costante manipolazione fruttano ai reggitori un quasi unanime consenso: l’incantesimo sarà rotto (non ovviamente in URSS, pur provatissima) da un evento traumatico quale la disastrosa sconfitta nella guerra mondiale.
Rispetto ai predecessori i governi sorti nell’Europa postbellica dimostrano assai meno abilità nell’arte della fascinazione: sono precari e cangianti, anche se – in taluni casi – si adoperano per elevare le condizioni economiche, sociali e culturali di sudditi che, per la prima volta nella Storia, vengono trattati da cittadini. Questo tentativo di democratizzare la società, favorito peraltro da specifiche condizioni esterne (l’incombenza dell’Unione Sovietica), si scontra con l’esigenza del grande capitale di standardizzare i consumi. Il capitalismo si è ormai lasciato alle spalle l’adolescenza e anela a determinare (più che a condizionare) pensieri, reazioni e comportamenti: perfeziona inventando il marketing le tecniche (empiriche) della vecchia propaganda e si giova dello straordinario, inimmaginabile sviluppo dei media, oggidì onnipresenti nella vita quotidiana di chicchessia. L’omologazione procede a ritmo serrato: il pubblico interiorizza messaggi di vario contenuto ma sostanzialmente uniformi e si persuade naturalmente di vivere in una società pacificata, matura e democratica cui non esistono alternative che non siano infinitamente peggiori. Certo tocca fare dei sacrifici, rinunciare a “qualcosa”, ma la responsabilità non è mai del sistema: semmai della dichiarata scarsità di risorse (invero mai così abbondanti) e anzitutto di egoismi corporativi, incapacità di adeguarsi alle novità, devianze individuali o di gruppo. L’eretico viene raramente incarcerato (a meno che non sia davvero “pericoloso” per l’establishment menzognero: v. il caso Assange): di solito è sufficiente la sua delegittimazione, la squalifica sociale, l’additamento alla pubblica riprovazione. A questo quotidiano killeraggio si prestano volentieri giornalisti ambiziosi e mediocri ex studenti di filosofia saliti in cattedra, che svolgono un compito equiparabile a quello degli scribi-cortigiani egizi e assiri. Si potrebbe obiettare che l’attuale instabilità politica, tipica delle “democrazie”, contraddice questa fosca interpretazione del presente, ma alla critica è facile ribattere che mai come oggigiorno (in Occidente, intendo) esiste una divaricazione tra il potere formale e quello reale. Una riprova ci è offerta dal fatto che mentre la gestione contiana dell’epidemia di coronavirus era quotidianamente dileggiata dai media “ufficiali” quella tutt’altro che esemplare del Governo Draghi suscita applausi che, viste cifre e prospettive, suonano surreali. Conte ha dovuto fronteggiare l’imprevisto, ma era e resta un outsider, un “abusivo”; il supertecnico Draghi, forte della disponibilità di vaccini e dell’esperienza pregressa, sta miseramente fallendo, ma può impunemente vantarsi in conferenza stampa di aver raggiunto tutti gli obiettivi autoassegnati senza che nessuno ardisca eccepire qualcosa. Il premier scelto dai mercati viene incensato qualsiasi cosa faccia (o non faccia) poiché del regime neoliberista sovranazionale egli è una delle incarnazioni – e il dominio di questa superclasse di apolidi, che intasca i dividendi di un’umanità allo sbando, non può essere in alcun modo messo in discussione: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi.
Abbiamo elencato in precedenza i presupposti per un’efficace conquista delle menti e la creazione di un “metaverso”: ferreo controllo sulla compagine sociale, carenza di oppositori organizzati, accurata conoscenza del gruppo obiettivo e assenza di scrupoli morali (pensiamo al destino della Grecia, segnato dal “Migliore”). Le condizioni paiono attualmente esserci, condite da un’evoluzione tecnologica limitata ai campi che maggiormente interessano.
Che poi ci si ostini a definire “democrazia” il più ambizioso esperimento totalitario mai tentato è un aspetto di poco conto: come ci ha insegnato Orwell le parole sono contraffabili al pari delle coscienze.