Cina: “socialismo con caratteristiche cinesi” o “capitalismo con caratteristiche cinesi” (o altro ancora)?

Condivido complessivamente questa analisi di Carlo Formenti su un certo marxismo occidentale, eurocentrico e dogmatico https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/01/quel-marxismo-ridotto-terrapiattismo.html ma mantengo ancora forti riserve sul giudizio e sulla natura del sistema cinese. Infatti, per quanto riguarda la Cina, è ancora troppo presto per stabilire se, cito testualmente dall’articolo in oggetto, “quel mix di marxismo e confucianesimo che Perulli considera come un “residuo”, destinato a essere riassorbito dallo strapotere delle forme di vita capitalistiche, si è viceversa dimostrato come un potente dispositivo per usare il mercato capitalistico a fini totalmente diversi dalla pura accumulazione di profitti”.

Sarei meno frettoloso nel tirare le somme e aspetterei ancora anche perché sappiamo bene come la duttilità, la flessibilità e la capacità di incistarsi in contesti culturali e sociali molto diversi fra loro costituiscano le più grandi “qualità” e punti di forza del capitalismo insieme alla sua capacità di rigenerarsi e trasformarsi (trasformazione che è tuttora in corso…).

Resta inoltre da stabilire come, perché e in quale misura lo stato/partito cinese è o sarebbe in grado di condizionare in senso socialista il tumultuoso sviluppo (capitalistico) dell’economia e quindi della società cinese.

Ma lo stato non è forse rappresentativo dell’ordine sociale dominante? In parole poverissime e magari anche “vetere”, lo stato non è lo strumento delle classi dominanti? E quali sono le classi dominanti in Cina? L’enorme classe operaia e l’altrettanto enorme classe contadina presenti in quel paese? Il gigantesco apparato burocratico dello stato/partito? E da chi è composto ma soprattutto chi rappresenta e di chi fa gli interessi questo enorme apparato? Sono sufficienti quelle forme di selezione della classe politica dirigente indicate nell’articolo, cioè le elezioni locali aperte a candidati indipendenti (ma certamente non ostili al PCC…) e la Conferenza consultiva (sottolineo, consultiva…) di 3.000 membri (su una popolazione, ricordiamolo, di un miliardo e mezzo di persone…) a costruire, cito di nuovo testualmente “una costante interazione fra istanze sociali e potere politico”?

Ma il potere politico, in uno stato socialista, non dovrebbe essere nelle mani dei lavoratori? Ed è possibile che in presenza di uno sviluppo capitalistico così potente, e quindi con la conseguente e inevitabile formazione di una borghesia capitalista (la Cina è il paese che sforna più miliardari rispetto a tutti gli altri paesi del mondo), questa possa non condizionare fortemente la politica e lo stato se non addirittura arrivare a controllarli direttamente? E’ possibile, in altre parole, che lo stato/partito cinese sia in realtà lo strumento, sia pure inedito, attraverso il quale il capitalismo si è incistato in Cina così come è avvenuto, in forme diverse, in altri contesti (prendiamo ad esempio un contesto completamente diverso come l’Arabia Saudita, un paese governato da una monarchia assoluta (e da una cultura) religiosa integralista e purtuttavia, nello stesso tempo, ultra capitalista)? Ed è possibile che quello cinese sia in realtà un “capitalismo con caratteristiche cinesi” piuttosto che un “socialismo con caratteristiche cinesi” o un “socialismo di mercato” (che, per la verità, mi sembra un po’ un ossimoro…)?

E ancora, mi chiedo se sia possibile la convivenza o il connubio fra marxismo e confucianesimo, ammesso che di questo si tratti, oppure, anche in questo caso, si tratti di una formula ideologica che serve sostanzialmente a coprire una organizzazione fortemente rigida e gerarchica della società e dello stato.

Dico subito che quelle che pongo e mi pongo sono e vogliono essere domande reali, finalizzate all’apertura di un dibattito fecondo, non certo polemiche gratuite né tanto meno propositi opportunisti e politicamente strumentali (e ancor meno immotivate pulsioni anticinesi…), anche perché sono il primo a riconoscere (come potrebbe essere altrimenti?…) gli enormi e innegabili (e poi perché dovrebbero essere negati?…) progressi compiuti dalla Cina in questi ultimi quarant’anni, anche e soprattutto dal punto di vista del sensibile miglioramento delle condizioni complessive di vita di masse enormi di persone, sia pure in presenza di vistose contraddizioni (diseguaglianze molto forti sia fra classi sociali che fra città e campagna; e l’obiettivo di pari opportunità di partenza per tutti, indipendentemente dalla origine e condizione sociale, che mi pare essere ancora lontano…). Progressi che anche i suoi più feroci detrattori – e il sottoscritto non è certo fra questi – dovrebbero essere obbligati a riconoscere.

Ma questi enormi e innegabili successi e progressi non ci danno la garanzia che la Cina stia marciando o marcerà verso una società socialista. E nello stesso tempo è pur vero che non esiste un modello di socialismo astratto, ipostatizzato e decontestualizzato, valido per tutti e per sempre. Per cui non è neanche da escludere (e io me lo auguro ardentemente) che, in linea teorica e, speriamo anche pratica, il processo in corso in Cina possa portare se non ad un superamento del capitalismo, ad una egemonia complessiva, quindi non solo politica ma anche culturale e ideologica (cosa ancor più difficile…) del socialismo o comunque di uno stato socialista in grado di rendere o ridurre il capitalismo a mero strumento di crescita economica e sociale, disinnescandolo dal punto di vista ideologico (cioè della sua capacità “seduttiva” e di condizionamento ideologico e psicologico e di conseguente trasformazione, in senso capitalistico, ovviamente, della società) e impedendo la crescita e l’irrobustimento di una classe sociale capitalistica che, inevitabilmente, prima o poi “reclamerà” anche il potere politico.

In parole ancora più povere, può il socialismo convivere con il capitalismo senza esserne fagocitato e riuscire addirittura ad essere in grado di gestirlo e di domarlo? Ricordo (dal momento che spesso alcuni la citano a mò di giustificazione per quanto sta avvenendo in Cina) che in Cina siamo ben oltre la vecchia NEP di leniniana memoria che prevedeva la reintroduzione di forme limitate di economia di mercato, e siamo in presenza di uno sviluppo capitalistico impetuoso, sia pure programmato e diretto dallo stato, e della crescita di una classe capitalista che non ha nulla da invidiare (anzi…) in termini di ricchezza accumulata a quelle degli altri paesi capitalisti occidentali e/o asiatici. Una classe capitalista che fino ad ora è cresciuta e ha proliferato proprio grazie allo stato/partito ma che prima o poi reclamerà o potrebbe rivendicare anche il potere politico. Ammesso che già non l’abbia e che lo stato/partito cinese non sia la forma e lo strumento, magari inedito, con cui il capitalismo è riuscito ad affermarsi anche in Cina.

Come ho già detto, non ho tirato le somme e considero aperta (e ancora per molto tempo) la riflessione.

Nanjing Strada Di Shanghai Cina - Fotografie stock e altre immagini di  Affari - iStock

1 commento per “Cina: “socialismo con caratteristiche cinesi” o “capitalismo con caratteristiche cinesi” (o altro ancora)?

  1. Federico Lovo
    11 Gennaio 2021 at 19:34

    la differenza, fino ad ora almeno, tra Cina e Paesi capitalisti “tradizionali”, è che in questi ultimi gli “interessi speciali” dominano il sistema economico-politico complessivo, in Cina quel sistema ha la precedenza su quegli interessi (“i nuovi ricchi cinesi”), e nel sistema hanno un ruolo importante sia lo Stato che le classi popolari (la società cinese deve crescere, pur con le sue contraddizioni, nel suo complesso). Per esempio questo recente articolo è interessante, Jack Ma ha alzato la cresta, il CPC l’ha subito messo al suo posto: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-caso_jack_ma_quale_messaggio_lancia_la_cina_al_mondo/38601_39069/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.