Stamattina, mi è capitato di viaggiare in treno con un gruppo di ambulanti liguri che andavano a Roma per la manifestazione contro la direttiva Bolkestein. Il più colorito di loro teneva banco nel vagone, raccontando in un patois italo-ligure le sue disavventure fiscali e di rapporto con le licenze commerciali ed i Comuni dell’entroterra ligure. Alla fine concludeva la sua esposizione di una vita fatta di multe, cartelle esattoriali e fogli di via dati da Sindaci giustizieri con la seguente frase “era meglio quando c’era la Dc, almeno mangiavano loro e facevano mangiare anche noi, adesso noi non viviamo più, belin!”.
Ora, sarebbe ovviamente facile chiudere la questione con il classico atteggiamento moralista: “ecco qui il tipico commerciante abusivo, evasore e magari berlusconiano che si lamenta perché finalmente la legge gli viene fatta applicare”. Credo però che, a prescindere dal caso specifico, liquidare così la questione sarebbe un errore. Un errore da sinistra. Spiego perché. Intanto perché, banalmente, i commercianti ambulanti non sono dei privilegiati. Non sono i gioiellieri che denunciano poche migliaia di euro al fisco ed hanno la barca. E’ una categoria spesso marginale del mondo del commercio, che fa una vita particolarmente dura e non sempre molto redditizia. Fanno parte di quel popolo che la sinistra dovrebbe rappresentare. Idealizzare il popolo ed immaginare di voler rappresentare solo quelli che pagano regolarmente le tasse perché prelevate alla fonte dal datore di lavoro, ignorare che c’è una sacca di sopravvivenza che deve vivacchiare ai margini delle regole, e che non ha gli strumenti personali per cambiare mestiere, significa regalare questo elettorato, che con la crisi è oggettivamente in sofferenza, alla Lega. Perché sarebbe un approccio mentale tipicamente liberale: la concezione morale dello Stato, incaricato di far rispettare le regole della fair competition di mercato tramite i suoi sgherri ed i suoi tribunali, è esattamente ciò che ha in mente un liberale.
Più nel profondo, il nostro ambulante genovese ha centrato una questione molto complessa, da non liquidare facilmente: il ruolo della corruzione nei meccanismi di crescita e redistribuzione. Spogliata dagli attributi moralistici e giuridici, la corruzione altro non è che uno dei tanti possibili meccanismi di funzionamento del mercato. La direzione con la quale la corruzione orienta il funzionamento economico non è unilaterale, non è scontato. Infatti, sul tema c’è una letteratura specializzata importantissima. Risparmierò al lettore una rassegna di tale letteratura (chi volesse approfondire, può trovare un mio articolo in Rassegna Economica n.1/2015, edito da Studi e Ricerche sul Mezzogiorno). Mi limiterò a ricordare che uno degli Stati a più alto tasso di corruzione del mondo è anche una delle economie a più forte crescita del mondo, ed un capitalismo di Stato con elementi di socialismo, ovvero la Cina. A differenza dell’evasione fiscale, che distorce direttamente la curva di distribuzione del reddito fra le classi sociali, la corruzione ha un effetto redistributivo molto più incerto, e, in alcune situazioni, persino positivo. Per un motivo fondamentale: una corruzione diffusa richiede la presenza massiccia nell’economia di soggetti pubblici (o para-pubblici, come partiti o sindacati). Un meccanismo corruttivo non può esistere in assenza di uno Stato che investe risorse, finanziarie ma anche regolatorie, nell’economia. Il mondo bello dei liberali, dove il mercato opera in assenza di un intervento statuale che non sia di mera tutela dell’accessibilità e della contendibilità del playing field concorrenziale, è un mondo dove non esiste il welfare pubblico. Dove lo Stato non interviene per salvare imprese in crisi, o per assistere chi perde il lavoro, o per garantire il diritto alla salute o all’educazione. E’ l’inferno del darwinismo sociale, dove la faccia dello Stato è solo quella del gendarme che tutela l’interesse del più forte.
La corruzione esiste dove esistono meccanismi pubblici di intervento in economia e di redistribuzione, per cui il nostro ambulante ha perfettamente ragione nel dire che quando esisteva la Dc, quando cioè esisteva, nella Prima Repubblica, un apparato pubblico e parapubblico molto pesante e diffusivo, con la pretesa di regolare ogni aspetto della vita sociale del Paese, anche i pesci piccoli stavano meglio di oggi. Non a caso, le due fasi più violente di lotta alla corruzione, nel nostro Paese, coincidono con fasi di ristrutturazione neoliberista: Tangentopoli, nel 1992, che, eliminando questo apparato burocratico, aprì le porte alla ristrutturazione neoliberista del Paese nota come “adesione ai parametri di Maastricht”. Ed oggi, che stiamo vivendo una nuova fase giustizialista molto rilevante, perché si sta preparando la strada per l’ultima spallata verso il post-capitalismo finanziarizzato e globale (non a caso la lotta alla corruzione viene giustificata dall’Europa che ce lo chiede). Inchieste giudiziarie continue su vicende corruttive e smantellamento al finanziamento pubblico dei partiti, attacco ai sindacati, dimagrimento dell’apparato amministrativo dello Stato vanno di pari passo, fanno parte della stessa retorica e degli stessi obiettivi: portarci verso il mercato totalmente liberalizzato, dove sarà consumato, in perfetta legalità, il peggiore dei crimini, ovvero il massacro dei più deboli.
Peraltro, ci sono evidenze empiriche precise che la corruzione, in certe condizioni, sia un carburante che alimenta la crescita economica, e quindi allarghi la dimensione della torta per tutti (e non solo in Cina, ma persino nel nostro Paese, che ha sperimentato anni dorati di crescita economica proprio quando partiti e loro addentellati mettevano le mani sul Paese). Questo sembra essere vero soprattutto nelle fasi iniziali di un take-off economico di un Paese ancora arretrato, dove la crescita è meramente quantitativa, e non si è ancora trasformata in uno sviluppo di tipo qualitativo (rispetto al quale, invece, la corruzione, può essere un freno). La corruzione, in queste condizioni, diventa un volano che moltiplica la propensione dello Stato ad investire per dotare il Paese di quel capitale fisso primario, necessario per attivare qualsiasi crescita produttiva ed occupazionale.
Naturalmente, la corruzione ha anche dei costi economici. Non consistono, come cercano di far passare i pennivendoli venduti al capitale finanziario, nel debito pubblico. La corruzione lo fa crescere, ma evidentemente fintanto che c’è sovranità monetaria ed una Banca Centrale obbligata per legge a comprare i titoli del debito pubblico invenduti, il debito non rappresenta alcun problema economico. La colpa è quella di aver rinunciato al matrimonio fra Banca Centrale e Tesoro, costruendo questo modello mostruoso di Banche Centrali che svolgono un ruolo pubblico (le politiche monetarie) senza alcun controllo da parte del pubblico, ed aver ceduto la sovranità monetaria.
I costi intrinseci veri della corruzione sono costituiti perlopiù nella riduzione del livello di efficienza del mercato. La corruzione è una forma di barriera all’ingresso sul mercato, e quindi, come ogni barriera, ne riduce i livelli potenziali di produzione stanti le risorse disponibili ad accedere in assenza della bustarella, oppure produce spinte verso l’alto dei prezzi per coprire costi occulti, a scapito dei consumatori finali (che però in genere sono consumatori pubblici, per cui possono coprire l’extra-costo con deficit di bilancio, senza pesare sui privati). Ma il parametro dell’inefficienza è legato ad una valutazione positiva del funzionamento del mercato. In altri termini, un giudizio negativo sulla corruzione, in quanto meccanismo di riduzione dell’efficienza produttiva, di prezzo ed allocativa, dipende dalla credenza sulle virtù del mercato di trovare da solo, se lasciato libero di agire senza costi sommersi o distorsioni competitive, il punto di equilibrio ideale fra produzione, occupazione, distribuzione e consumi. Ma chiunque sia di sinistra sa benissimo che il modello walrasiano di equilibrio economico generale di libero mercato è una follia pericolosa.
Allora? Allora la corruzione è connaturata necessariamente, direi inevitabilmente, con un certo livello pubblico di correzione delle distorsioni del mercato, a sua volta necessario per garantire che anche i pesci piccoli mangino, senza morire, per tornare all’amico genovese. In termini marxiani, potremmo dire che la burocrazia è una mezza-classe, che non si riproduce con i frutti del ciclo produttivo, come i lavoratori ed i capitalisti, che vivono di salario e profitto. Il meccanismo di riproduzione di questa mezza classe è costituito da una rendita non legata a produzione di plusvalore, rendita che, in parte ed in alcuni casi, può finire per assumere anche una forma corruttiva. Senza questa mezza classe, e il suo peculiare modo di riprodursi, però, c’è meno crescita, ed emergono problemi di presenza pubblica nei meccanismi di distribuzione.
Fonte foto: Cesare Lanza (da Google)