L’altra sera mi è capitato di commentare un post su FB: un “amico” faceva un paragone (piuttosto strampalato, a parer mio) fra Che Guevara e Putin e, in ossequio allo spirito dei tempi, ingiuriava il secondo.
Cos’ho scritto di così terribile in calce al messaggio? Nulla: ho espresso la mia ammirazione per il Che, la cui memoria sopravvivrà nei secoli, e fatto notare che Putin è “uno statista in un mondo di politicanti” del calibro di un Di Maio.
Apriti cielo! Un tale, che non val la pena di nominare, mi ha investito con una bordata di insulti, cui ho replicato con un certo sarcasmo… poi, visto che non la finiva più (e che il limite di sopportazione era stato abbondantemente superato), l’ho bloccato: arrivederci e grazie.
Non mi dispiacciono le polemiche anche animate, mentre non tollero le aggressioni (esistono pure quelle verbali: consultare il vocabolario per credere).
Fin qui nulla di eclatante: i social sono da sempre uno sfogatoio, all’occorrenza tirano fuori il peggio da ciascuno di noi e comunque incomprensioni e travisamenti sono all’ordine del giorno. Sottolineo tuttavia che la mia osservazione iniziale non aveva niente di polemico: dire che Tizio è uno statista non implica di per sè un giudizio di encomio nei suoi confronti. La Storia è gremita all’inverosimile di statisti – cioè di uomini di Stato capaci di segnare un’epoca – che hanno sulla coscienza cifre impressionanti di vittime: indifferente che si tratti di sudditi spediti al macello in guerra, di oppositori finiti male o di “effetti collaterali” di politiche di potenza. Se applicassimo a questi leader il metro usato per valutare le azioni del cittadino medio dovremmo concludere che buona parte di loro sono (stati) delinquenti con la maiuscola: vale per Giulio Cesare, Genghiz Khan, Pietro il Grande… e per quasi tutti i sovrani “di polso” dalla più remota antichità a oggi. Che Hitler fosse un farabutto è ampiamente documentato, ma la condanna morale che egli merita in pieno non va disgiunta da un’analisi spassionata delle ragioni della sua ascesa travolgente e dell’iniziale successo ottenuto non solo in termini di consenso. L’etichetta di “pazzo” non spiega nulla ed è persino fuorviante (i pazzi di solito finiscono al manicomio, lui partendo da sottozero divenne uno degli uomini più influenti e idolatrati del globo), quella di criminale è superficialmente descrittiva e non ci fa fare significativi passi avanti. E’ forse più produttivo soffermarsi su alcune caratteristiche psicologiche che, mutatis mutandis, molti fra i grandi autocrati e conquistatori presentano in comune: la visionarietà, l’assenza di scrupoli morali, il cinismo, la capacità di cogliere le occasioni, la fredda razionalità, la fiducia in sé stessi. Questi individui si sono dimostrati in grado di elaborare lucidissimi progetti e strategie che non sono alla portata dei “matti” (e neppure dei “normali”): d’altra parte lo psicopatico amorale non è un folle. Viene in mente il ritratto del Principe di Machiavelli, una sorta di superuomo che per conseguire i propri obiettivi è pronto a giocarsi le vite degli altri.
Provvisti di doti assolutamente fuori dall’ordinario oltre che di spregiudicatezza e indifferenza per i patimenti altrui questi personaggi hanno plasmato la Storia – che a ben vedere è un succedersi quasi ininterrotto di guerre, trionfi e spettacolari cadute in cui il c.d. uomo comune è una sventurata comparsa. Ovviamente non tutti gli “statisti” hanno collezioni di delitti sulla coscienza, non tutti scatenano conflitti, non tutti portano a compimento i propri piani. Purtroppo quelle di Gandhi e di Marco Aurelio sono però eccezioni.
In ogni caso se attribuisco a Craxi o ad Andreotti – e persino a un Mussolini o a un Crispi – quella dignità di statisti che nessuno nega a un Cavour non è per “assolverli dai loro peccati” (d’altra parte non sono un prete…): semplicemente intravedo nelle loro condotte una coerenza logica, percepisco una visione strategica che non ritrovo nel politico medio, preoccupato solamente del “qui e ora” oltre che del proprio benessere individuale.
Riassumo. Ciò che accomuna questi “personaggi illustri” è (stata) la loro capacità di perseguire uno o più scopi “straordinari” e di affrontare gli inevitabili ostacoli, non certo la mansuetudine o il ripudio della guerra: altrimenti dovremmo escludere dal novero pure il già citato Cavour e lo stesso Giolitti, che invase la Libia nel 1911.
A giudicare dai fatti Vladimir Putin rientra a pieno titolo nella categoria: toccherà agli avvenimenti stabilire se i suoi calcoli a lungo termine siano stati corretti o meno. L’affermazione appena fatta è addirittura ovvia e non implica alcun sostegno morale, ma in questo clima di maccartismo (cit. Canfora) chiunque fuoriesca dai binari tracciati dalla propaganda occidentale diventa complice del “mostro”, traditore e reietto.
Nihil sub sole novi: due anni abbondanti di pandemia – e di costruzione quotidiana del “nemico” – sono stati un ottimo allenamento per i propagandisti nostrani. Se è lecito odiare chi rifiuta di vaccinarsi (e addirittura augurargli sofferenza e morte) assurge quasi a dovere civico per la plebe indottrinata maledire un “demone” che, al di là delle luttuose decisioni assunte e di crimini veri o presunti, ha soprattutto l’imperdonabile torto di sfidare a viso aperto i padroni del mondo.