Negli ultimi giorni, tra le tante polemiche che si susseguono, ne è emersa una che sembra meritare maggiore attenzione: si tratta del caso sullo spot della Parmigiano Reggiano, spot che è stato capace di offendere tanta gente che ha poi alzato un polverone tra social e articoli. Nello spot (che è un montaggio le cui scene sono prese da un cortometraggio prodotto sempre dal noto consorzio emiliano) si può vedere il noto attore Stefano Fresi che fa da guida a un gruppo di giovani in uno stabilimento nel quale viene prodotto il famoso formaggio. La scena incriminata arriva quando il gruppetto si ferma davanti a uno dei lavoratori dello stabilimento e Fresi dice: “nel siero ci sono i batteri lattici, l’unico additivo è il nostro Renatino che lavora qui da quando aveva diciotto anni tutti i giorni trecentosessantacinque giorni l’anno”. Successivamente a queste parole i ragazzi e le ragazze in visita iniziano a elogiare il bravo dipendente: “Renatino posso dirti? Sei un grande” o “sei il meglio”. Lo spot si conclude con una scena nella quale quegli stessi ragazzi si godono il crepuscolo fuori dal loro camper mangiando formaggio ed elogiando l’amore che Renatino mette nel proprio lavoro.
Nella bufera sorta da questo spot sono finiti anche alcuni spezzoni del cortometraggio non presenti nella pubblicità, alcuni secondi di scena successivi vedevano infatti i ragazzi chiedere a Renatino: “quindi non sei mai stato a Parigi, al mare, a sciare?” per sentirsi rispondere un sottomesso “no” e chiedere di rimando se in questo stato egli fosse felice, sentendosi questa volta rispondere “si”.
Non c’è dubbio che tutta questa scena sia assolutamente un delirante pugno nell’occhio per chiunque abbia a cuore i diritti dei lavoratori, in modo ancor più specifico rappresenta un’offesa nei confronti di tutti gli italiani colpiti in ambito lavorativo da tutti i problemi e le arretratezze che in tal senso ci caratterizzano, quindi non desta sorpresa il fatto che le polemiche insorte a seguito dello spot abbiano visto la stessa azienda essere accusata di sfruttamento o di apologia di sfruttamento del lavoro: ci sono però i presupposti per sostenere che questo modo di impostare il discorso da parte della pubblica invettiva sia lecito ma riduttivo e assolutamente non risolutivo.
La prima riflessione da fare in merito a tutto ciò è che l’immoralità e l’insensibilità del gesto non potrebbero mai essere state intenzionali o scaturenti dalla volontà di imporre un messaggio a favore di una “normalizzazione” dello sfruttamento: ne segue quindi la seconda riflessione per la quale si presenta uno scenario diametralmente opposto, dove nessun anello della catena di produzione e pubblicazione di un prodotto del marketing sembrerebbe essersi accorto del fatto che in quello spot una categoria veniva chiaramente offesa.
La terza riflessione arriva da sé: come è possibile che in un sistema nel quale i media e la comunicazione hanno l’ossessione di non offendere mai nessuno, una produzione di questo genere si lasci sfuggire questa incredibile gaffe? Ed è proprio da questo punto che andrebbe fatta partire l’analisi da fare sul caso, un’analisi che non si deve limitare a guardare il dito, sbraitando contro la Parmigiano Reggiano, ma che cerca di guardare la luna.
Non è una sorpresa, specie per chi è di stampo socialista o marxista, che nell’impalcatura ideologica occidentale la questione di classe sia stata abilmente sostituita (o volutamente fraintesa) con varie questioni sulle minoranze (con una prevalente logica di razza o di gender). Questa tendenza ha permeato politica, istituzioni, codici di comunicazione, morale e tanti altri aspetti della società, diventando egemone a livello intellettuale ed accademico ed espandendosi in particolar modo nelle materie umanistiche come filosofia e sociologia. Se si tiene vivo questo punto non diventa difficile comprendere come tutte le regole di comunicazione siano codificate in relazione a quelle medesime tendenze ideologiche e sociologiche, anzi si potrebbe proprio dire che la comunicazione ufficiale odierna si basa su quello che viene prodotto in tal senso dai militanti intellettuali delle politiche di minoranza (ampiamente disposti su tutte le caselle ideologiche, dal femminismo alle questioni etniche).
Dal momento in cui queste analisi tendono ad escludere le categorie di classe e maschili, diventa logico il fatto che quell’ormai arcinoto maschio bianco etero cis non potrà mai essere identificato nei loro parametri come categoria a rischio di offesa: gli strumenti che vengono utilizzati dal mainstream ideologico corrente, quindi sono imposti in ambito di comunicazione, mancano di quei principi capaci di riconoscere in Renatino una figura oppressa. Ragionando in questi termini un fatto diventa evidente: La mancanza di sensibilità nei confronti delle questioni di classe e maschili non è solo voluta da una fetta di mondo intellettuale, è letteralmente interiorizzata dalla percezione collettiva di una intera classe dirigente, lo è a tal punto da non permettegli una idonea lettura del reale nemmeno dove gli è necessaria per gli scopi di controllo comunicativo.
Sotto questo aspetto diventa ironico pensare al fatto che mentre l’attore Fresi si difende dal polverone sostenendo che si tratti solo di finzione, lui ed il regista Genovese si sono involontariamente trovati fautori di una scena iper-realista, nella quale una realtà dura che si tocca con mano tutti i giorni viene rappresentata nella sua disarmante crudezza: un uomo qualunque, decisamente non desiderabile, che svolge un lavoro umile e con i diritti totalmente calpestati, si trova a dover dire si, chinando il capo, a un presunto padrone e a degli spensierati giovani che evidentemente hanno le risorse per andare lì a divertirsi. Questo è tutto fuorché fantasia.