Il mio intervento al seminario “La ragione e la forza” promosso dalla Rete dei Comunisti e svoltosi a Roma sabato 18 giugno 2016
La relazione introduttiva ha un merito fondamentale, e cioè conferma un approccio analitico e un punto di vista di classe rispetto al contesto storico in cui ci troviamo. Questo può apparire scontato, specie per dei marxisti ma, a mio parere, oggi, in una fase di grande confusione ideologica come questa, dove la concezione (e relativa coscienza) di classe hanno subito un attacco massiccio fino ad essere state messe in discussione, ad essere concepite come dei relitti, dei reperti archeologici da consegnare ai musei e agli archivi della storia, non lo è affatto. E questo è un punto fermo, un discrimine che a mio parere è determinante per fare chiarezza. Pensiamo ad esempio ai cantori del presunto superamento del conflitto di classe (per lo più dell’area neoliberale e neoliberista ma non solo) e ai sostenitori (in parte gli stessi ma non solo, anche in questo caso) del presunto superamento delle categorie di “destra e di sinistra”. Ora, questo è un punto assai delicato perché non c’è alcun dubbio che allo stato delle cose le attuali declinazioni e determinazioni storiche e politiche della destra e della sinistra siano due facce dello stesso sistema capitalista che utilizza ora l’una e ora l’altra a seconda delle necessità. Anzi, la “sinistra” è oggi considerata per tante ragioni addirittura più funzionale per garantire la famosa “governance” tanto cara ai padroni del vapore, cioè al grande capitale trans e multinazionale che governa sul mondo. Del resto il processo di globalizzazione capitalista viene portato avanti sotto le false bandiere della “sinistra cosiddetta progressista, liberal e politicamente corretta” che ha in larga parte (anche se non del tutto) sostituito il vecchio sistema valoriale/ideologico “vetero borghese, diciamo così, giudicato non più funzionale come nel passato, ma di questo ne parlerò più avanti…(gli USA sono il paradigma più evidente di quanto sto dicendo dove il razzista, populista, neo-fascista e xenofobo Trump viene utilizzato come uno spauracchio, ma il vero obiettivo è eleggere la liberal e guerrafondaia Clinton, sostenuta dalle lobby che contano). Quindi destra liberista e sinistra liberista (più cespugli al seguito) si dividono sullo spinello libero o sul matrimonio gay ma di certo si guardano bene dal mettere in discussione l’ordine capitalista dominante. Tuttavia dietro alla logica del superamento delle categorie di destra e sinistra si cela in realtà un discorso ben più pericoloso che è appunto quello del superamento della dialettica di classe. Ed è questo il vero obiettivo. Ma questo è un discorso capzioso perchè anche quando le categorie di destra e di sinistra non erano state ancora inventate, la contraddizione di classe (e relativo conflitto) esistevano, eccome. Nel 1500, ad esempio le categorie di destra e di sinistra non erano ancora state inventate eppure se decidessimo di attribuire queste stesse categorie alla scontro che ha opposto i contadini tedeschi dal 1521 al 1525 ai principi, non potremmo che individuare nei contadini in rivolta di classe, la Sinistra, e nei principi in difesa dei loro interessi di classe, la Destra. Ora si tratta casomai di capire se sia ancora opportuno, specie per i comunisti, continuare ad utilizzare tali categorie, dal momento che la loro effettiva e attuale determinazione, in questa fase storica, ha fatto smarrire il loro significato originario, soprattutto nell’immaginario collettivo (se per esempio sbarcasse un alieno, ma il discorso vale anche per una persona al di sotto dei 40 anni, individuerebbe la sinistra nel PD, nella Repubblica, in Renzi, Scalfari, D’Alema o Veltroni, Fabio Fazio e Gramellini, nell’ideologia politically correct, nelle tematiche Lgbt, in Vendola, Luxuria che va a protestare contro l’omofobia in Russia ecc.) ma questo non lo possiamo decidere noi. Il M5S, ad esempio, ha capito perfettamente l’attualità della questione e l’ha interpretata a suo modo, scegliendo cioè di superare tali categorie, ma non a caso il M5S non è un movimento di classe, anzi è profondamente interclassista (parlo dal punto di vista ideologico, perché poi invece è importante porsi il problema della ricostruzione di un blocco sociale anche eterogeneo, in senso gramsciano, potremmo dire) e non ha certo nel suo orizzonte il superamento dell’ordine sociale capitalista. Quindi c’è un problema ideologico e, aggiungo, anche simbolico, di fondamentale importanza, che attiene alla cosiddetta sovrastruttura, e che non può essere considerato secondario o succedaneo. A mio parere è talmente importante la sfera ideologica che oggi anche la tradizionale relazione marxiana fra struttura e sovrastruttura potrebbe essere rivisitata e potremmo addirittura parlare di un’unica grande struttura capitalista.
Quindi, come dicevo, sotto questo profilo questo documento ha un indiscusso merito, perché fissa appunto dei paletti, e cioè ha un approccio di classe ben saldo e definito e nello stesso tempo, e non poteva essere altrimenti, analizza le trasformazioni profonde avvenute nel tessuto sociale, dovute a tanti fattori di vario ordine ma naturalmente in primis ai processi di automazione del lavoro, alla rivoluzione tecnologica (Tecnica) che da una parte ha “liberato” e continua a “liberare” masse umane sempre più crescenti, mettendole però ai margini (perché naturalmente la ricchezza prodotta non viene ridistribuita perché la Tecnica trasforma profondamente il lavoro e il tessuto sociale ma non trasforma il modello sociale capitalistico), precarizzandole e creando una massa di disoccupati, inoccupati, sottoccupati o precari destinata a crescere sempre di più, e dall’altra nello stesso tempo ha però costruito una ampia fascia di lavoratori specializzati, spesso anche molto specializzati, che una volta avremmo definito come proletariato intellettuale, ma che oggi mi sembrerebbe improprio definirli tali dal momento che si tratta di figure professionali fra le più svariate e di soggetti sociali di diverso genere, molto spesso provenienti da settori piccoloborghesi o medioborghesi con ambizioni alte o medio alto “borghesi”. E’ vero che la crisi economica tende ad acutizzare le contraddizioni e ad esasperare le differenze e le diseguaglianze sociali ma molto spesso i confini non sono ben definiti, per cui ci troviamo di fronte ad magma sociale complesso dove sono compresenti spinte e controspinte e all’interno del quale è comunque l’ideologia capitalista ad esercitare egemonia. E questo è appunto dato, dovendo essere sintetici, dal combinato disposto della assenza di coscienza di classe da una parte a sua volta determinata dai processi di trasformazione del lavoro e della composizione sociale che ha creato un’infinità di soggetti sociali disgregati, atomizzati, molto difficilmente organizzabili, che hanno appunto interiorizzato il messaggio ideologico dominante. Il soggetto stesso ha interiorizzato il concetto di “forma merce”, perché si sente egli /ella stesso/a una merce e come tale si relaziona nel mondo. E noi sappiamo che una merce non la si dona, ma la si investe per trarne un utile o per avere l’illusione di trarne un utile. Qui la questione diventa molto complessa e non la posso affrontare ora per ragioni di tempo, ma non può essere in alcun modo elusa.
Dicevo della Tecnica. Oggi in alcuni ambienti filosofici c’è un dibattito in corso, e ci si divide fra chi ritiene che la Tecnica stia marciando per conto proprio, per sua stessa natura, per sua stessa condizione ontologica, potremmo dire, e che proprio per questo, cioè per la sua oggettiva e intrinseca capacità di trasformare il reale, stia assumendo o abbia già assunto di fatto il comando, e chi invece sostiene che la Tecnica sia al servizio del Capitalismo, cioè che questo si serva sostanzialmente della prima per perpetrare il suo dominio. La questione non è di facile risoluzione ma, a mio modesto parere, è anche mal posta. Nel senso che è impossibile separare la Tecnica dal dominio capitalista. I due marciano assieme e si potrebbe parlare appunto di “Tecnocapitalismo”, di dominio “tecnocapitalista”. Questo è un punto determinante perché lo sviluppo “tecnocapitalista” non solo continuerà a provocare sconvolgimenti nell’organizzazione del lavoro e quindi nel tessuto sociale, ma addirittura, cosa che sta già avvenendo, arriverà ad intervenire sulla natura stessa, sugli esseri umani. Pensiamo, per fare un esempio attuale, alla questione dell’utero in affitto che è soltanto la punta di diamante, la prima avvisaglia di quello che sarà in un futuro molto prossimo, l’utero artificiale. E cioè ciascuno di noi di qui a poco potrà recarsi in un laboratorio, naturalmente pagando, e potrà letteralmente “ordinare” un figlio, comprarlo, né più e né meno di come si compra qualsiasi merce. Ovviamente, quando uno compra, si presuppone che decida anche la “qualità” del “prodotto” (quindi lo voglio biondo, moro, femmina, maschio ecc.) Probabilmente in un primo tempo verranno posti degli ostacoli da questo punto di vista ma a mio parere saranno destinati ad essere superati per la semplice ragione che la logica capitalista, strutturalmente e intrinsecamente fondata sulla necessaria circolazione illimitata della merce e delle merci (intese nel senso più ampio), oltre che sull’estorsione di plusvalore e quindi sulla altrettanto illimitata e infinita riproduzione del capitale, per sua natura non può avere limiti. Siamo di fronte ad un processo di mercificazione assoluta dell’umano, che avviene attraverso la collaborazione fra Tecnica e Capitalismo, dove la prima fornisce gli strumenti e il secondo stabilisce i criteri economici e ideologici all’interno del quale tutto ciò deve avvenire; tutto ciò, naturalmente sostenuto dalla nuova ideologia capitalista politicamente corretta. In questo ambito specifico, a supportare questo processo sono le correnti ideologiche ultra laiciste, eugenetiste, relativiste assolute e naturalmente anche il femminismo cosiddetto genderista. L’obiettivo finale di questo processo è quello di approdare alla famosa “fine della storia”, cioè di arrivare a “naturalizzare” il capitalismo, ad elevarlo a dimensione ontologica, quindi non più una forma storica dell’agire umano ma una vera e propria, come dicevo, dimensione ontologica dalla quale non si può prescindere.
Quindi siamo di fronte ad una complessità che deve essere affrontata con strumenti interpretativi nuovi.
Nonostante ciò, o forse proprio in virtù o a causa di ciò, il conflitto sociale non solo non è aumentato in misura esponenziale ma si è ridotto ai minimi termini. E allora, dobbiamo chiederci perché, pur in presenza di contraddizioni crescenti e devastanti, non c’è una risposta adeguata o spesso non c’è per nulla, e siamo di fronte ad una passività generale.
Perché? Perché c’è stata una offensiva ideologica, un lucido processo finalizzato alla distruzione o all’indebolimento della coscienza e dell’identità di classe che ne è uscita ideologicamente e psicologicamente devastata; oggi possiamo dire che esiste la classe in se ma non la “classe per se”, nel senso che non esiste una classe dotata di coscienza politica, a parte la classe dominante, ovviamente, che è sempre provvista di coscienza di classe. Quindi la coscienza e l’identità di classe sono state scientemente attaccate, attraverso quello che io definisco come un processo di occupazione, di colonizzazione di quella che io chiamo come “psicosfera”, o meglio “psico-eto-sfera”, cioè quel luogo, o meglio quel “non-luogo” dove si forma e si costruisce il comune sentire, il cosiddetto l’immaginario, quello spazio invisibile dove si costruiscono e si interiorizzano i valori e l’ideologia dominante e, dunque, dove si forma la coscienza. Questo ambito, che oggi è fondamentale e vedremo perché, è stato completamente occupato dalla ideologia capitalista che nel frattempo ha saputo rinnovarsi profondamente. Questo processo ha portato alla costruzione di un individuo ideologicamente, psicologicamente, culturalmente e socialmente sradicato, atomizzato, un consumatore passivo e al contempo un lavoratore, precario o meno, del tutto privo di coscienza di classe, un soggetto che non ha percezione di se come soggetto sociale cosciente ma come individuo fra altri individui, a prescindere dalla condizione e dalla collocazione sociale. Il modello ideologico anglosassone e americano in particolare ha vinto, per lo meno in questa fase.
Il controllo, dunque, della sfera pubblica, passa innanzitutto attraverso il controllo e il dominio della sfera privata, del foro interiore delle persone, ridotte a una sorta di monadi capaci di comunicare e di relazionarsi fra loro solo attraverso lo scambio mercantile, non solo dal punto di vista pratico, ma soprattutto psicologico. L’individuo, quindi, è stato ridotto a merce, concettualmente e psicologicamente parlando, avendo interiorizzato a livello profondo, subliminale, il messaggio dominante. La razionalità strumentale è la sola ammessa e questa razionalità strumentale pervade ogni anfratto della vita umana, non solo il contesto lavorativo, ma soprattutto quello sociale, relazionale, affettivo, sessuale. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. Se soltanto uno di questi ambiti fosse sottratto o lasciato libero dalla ragione strumentale, inevitabilmente tutto il castello crollerebbe, come per un effetto domino. Il processo di mercificazione deve essere assoluto. Per questo oggi è lecito parlare di capitalismo assoluto, cioè di un forma di dominio sociale che ha necessità di controllare non solo ogni spazio dell’agire umano, ma l’essere umano stesso; è l’essere umano stesso che deve diventare merce e deve interiorizzare il fatto di essere esso stesso merce. Ecco quindi come la “forma merce”, il famoso “feticismo delle merci” raggiunge nella fase storica attuale il suo punto apicale.
Il controllo e il dominio della sfera privata, del foro interiore delle persone, è quindi oggi più importante e determinante del controllo della sfera pubblica. Fino a un secolo o due secoli fa non era così, perché nel momento in cui una persona passava dodici ore in una fabbrica davanti ad una macchina di cui era sostanzialmente un appendice, il controllo sociale era già in essere, e non c’era la necessità di penetrare e controllare la sua psiche. Oggi, da tempo, non è più così. La costruzione e la produzione del consenso passa innanzitutto dal controllo e dalla manipolazione della sfera psichica delle persone.
Il dominio capitalistico, che da un certo punto di vista, è fondato su un concetto di irrazionalità ma che al contempo è percorso e provvisto di grande intelligenza, lo ha capito perfettamente e ha adeguato nel tempo il suo apparato valoriale e ideologico, anche e soprattutto arrivando ad assumere e a fare sue tematiche che originariamente appartenevano ad un “sinistra” sessantottina o postsessantottina. L’ideologia cosiddetta politicamente corretta è il risultato di questo processo. Una sorta di nuova religione secolarizzata che va in parte a sostituire la vecchia, cioè il famoso “Dio, Patria e Famiglia”, oggi in larga parte inservibile se non addirittura di ostacolo al pieno dispiegarsi del capitale e della forma merce, e che però viene tenuto in panchina, pronto alla bisogna, come si suol dire. Del resto già dicevo prima della funzione che hanno gli schieramenti della destra o della neo destra populista, post o neofascista, come Trump negli USA o il FN e la Lega Nord in Francia e in Italia, i quali mantengono, ma solo parzialmente, il vecchio apparato valoriale e ideologico, ma fungono appunto da spauracchi, da contraltare ideologico rispetto a quella che è oggi l’ideologia capitalista dominante politically correct.
A questo punto molti, legittimamente, potrebbero porre la domanda: perché l’ideologia politicamente corretta è più funzionale della vecchia?
Patria: una volta le borghesie imperialiste mandavano masse di poveracci a scannarsi fra loro con l’alibi della difesa del suolo patrio. Prima ancora le si mandava per ragioni di ordine religioso. Poi c’è stato il colonialismo razzista che affondava le sue radici sulla presunta superiorità della civiltà occidentale. Oggi questa forma di falsa coscienza, nel momento in cui si va a bombardare con i droni a 15.000 km. di distanza, è superata oggettivamente o comunque deve essere rivisitata e aggiornata. E allora si dice che si va a bombardare e ad occupare per portare democrazia, diritti umani e togliere il burqa alle donne. Non più quindi il concetto di superiorità della civiltà bianca e occidentale, ma il principio universalista di derivazione kantiana (di per se giusto, sia chiaro, se non fosse strumentalmente utilizzato) utilizzato come strumento e come falsa coscienza per coprire ideologicamente la guerra imperialista.
Dio: cioè l’istanza etica, religiosa, che è stata sicuramente funzionale in diverse e determinate fasi dello sviluppo capitalistico; pensiamo al ruolo della religione calvinista in una prima fase e a quello della religione cattolica nella fase del confronto con il Movimento Operaio, il Movimento Comunista internazionale e naturalmente il Socialismo reale. Oggi, senza più un antagonista, ideologicamente parlando, il Capitalismo ha sempre meno necessità dell’istanza etica e religiosa che per sua natura stabilisce un prius, appunto quello del precetto etico/religioso. Ma il capitalismo trionfante su scala planetaria non ammette nessuna forma di “auctoritas”, nessun tipo di “comandamento” che non sia la “forma merce”, concettualmente intesa e la sua infinita e illimitata riproduzione. Il confronto-scontro, ad esempio, fra il blocco (o i blocchi) capitalista e imperialista occidentale e la Russia, stato capitalista ma non imperialista, viene colorato dal punto di vista ideologico come lo scontro fra la civiltà liberale e democratica, progressista e femminista da una parte, e un contesto oscurantista, retrivo, patriarcale e addirittura omofobo dall’altra. Stesso discorso, anzi, con molta più veemenza, vale per ciò che riguarda la scontro con il cosiddetto “mondo islamico”. Quindi non più uno scontro fa religioni ma uno scontro di civiltà, dove però l’Occidente assume come bandiera ideologica non tanto la tradizione cristiana quanto appunto l’ideologia liberal e politically correct.
Famiglia: se l’obiettivo è quello di ridurre il pianeta ad un gigantesco Mc Donald è altrettanto evidente che si dovrà distruggere ogni forma di identità. Questo concetto di identità a sinistra fa drizzare i capelli ma io credo che questo atteggiamento sia profondamente errato. Perché, la coscienza di classe non è forse una forma di identità? La coscienza cioè di essere parte di una classe sociale oppressa e sfruttata e che si pone l’obiettivo del superamento della sua condizione di subordinazione, non è forse una forma di identità? I popoli che da sempre hanno lottato contro il colonialismo e l’imperialismo non lo hanno fatto innanzitutto rivendicando le loro radici, la loro identità culturale? E’ valso praticamente per tutti, dagli indiani americani al popolo algerino, palestinese, vietnamita e quant’altro. Certo, lo stadio più evoluto lo si ha quando la rivendicazione della propria identità culturale marcia di pari passo fino a sovrapporsi con la coscienza di classe, è ovvio. Viceversa, come ben sappiamo, il concetto di identità può declinarsi in senso ideologicamente nazionalista, ma questo è un rischio che non può essere evitato.
Il discorso che ho fatto sulle identità culturali vale naturalmente anche per il concetto di famiglia. Una famiglia cosiddetta tradizionale, diciamo così, con un maschile e un femminile e un paterno (che non significa necessariamente patriarcato anche se ormai i concetti sono stati completamente sovrapposti) e un materno psicologicamente solidi, possono essere di ostacolo ad un capitalismo che ha optato, sotto questo aspetto (sia chiaro, sotto questo aspetto), per quella che viene definita una forma “liquida”, fluida. L’attuale forma del dominio capitalista ha necessità di un tessuto sociale spappolato, di identità deboli, fragili, di individui atomizzati, ridotti a consumatori passivi e a lavoratori precari altrettanto passivi che interiorizzano la loro condizione. Non ha quindi nessun interesse alla costruzione di persone consapevoli dotate di solidità psicologica bensì ad individui “confusi”, disorientati, privi di ogni baricentro, e suscettibili quindi di ogni forma di condizionamento. Anche per questo è evidente come sia quanto meno anacronistico pensare che l’attuale società capitalista sia a trazione patriarcale. Il patriarcato aveva una funzione all’interno della vecchia società borghese di hegeliana memoria, oggi non ne ha più alcuna, per la semplice ragione che la “forma merce” deve circolare senza nessun limite di sorta. Il processo di mercificazione deve essere totale e assoluto e non può permettersi rigide compartimentazioni né tanto meno una struttura gerarchica relazionale e intrafamiliare che può costituire potenzialmente un ostacolo. Tutti/e devono produrre e tutti/e devono non solo consumare ma essere ridotti essi stessi a merce.
Relativismo: su questo già ho detto in parte ma è evidente che il relativismo etico e filosofico, quindi il cosiddetto “pensiero debole” è del tutto funzionale all’attuale dominio capitalistico che è stato, come dicevo, “naturalizzato”, e quindi sottratto al dibattito filosofico, a sua volta trasformato in una sorta di innocuo carosello di opinioni. Per la serie:”Dite pure tutto quello che volete perché tanto ciò che conta è il Mercato” considerato come dato di fatto, come realtà immanente e quindi intrasformabile, una realtà che va accettata inesorabilmente e alla quale ci si deve rassegnare. Le uniche eccezioni sono quelle di Israele e del femminismo. Questi sono gli unici due dogmi che non possono essere messi in discussione.
Femminismo: capisco che il tema è a dir poco scabroso se non un vero e proprio tabù intoccabile, una sorta di Verità Assoluta incriticabile e data per acquisita. Guarda caso – si fa per dire – proprio in tempi di pensiero debole e di relativismo assoluto, il femminismo resta l’unica narrazione ideologica considerata infallibile, a sinistra come a destra. Io ritengo invece che così non è e che il femminismo, o meglio il neo femminismo, cioè quello che si è effettivamente determinato e che oggi rappresenta uno dei mattoni fondamentali dell’ideologia dominante (lo dimostra il fatto che è incriticabile, e chi lo critica è sottoposto all’ostracismo, al pubblico ludibrio, all’emarginazione sociale e umana, alla chiusura di ogni spazio pubblico, professionale e/o politico) anche se abilmente camuffato come ideologia “progressista e di sinistra” o ancor più come una ideologia di liberazione, sia invece una ideologia sostanzialmente sessista, interclassista e del tutto funzionale all’attuale sistema dominante. Una ideologia che si è concretizzata in un processo di colpevolizzazione e criminalizzazione tout court del genere maschile, che sostiene e continua a sostenere che tutti gli uomini, anzi, che tutti i maschi, in quanto tali, indipendentemente dalla loro condizione sociale, ambientale, economica, ecc. godano di una posizione di dominio, di supremazia e di privilegio nei confronti delle donne. Un punto di vista sessista e oggettivamente interclassista, oltre che clamorosamente falso che nulla ha e può avere con una logica di classe.
Le ricadute di questa ideologia sono vantaggiosissime per il sistema dominante:
dividere le masse alimentando una guerra fra i sessi sostitutiva di quella di classe dove naturalmente il genere maschile, riconosciuto colpevole di ogni orrore commesso nella storia, è quello da mettere nell’angolo e da rieducare;
depistarle ideologicamente distogliendo la loro attenzione dalle contraddizioni reali (diseguaglianza e marginalità sociale crescenti, precarizzazione del lavoro, aumento dello sfruttamento, guerre imperialiste)
individuare il nemico non nel sistema capitalista e nel dominio di classe ma nel genere maschile, la cui storia viene ridotta ad una sorta di museo degli orrori. “La violenza infatti – secondo questa narrazione – è maschile” per definizione, secondo alcune correnti femministe addirittura per condizione ontologica. In questo modo la lavoratrice viene messa contro il lavoratore, la moglie dell’operaio contro l’operaio, la donna contro l’uomo
colpevolizzare, criminalizzare e quindi paralizzare psicologicamente gli uomini.
Dovrebbe essere superfluo sottolineare ma lo faccio, a scanso di equivoci, che quando parlo di femminismo non mi riferisco alle lotte delle operaie, delle braccianti, delle mondine e di tutte le donne proletarie – quelle erano lotte di classe e a nessuna di quelle donne sarebbe mai saltato in testa di sostenere o anche solo di pensare che “la violenza è maschile” e che in ogni uomo c’è un potenziale stupratore o “femminicida”– ma a quell’ideologia nata nei salotti liberal e nei campus universitari d’oltre oceano e contestualmente sbarcata in Europa. Il femminismo non nasce a Mosca, a Pechino o all’Avana ma nel cuore dell’Occidente capitalistico all’interno del quale si afferma e diventa ideologia dominante. Naturalmente il discorso sarebbe da approfondire ma non lo faccio per ovvie ragioni di tempo e spazio.