L’attuale crisi, aldilà dell’effetto dovuto dalla pandemia, ha dietro di sé un trentennio caratterizzato da altre che hanno investito, oltre l’economia, la politica, la cultura e l’ambiente: un liberismo senza freni, dove deregulation e libera iniziativa, sono state le parole d’ordine prioritarie.
La speculazione estrema, la maniacale finanziarizzazione del plusvalore, hanno fatto il resto, mentre gli apparati statali, sempre più soggetti al capitale, hanno sostenuto il castello di carta, finanziando con denaro pubblico le imprese, ed appaltando loro lavori pubblici (alla faccia del liberismo).
Ma quale liberismo! Paradossalmente ( ma non tanto ), è il capitale il maggior fautore dell’intervento statale e proprio nei periodi di crisi, per evitare le possibili rivolte sociali, chiede sostegno al consumo con piani d’intervento statali, attraverso il welfare che diviene così, per il capitalismo, elemento salvifico e fautore di nuova accumulazione. Da una parte si salvano le imprese e le banche, dall’altra si danno elemosine ai lavoratori. La povertà, l’insicurezza, la disoccupazione e la precarietà, sono da anni in costante aumento, mentre passiamo gran parte delle nostre giornate di vita a lavorare per il profitto, alienandoci la possibilità di dare un senso alla nostra esistenza, priva di soddisfazioni reali, mai basata sulle proprie aspirazioni ed inclinazioni. Una esistenza funzionale all’accumulazione altrui.
Nel frattempo, le statistiche ci aggiornano sul crollo della disoccupazione giovanile, a fronte della permanenza degli anziani nei posti di lavoro. Chi, in altri tempi, era impegnato a rovesciare “lo stato di cose presenti”, oggi, si trova a cogestire quel potere che voleva smantellare, tanto da volerci far credere, che il loro operato travalica i meri interessi personali, bensì è rivolto al benessere altrui, tanto da tacciare da egoista o asociale, chi rivendica i propri diritti ( sociali ed economici ), accusandolo di immoralità o di voler vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Purtroppo, l’introiezione di tali “accuse”, provoca un ulteriore assoggettamento allo spirito di “abnegazione nazionale”, obnubilando le menti e distraendo i comportamenti. Ciò mentre, ancora oggi, c’è chi arricchisce, contrariamente a coloro che vedranno presentarsi il conto ( tasse, riduzione dei servizi pubblici, abolizione del welfare… ) dovuto a tanti “salvataggi” finanziari ed industriali, in previsione di una “razionalizzazione dell’economia” ed il “ ravvedimento etico” dei suoi gestori. Non viene il dubbio, che per rilanciare i consumi, occorre operare in maniera opposta a quanto fino ad oggi fatto? Aumentare il numero ed il valore delle buste paga, restituendo il maltolto, dopo anni di politiche liberiste e restrittive.
Già, ma in che modo, se il capitale tende a produrre di più e con meno addetti, magari, anche comprimendo i salari? Il capitalismo deve oggi risolvere il suo problema, non importa come, anche a costo di prostituirsi al vituperato intervento statale, che per anni è stato la sua stampella: con le detassazioni, con le privatizzazioni, con lauti interventi assistenziali alle imprese e misere elemosine ai cittadini/consumatori, con politiche repressive e demolizioni delle conquiste sociali, imponendo “sacrifici, partecipazione e consenso” ai cittadini/sudditi.