DAD-DID e la comunicazione che non c’è
L’anno scolastico volge al termine, ogni giro di boa è faticoso, si è concentrati sul movimento e si perde di vista il mutamento profondo che il cambiamento comporta. La DAD poi DID ha implicato una sostanziale conferma del carattere regressivo dell’assetto culturale e sociale attuale. La conservazione è oscurata dal velo di Maya del perenne dinamismo, la contemporaneità appare come rivoluzionaria, poiché l’attenzione è concentrata sul mezzo. Si potenziano i mezzi, ma si perde il senso del fine dietro le procedure e l’acquisizione dell’uso dei nuovi mezzi fino a scomparire dall’orizzonte di riflessione. Si deve far emergere il fine, cercare di identificarlo in modo da distinguere i mezzi dai fini e riportare il caos del regno dei mezzi alla sua razionalità. A tal scopo è indispensabile comparare in modo contrastivo la finalità del tempo ordinario della scuola con il tempo straordinario che stiamo vivendo. Il tempo scuola ordinario, tempo in presenza, è concretezza del tempo e dello spazio che potenzialmente consente la didattica della comunicazione[1] e della relazione. La parola comunicazione ha nel suo grembo la relazione, comunicare significa mettere in comune, e ciò necessita della relazione. Docente ed alunno condividendo lo spazio-tempo concreto si incontrano nello sguardo, la presenza invoca alla reciproca responsabilità, conduce a non sottrarsi alla comunicazione-relazione. Nei casi in cui ci si sottrae alla relazione il disagio emotivo che ne consegue è il residuo emotivo-cognitivo su cui è possibile ricostruire la relazione. L’incontro concreto espande la corporeità vissuta, fino a sentire l’altro parte viva di sé, la chiusura dell’ora di lezione, non reca la cesura del rapporto educativo, ma al suo potenziale ripensamento.
L’ambiente scuola con i suoi spazi rammenta il valore pubblico e comunitario della formazione. L’ambiente in cui si esplica la relazione didattica non è neutro ed asettico, ma è parte attiva del rapporto didattico. Docenti, alunni e l’apparato scolastico tutto sono comunità, in primis perché condividono uno spazio pubblico e non privato. Lo spazio comune finalizza l’attività al servizio della stessa trascendendo egoismi e resistenze, o quanto meno favorisce tale finalità. Nella scuola pubblica si vive l’esperienza di una comunità non parentale, si impara ad essere parte attiva di un tutto, a contenere i propri desideri per educarsi al corpo vivo della comunità. La didattica è comunicazione, quindi, esodo progressivo dal privato, dal possesso personale dei contenuti e dall’ordine gerarchico per la condivisione. La relazione didattica è scambio olistico ed osmotico, la mutazione riguarda tutte le parti in causa, tanto più che nel mettere in comune non vi è un rapporto gerarchico, ma di accompagnamento reciproco verso il pensiero divergente e ciò riguarda sia i docenti che gli alunni. La comunicazione è cambiamento interiore, riorientamento verso nuovi orizzonti comunitari. La muraglia del nichilismo e dell’indifferenza può concretizzarsi nella sua completezza solo in uno spazio privato. La scuola come contenitore pubblico è lo spazio adatto che dispone alla finalità comunicativa, la quale limita le derive narcisistiche e privatistiche inoculate negli ultimi decenni.
DAD-DID e trasmissione
La DID è strutturata sulla separazione e frantumazione degli spazi e dei tempi: i soggetti sono separati in concreto e nella rappresentazione: sullo schermo appaiono gli alunni e i docenti racchiusi in icone, in una nuova caverna virtuale. Non è possibile il contatto diretto e nel contempo anche la voce giunge mediata dal mezzo fino a fondersi con esso. La lontananza si consolida e si struttura, è possibile in qualsiasi momento sottrarsi al contatto visivo, il quale è flebile e disperso nell’abbaglio dello schermo. In qualsiasi momento il mezzo permette con espedienti vili e meschini di sottrarsi ad una condizione di difficoltà: interrogazione, partecipazione, attenzione. Qualsiasi docente ha vissuto l’esperienza delle videocamere oscurate, e di linee che cadono durante una banale interrogazione e conversazione. Inoltre la rappresentazione astratta dell’alunno e del docente inibisce i rapporti empatici e la corretta decodifica dei gesti e delle parole, tutto è soffuso da un clima di distanza e freddezza. Gli alunni e i docenti percepiscono il prevalere del privato sul pubblico, poiché sono nel privato e scorgono l’altrui spazio privato. Il senso della formazione si oblia, restando a casa nel suo isolamento l’alunno acquisisce la percezione che l’istruzione è solo un mezzo per fini privati, poiché la discussione è raggelata dalla distanza e dalla stanchezza cognitiva che il video comporta. Non condividendo spazi e tempi prevale l’atteggiamento acquisitivo, la formazione è solo la sospensione momentanea del quotidiano, non lo feconda con il trascendere lo stesso, ma si resta nella malinconia della separazione che diviene abitudine e seconda natura. In questo clima di gelo relazionale la comunicazione è sostituita dalla trasmissione[1]. Il docente, nel migliore dei casi, si limita a trasmettere informazioni, gli alunni ad acquisirle passivamente, in quanto la collaborazione è inibita dalla distanza spazio-temporale che si trasforma in lontananza formativa ed assiologica. I pedagogisti organici al sistema inneggiano al mezzo non valutando volutamente l’interazione tra il piano cognitivo ed emotivo, si limitano a magnificare il mezzo con le sue potenzialità mettendo in secondo piano le interconnessioni dei piani compreso l’ambiente in cui le azioni si svolgono. La vita è sostituita dal mezzo, si opera una resecazione del mezzo dall’ambiente vissuto dal docente e dall’alunno, l’irrazionale governa con il suo imperio sulla vita. L’approccio positivistico neutralizza il problema formativo per concentrarsi sull’efficienza del mezzo. La comunicazione in tale contesto si depaupera fino a diventare trasmissione di informazioni unidirezionali. Il docente trasmette e l’alunno recepisce, tra mittente e destinatario si forma una relazione gerarchica senza reciprocità. Il vero fine sperimentato nella DID è l’annichilimento programmato della comunicazione, tale ipotesi è sostenuta dalla deriva generale di tutta la struttura sociale, la quale è già nell’ottica gerarchica e trasmissiva. La partecipazione democratica è sostituita in ogni campo con l’organizzazione verticistica e gerarchica. La passività diviene la normalità di un sistema anticomunitario che fa appello solo alla capacità di impresa e di adattamento ed elimina il pensiero creativo e critico insito nella comunicazione. Si amputano le capacità di socializzazione, l’abitudine all’isolamento o alla relazione astratta ridisegnano le relazioni sociali, lo schermo disabitua alla relazione diretta. La precarietà delle relazioni hanno probabilmente la loro causa anche nel rifugio nell’isolamento virtuale che protegge dalle tensioni sociali dirette e coltiva narcisistiche fantasie di onnipotenza. L’amputazione sociale provoca con le patologie psichiatriche il declino del pensiero divergente. La deformazione dello spazio contribuisce alla passività, se lo spazio è solo una rappresentazione da vedere e manipolare, ma da non vivere, la storia che si esplica nell’azione vissuta dello spazio è spogliata della sua concretezza, non resta che un atomo agente su una rappresentazione, per cui la prassi diventa meno probabile. Trascorrere due terzi della giornata in una “cella digitale” (dal pc, alla TV sai canali innumerevoli e di scarsa qualità allo smartphone) non può che destabilizzare il principio di realtà e la fiducia nella prassi, al loro posto vi è solo l’impotenza programmata, tanto più che i soggetti vivono l’illusione dell’ipercomunità globale che si svela essere distopia atomistica. Nutrire le nuove generazioni con materiale e metodi di apprendimento in media di pessima qualità è un crimine che il futuro dovrà rimproverarci. Il sogno della quantità senza qualità è distopia realizzata nel silenzio complice degli adulti. Far vivere in una realtà virtuale è una metodica di governo con cui ipostatizzare il presente. Prevale il gioco dell’azione-reazione sulla creatività. La meccanica del dominio è nel gesto ripetuto e mai né sospeso né pensato. La sperimentazione è volta a verificare la tenuta della rivoluzione antropologica, si raccolgono dati per capire fino a che punto è possibile spingersi. Il silenzio generale, ma non universale, è il segno di un avanzamento e svuotamento della finalità formativa e relazionale in atto da decenni. Si assiste alla maturazione di “effettualità” in atto e che non hanno trovato reale opposizione nel tessuto sociale e politico. L’inquietante interrogativo deve emergere per poter sospendere l’impianto tecnico e privatistico installato nelle coscienze. Il sistema acquisitivo avanza velocemente ed annichilisce gli spazi di discussione, necessario è ripensare il periodo vissuto per capire il modello sociale nel quale siamo impantanati per comprendere che nessun uomo è innocente, ma ogni nostro “sì” ubbidiente ed indifferente non è neutro, ma reca l’impronta della nostra responsabilità.
Supporto e fini
Il supporto e l’ambiente non sono semplici mezzi, ma condizionano il fine della didattica e della formazione. La frammentazione della classe in individualità separate e mediate dal corpo esterno del pc non solo pone al centro dell’agire didattico il mezzo anziché la persona, ma specialmente trasforma l’esperienza formativa in spazio clientelare, in cui il docente offre le competenze al cliente alunno. La relazione formativa diviene contratto privato tra docente e alunno. Si trasmettono scarne informazioni che il cliente alunno potrà utilizzare nel suo percorso. Decade il processo di formazione in semplice rapporto contrattualistico privato rafforzato dall’elemento non secondario che l’alunno è comodamente a casa sua. L’ambiguità della condizione favorisce la facile promozione, la quale diviene automatica, poiché il cliente potrebbe lamentare che la connessione non è stata soddisfacente e specialmente che la condizione ambientale non ottimale non ha favorito “il successo formativo” con conseguente minaccia di ricorso. Il cliente ha sempre ragione, pertanto per evitare incidenti giuridici l’istituzione decide di promuovere innescando un meccanismo perverso di decadenza dell’istituzione pubblica e della formazione. Si svela in tali meccanismi il potere del privato che usa il servizio pubblico con disprezzo, poiché la ragione è dalla parte del più forte legittimato ad usare secondo i propri gusti, tempi e spazi l’istituzione pubblica. Siamo all’interno di una tempesta i cui esiti non potranno che essere nefasti, se la comunità tutta non comprende che la scuola è il luogo dove si compromettono il presente ed il futuro: la barbarie è ad un passo da noi, non si può continuare a giudicare la DID un’eccezione, essa piuttosto svela la verità in cui siamo. La scuola azienda non è solo gestione finanziaria, ma specialmente “privatizzazione” delle relazione didattica. I supporti determinano lo smantellamento dello spazio pubblico a favore dello spazio astratto e separato. Si formano in tal modo, non cittadini, ma clienti che vivono nel culto dell’utile personale in un contesto di anestesia intellettuale ed etica. La descolarizzazione significa consegnare di intere generazioni alla violenza del mercato, la scuola è trascesa dall’ibridazione tra mercato e macchina a cui ci si “deve adattare[1]”, contro il processo di descolarizzazione si deve intraprendere una battaglia civile ed etica senza la quale il futuro non sarà che barbarie:
Stratton Holland, descrivendo uno degli esperimenti più significativi del Nordamerica, osserva sagacemente (e con voce alta e impudica): « Il grande risparmio è nell’edilizia scolastica». Molto tempo fa gli scandinavi hanno scoperto che il parco giochi ideale per i bambini era costituito da un grosso mucchio di vecchie macchine e di rottami. La città come ambiente totale è la scuola senza voti e senza strutture in excelsis. Non c’è da meravigliarsi se i bambini di Watts dicevano: « Perché dovremmo andare a scuola e interrompere la nostra educazione?» Oggi, nell’ammasso di rifiuti molto più vasto costituito dal divertimento e dalla pubblicità presentati dalla radio e dalla televisione, il bambino può accedere ad ogni recesso delle culture mondiali, passate e presenti. Nel percorrere questa immensa giungla come «cacciatore», il bambino si sente come un indigeno primitivo di un tipo totalmente nuovo di ambiente. Quando si imbatte nel l’hardware educativo più tradizionale (le scuole e i corsi strutturati) egli reagisce esattamente come gli indigeni hanno sempre reagito nei confronti degli sfruttatori colonialisti e imperialisti delle loro « cose » non strutturate. Egli dice, ammiccando all’arco di proscenio dei satelliti:« Il globo è il mio teatro. Non mi mancheranno né le parti né i pascoli »”.
Sta a noi scegliere se la barbarie della scolarizzazione nichilistica ed individualistica debba trasformarsi nel tragico futuro prossimo di una civiltà. L’educazione ci pone sempre dinanzi ad un’alternativa binaria se scegliere di trascendersi e realizzare la propria natura comunitaria o restare nella prigione di un “io delirante e solo”. La paideutica anticomunitaria non è iscritta fatalmente nel solco della storia, ma è un sentiero potenziale per cui la collettività può, se vuole, deviare il cammino con il pensiero dialettico condiviso.
[1] Comunicare dal latino communicare, mettere in comune, derivato di commune, propriamente, che compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme e munis ufficio, incarico, dono.
[2] Trasmettere dal lat. transmittĕre, der. di mittĕre ‘mandare’.
[3] Marshall McLuhan DAL CLICHÉ ALL’ARCHETIPO L’uomo tecnologico nel villaggio globale, Sugarco edizioni 1987, pp. 114 115
Fonte foto: La Stampa (da Google)