A rigore per servizio pubblico dovremmo intendere una prestazione, in genere a carattere continuativo, resa a beneficio di una collettività per esigenze solidaristico-comunitarie assolutamente irriducibili a logiche di mercato. Alla luce di queste peculiari caratteristiche la sua erogazione é compito direi naturale della struttura pubblica (Stato, comune ecc.) nelle vesti di tutore dell’interesse collettivo.
Per affermare un tanto non occorre essere “comunisti”: la Res publica romana, che non lo era affatto, distribuiva gratuitamente o quasi il pane ai ceti popolari tramite le periodiche frumentationes, che del modello affermatosi nel ‘900 possiamo considerare un’anticipazione.
Il sistema UE, tuttavia, pensa il servizio pubblico in termini differenti, e non é per caso che utilizza la diversa locuzione “servizi di interesse (economico) generale”, omettendo significativamente l’aggettivo “pubblico”. A valle di un riconoscimento piuttosto ipocrita – in qualche sbiadito protocollo – dell’autonomia e della discrezionalità degli enti, la disciplina concretamente imposta ribalta la prospettiva, affidando la generalità dei servizi al mercato in regime di libera concorrenza e stabilendo dei correttivi solamente nell’ipotesi in cui l’imprenditoria non sia spronata a fornire una determinata prestazione perché poco profittevole o in quella – similare – nella quale la fornirebbe pure, ma a condizioni eccessivamente gravose per larghi strati della popolazione.
In questi casi c’é finalmente spazio per la mano pubblica, mi direte – ed io sconsolato vi rispondo: piú no che sí. In caso di c.d. fallimento del mercato subentrano, infatti, gli obblighi di servizio pubblico, alquanto vaghi nei contenuti (si deve garantire accessibilità, non discriminazione ecc.), ma compensati con sonante denaro pubblico che finisce nelle tasche dell’erogatore. Già questo ci suggerisce che colui che presta il servizio é di norma un’impresa privata, cui va anche riconosciuto – leggiamo – un equo profitto. Come si determina questa famosa “equitá” o congruità (termine assai di moda!) che dir si voglia? Semplice: in base alle onnipresenti logiche di mercato.
E se lo Stato o il comune volesse fare da sé, fornendo il servizio non appetibile mediante strutture proprie, cioé in house? Liberissimo di farlo in teoria, ma la pratica dice altro: la vigente disciplina nazionale – informata a principi comunitari e, per certi versi, “piú realista del re” – lo grava fra mille cervellotici vincoli di un’autentica probatio diabolica, quella di dimostrare che l’opzione per la gestione diretta é più conveniente sotto il profilo economico di un’effettiva esternalizzazione. Visto che il servizio stesso, oltre a soddisfare piuttosto le esigenze dei ceti medio-bassi e dei poveri che quelle dei benestanti, é quasi sempre fisiologicamente in perdita, questa benedetta convenienza sarà riscontrabile assai di rado – ed é normale che sia così, poiché viene reso per finalitá che esulano completamente da quelle che la vulgata neoliberista ritiene meritevoli di perseguimento. Questo non implica, tuttavia, che lo Stato o gli altri livelli istituzionali debbano rimanere in disparte: nel manifesto ordoliberista meglio noto come sentenza n. 325/2010 la Consulta ha dichiarato fra le righe che funzione precipua del pubblico é intervenire ovunque vi sia un mercato “potenziale” per far sì che la potenza si evolva in atto. Le implicazioni di quell’epocale decisione sono cosí riassumibili: anziché venir direttamente restituite a noi tutti sotto forma di prestazioni pubbliche le risorse erariali servono a finanziare l’apertura di nuovi mercati ovvero ad ampliare quelli giá esistenti. Visto che al solerte imprenditore va assicurato il guadagno (equo, per carità!) nove volte su dieci le tariffe saranno più elevate di quelle che ceteris paribus praticherebbe un ente pubblico, ma anche quando non le superano ci perdiamo comunque: il surplus versato dall’amministrazione al gestore proviene non dal cielo, bensì dal gettito tributario.
Cosa c’entri tutta questa barocca costruzione col diritto del residente nella frazione a prendere il bus o ad avere l’acqua corrente potrebbe pure sfuggire, ma una cosa é abbastanza evidente: il servizio pubblico, sorto per proteggere il cittadino comune dallo strapotere del mercato, é
oggi pensato e regolato come un’opportunità in piú per quest’ultimo. Se qualche volta i sudditi si inalberano e magari votano in massa sí a un referendum peggio per loro: lo Stato neo/ordoliberista non spreca il suo tempo per dar loro udienza, la mission istituzionale é quella di eseguire le disposizioni che, per interposta Unione Europea, provengono dalle lobby economico-finanziarie. Da sociale che era é diventato… asociale.
Che poi sia ancora uno Stato di diritto è abbastanza dubbio, se si considera che il nostro diritto é stato letteralmente annichilito, stravolto e polverizzato dall’alluvionale – e prevalente – produzione normativa europea. L’approccio “sostanziale” della UE, cui fanno sovente riferimento i commentatori, non ha come unico risultato quello di far venir meno sistematicità e distinzioni frutto di una riflessione bimillenaria e di annegare gli istituti giuridici in una notte (da incubo) in cui tutte le vacche sono nere: cancella soprattutto il confine tra pubblico e civile/commerciale in una prospettiva panprivatistica che valorizza soltanto quest’ultimo.
Il passaggio di stato delle concessioni, un tempo espressione della supremazia statale e ora non piú, fa il paio con il nuovo ruolo assegnato all’evidenza pubblica, del tutto coerente con la tendenza precedentemente descritta. I meccanismi procedimentalizzati di scelta del contraente, ideati negli anni ’20 del secolo scorso, erano funzionali a permettere alla pubblica amministrazione di individuare tra i possibili contraenti quello in grado di effettuare la prestazione con il minor esborso possibile di soldi pubblici: nell’era Maastricht, tuttavia, l’accento non viene piú posto sull’oculatezza, bensí sulla tutela della concorrenza, da favorire anche quando un suo restringimento arrecherebbe tangibili benefici alla collettivitá in termini di spesa (e persino di efficacia e salvaguardia della coesione sociale).
Mi limito a citare un esempio: alla più misera delle gare non posso in linea di principio invitare l’aggiudicatario uscente (che magari ha fatto un ottimo lavoro, e grazie all’esperienza maturata sarebbe subito operativo) e neppure i singoli partecipanti all’appalto precedente! Chiamano tutto ció “promozione della concorrenza”, anche se nei fatti essa viene limitata, ma il punto centrale é un altro. Chi viene penalizzato da un meccanismo siffatto? Spesso i beneficiari indiretti, cioé la collettivitá, ma senz’altro il piccolo imprenditore di paese, quello che riceve affidamenti esclusivamente dal suo comune o al più da quelli limitrofi e, al contrario di operatori dotati di risorse ingenti, non é in grado di diversificare la propria presenza sui territori assorbendo senza danni il colpo. Anche a tralasciare gli aspetti legati all’economia del territorio (specie in tempi di crisi) e al senso di appartenenza, che dá una motivazione in piú, magari l’offerta del nostro artigiano sarebbe semplicemente la più conveniente, ma gli tocca comunque star fermo (almeno) un giro, pena lo scatenarsi dell’ira funesta di austere corti e loquaci autorità assortite.
Che dietro i peana alla santissima concorrenza si celi l’intento di favorire l’oligopolio cancellando i “piccoli”?
Plausibile, ma quel che colpisce e davvero scoraggia é il silenzio o finanche la prona accettazione da parte dei giuristi di simili scempi. Cooptati nell’élite allargata o punzecchiati da adempimenti a raffica, termini e minacce di sanzioni, costoro (non tutti: la maggioranza) rinunciano a qualsivoglia resistenza o critica, prendendo atto dell’esistente e rivolgendo la loro attenzione a meschini aspetti di dettaglio. Cosí va il mondo, paiono dirci, ma forse manco si avvedono delle anomalie e, animati dallo spirito dei tempi, sentenziano seriosi che la valorizzazione di un patrimonio culturale senza eguali viene dopo il pareggio di bilancio, il diritto alla salute é una variabile dipendente dalle risorse, le prestazioni sociali vanno collegate al reingresso della persona (anzi: risorsa) umana nell’imprescindibile, totalizzante mercato.
Celebrano il nuovo ruolo dello Stato, svilito a procacciatore d’affari, e insieme un “sostanzialismo” elastico e indefinito che, mentre moltiplica paradossalmente i formalismi, inesorabile cancella forme che, molto spesso, costituiscono presupposti per il godimento di diritti.
La Costituzione é ridotta a brandelli, ma “per fortuna” ci sono sempre i Trattati, l’articolo 81 e Transparency International con le sue virtuose percezioni.