Torno sugli operai che stanno lavorando sotto casa mia per riparare la fogna.
Sono in ferie, in attesa di andare al mare nel pomeriggio, vado a fare la spesa e mi fermo incuriosito ad osservare i lavori in corso. Lo facevo anche da ragazzino quando qualcosa mi colpiva. Da bambino ero particolarmente attratto dai tir. Sempre sotto casa mia c’era una ditta dove quasi tutti i giorni arrivavano grandi camion col rimorchio a caricare e scaricare e siccome lo spazio era molto limitato mi ricordo queste grandi e complesse manovre per farli entrare ed uscire da quel magazzino. Non so perché restavo ad osservare, quasi rapito, tutte queste manovre. Anche osservare i treni mi piaceva (vicino casa mia c’è una importante linea ferroviaria) ma non come i grandi camion che non so per quale oscura ragione esercitavano su di me un grande fascino. Così come i carri armati e ricordo che mio padre mi portò una volta a visitarli durante la festa delle forze armate quando le caserme erano aperte al pubblico. Ricordo ancora che mio padre mi prese per le braccia e mi passò ad un soldato all’interno del tank. Un’emozione grandissima e forse fu per questo che tanti anni dopo, nonostante i maldestri tentativi per cercare di evitare la naia, scelsi – obtorto collo – di essere assegnato alle truppe corazzate.
Osservo, dunque, gli operai al lavoro, proprio come quando ero bambino. Mi colpisce la grande macchina scavatrice che solleva non so quanti quintali di terra e cemento in pochi secondi. Penso a quanto lavoro umano è in grado di sostituire e inevitabilmente – ma così facendo torno ad essere adulto – se sarà possibile un giorno arrivare ad eliminare totalmente il lavoro fisico e la fatica dando la possibilità a tutti gli esseri umani di realizzarsi al meglio nelle attività che preferiscono.
Poi la mia mente torna sugli operai, li osservo. Uomini duri, robusti ma non palestrati. Si vede che il loro corpo è “modellato” dal lavoro e dalla fatica e non dalla palestra. Corpi a volte appesantiti, a volte meno, anche in base all’età, ma sempre vigorosi. Ascolto le loro inflessioni dialettali e i loro diversi idiomi. Alcuni sono rumeni che parlano in dialetto romano e ne esce fuori una strana miscela. Sono tutti concentrati sul lavoro. Mentre la scavatrice solleva mucchi enormi di terra, uno con uno strumento rompe l’asfalto ai bordi della grande buca e un altro con una vanga colpisce la terra all’interno per farla poi raccogliere dall’operaio che manovra la scavatrice. Un altro da sopra dà indicazioni sia al guidatore della scavatrice che agli altri due. Un altro è intento a lavorare ai tubi dell’acqua che scorrono nel sottosuolo. Un altro ancora si riposa fumando una sigaretta in attesa di sostituire uno dei suoi colleghi. Continuo ad osservare il tutto e loro, giustamente, mi ignorano, anzi, c’è una sorta di indifferenza nei miei confronti. La loro età va dai trenta ai cinquant’anni e passa, forse anche sessanta, ma non sono in grado di dirlo con precisione perché il duro lavoro e la fatica invecchiano le persone. Avverto o credo di avvertire (ma forse è solo presunzione perché possiamo comprendere veramente solo ciò che conosciamo per esperienza diretta) da parte loro un atteggiamento che è qualcosa a metà fra il dovere e le necessità della vita che li inchiodano a quel lavoro.
La seconda cosa che penso è “meno male che c’è qualcuno che fa questi lavori al posto nostro”. Hai voglia a parlare di giustizia sociale, di eguaglianza e di tante belle cose. Non me la sentirei neanche, data la mia condizione di privilegiato (e infatti non lo faccio), di andare da questi uomini a parlare di certe cose, a meno che non siano loro a chiedermi qualcosa, a meno che certi discorsi non nascano spontaneamente interloquendo, parlando di qualsiasi argomento. E allora mi è tornato alla mente quando, ancora diciannovenne, studente universitario e militante politico della fu sinistra extraparlamentare, mi recavo insieme ad altri (qualcuno più grande) a distribuire volantini all’uscita delle fabbriche, alla Romana Gas, alla Romeo Rega, alla Fatme, allora la più grande fabbrica metalmeccanica di Roma. Cosa pensavano di noi quegli operai che uscivano frettolosamente dalle fabbriche e che altrettanto frettolosamente prendevano il volantino e se lo mettevano in tasca oppure nella borsa da lavoro. Ricordo che ci andavo d’estate quando non avevo lezione o esami da preparare. E però, anche allora che ero un ragazzino, mentre distribuivo quei volantini e incitavo alla rivoluzione (una passione però che non è mai tramontata…) mi rendevo conto che il mio futuro e la mia vita sarebbero stati comunque diversi da quella gente che osservavo con uno spirito contraddittorio. Quello della solidarietà e dell’entusiasmo ideologico (la classe che avrebbe cambiato il mondo), certamente, ma anche con gli occhi del piccolo borghese che era contento di non essere nella loro stessa condizione e che comunque aveva la certezza che avrebbe fatto altro nella vita. Sono le contraddizioni che è giusto portare alla luce senza ipocrisie. E hai sempre voglia a dire che siamo tutti lavoratori, del braccio e della mente, come si diceva una volta, manuali e intellettuali. Sì, è vero, certo, però, però…
Nonostante ciò, infischiandomene dall’accusa di retorica che inevitabilmente mi arriverà, ribadisco il mio “Viva la classe operaia che suda, lavora e lotta”, sempre come si diceva una volta. Oggi lotta molto meno purtroppo, per tante ragioni che non sono oggetto di questa spontanea riflessione estiva. Questo è il problema. E infatti il mondo va peggio.
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