A scanso di equivoci, in premessa dico subito che sono contrario al “Regionalismo differenziato”, sostengo il referendum e spero che la Legge 26 giugno 2024, n. 86, entrata in vigore il 13/07/2024 venga abrogata. Per come svilupperò il mio ragionamento la premessa mi è sembrata necessaria. E’ noto che la richiesta del referendum abrogativo del suddetto testo legislativo è stata promossa da una serie di personalità del mondo sindacale, politico ed accademico. Primo firmatario il Segretario Nazionale della CGIL Landini; la CGIL con la sola UIL, perché la CISL come era prevedibile si è sfilata, coordina la raccolta delle firme insieme ai partiti politici del “campo progressista” e a numerose associazioni e comitati di cittadini. Alcune firme sono comprensibili, mi sarei meravigliato se non ci fossero state, altre, come quella del prof. Franco Bassanini o della esponente di Italia Viva, Maria Elena Boschi, sono un pugno nello stomaco. Franco Bassanini, professore, a suo tempo, di Diritto Regionale a Roma a La Sapienza, espulso dal PSI di Craxi in malo modo, confluito tra le file degli indipendenti del PCI poi PDS e DS, e la consorte Linda Lanzillotta, anch’ella docente universitaria, hanno ispirato, grazie ai ruoli di primo piano rivestiti nei governi di centrosinistra, la riforma della P.A. degli anni ‘90 e sono tra gli ispiratori della riforma del Titolo V della Costituzione. La Legge n. 86 del 26/06/2024 altro non è che l’attuazione del Titolo V così come riscritto dai Governi D’Alema e Amato. Sempre per inciso ricordo che quella legge di riforma costituzionale venne sottoposta a referendum e gli elettori italiani si pronunciarono a favore. La Legge n. 86 del 26/06/2024 definisce i principi e le procedure per l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni ordinarie. Gli artt. 116 e 117 della Costituzione sanciscono, in combinato disposto, la possibilità da parte delle regioni ordinarie di chiedere ulteriori competenze e quali sono le materie che possono essere delegate. Le materie sono tante e ciascuna regione potrebbe chiederle tutte, solo alcune o nessuna. Non a caso si parla di regionalismo differenziato. Chi ha seguito il dibattito politico circa la riforma della Costituzione in corso negli anni ‘90 dovrebbe ricordare che uno dei modelli presi a riferimento fu quello spagnolo. L’art.143 del Titolo VIII – Capo Terzo della Costituzione del Regno di Spagna riporta quanto segue: comma 1. Nell’esercizio del diritto alla autonomia riconosciuto nell’art. 2 della Costituzione, le province limitrofe dotate di comuni caratteristiche storiche, culturali ed economiche, i territori insulari e le province costituenti entità regionali storiche, potranno accedere all’autogoverno e costituirsi in Comunità Autonome in base a quanto previsto in questo Titolo e nei rispettivi Statuti. La Costituzione fissa la procedura e l’art.148 stabilisce le materie, alcune delle quali sono le stesse previste dall’art. 117 della Costituzione Italiana così come riformata dai Governi D’Alema e Amato. Al netto delle specificità proprie di ciascun ordinamento, sono convinto che il modello italiano ricalchi quello spagnolo; non è da escludere che ciò sia dovuto al fatto che all’indomani della fine del Franchismo i giuristi spagnoli presero a riferimento la nostra Costituzione. Il contesto storico e politico era molto simile: in entrambi i casi la Democrazia ritornava dopo un periodo di dittatura fascista. Il dato sul quale bisogna riflettere, leggendo con attenzione la Costituzione spagnola è che in essa c’è il riconoscimento della diversità culturale, linguistica, ecc. presenti nell’ambito dello Stato Spagnolo. Catalogna, Paesi Baschi, Leon, Navarra ecc. sono entità storiche diverse tra di loro. Coerenza avrebbe voluto che in Italia il regionalismo differenziato fosse stato accompagnato dall’istituzione delle macro regioni – per esempio sul modello della Fondazione Agnelli e non certo sull’idea strampalata avanzata da Morassut – e da una ridefinizione complessiva del ruolo del Governo centrale, quindi delle funzioni dello Stato, della riforma del sistema elettorale, della differenziazione dei ruoli della Camera dei Deputati e del Senato. Mi sembra abbastanza evidente che le riforme costituzionali, elettorali, degli organi dello Stato più che seguire una impostazione coerente abbiano seguito gli umori delle maggioranze che si sono succedute a partire dagli anni ‘90, ossia dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica. All’insegna del mantra della stabilità dei governi il Parlamento italiano è stato progressivamente ridimensionato, l’uso della legislazione d’urgenza è diventata la regola, gli ultimi due Presidenti della Repubblica si sono comportati come se l’Italia non fosse una Repubblica Parlamentare ma Semipresidenziale; di leggi elettorali negli ultimi tre decenni ne abbiamo viste più di una ed ognuna di essa è stata peggiore della precedente; è stato ridotto il numero dei parlamentari come se la qualità dell’azione politica e quindi del governo o la stessa moralità pubblica dipendessero dal numero di deputati e senatori. In sostanza il nostro sistema politico è fondamentalmente organizzato sulla precarietà. La Legge 86/24, come proverò a dimostrare continua a sancire il principio della precarietà. Di seguito vado ai punti salienti. Un aspetto fondamentale ai fini del trasferimento delle competenze alle singole regioni è rappresentato dai cosiddetti LEP ossia i livelli essenziali di prestazione. In sostanza i LEP definiscono i livelli standard minimi di servizi che dovranno essere assicurati ai cittadini di ciascuna regione. Ci sono materie che non potranno mai essere trasferite alle regioni, anche se richieste, prima della definizione dei livelli minimi dei servizi. Questo è un nodo cruciale, attiene al principio di uguaglianza e ha bisogno di una base solida di “teoria della giustizia”; ci si potrebbe ispirare a due autorevoli esempi: Don Milani e John Rawls. Secondo don Milani il principio di uguaglianza non può consistere nel dare a tutti la stessa cosa in parti uguali. Un principio redistributivo di tal fatta manterrebbe le posizioni di partenza invariate per cui non cambierebbe nulla. Il filosofo John Rawls, ispirandosi a Kant, ha sostenuto l’idea che tutti i beni sociali principali debbano essere distribuiti in modo eguale, sottolineando che la distribuzione è eguale solo se avvantaggia i più svantaggiati. L’idea che ispira Rawls è quella del contratto sociale, nella contrattazione ciascun soggetto non conosce quale sarà la propria posizione futura per cui ciò che oggi può sembrare un’ottima scelta si potrebbe rivelare invece una scelta perdente. Per evitare che ciò si possa verificare è opportuno fissare criteri che assicurino contro il rischio o contro i peggiori esiti rivenienti da fattori esterni, quale ad esempio un mutamento delle condizioni di mercato, che renderebbero il sistema economico di una determinata regione impossibilitato a competere sul mercato. Il punto cruciale non è solo stabilire delle soglie adeguate di servizi essenziali, ma garantire le giuste risorse. Visto il dibattito in corso la definizione dei LEP in settori cruciali è di là da venire. Bisogna tener presente anche un altro dato: non è ammesso un aggravio della spesa pubblica visti i vincoli di bilancio imposti dall’U.E.; per cui alla fine l’unico criterio sarà quello determinato dalle politiche economiche e dai vincoli di bilancio quindi da politiche neoliberali e mercatiste. Non tutte le materie contemplate dall’art.116 della Costituzione per essere chieste dalle regioni sono vincolate alla definizione dei LEP, 9 materie su 23 contemplate non ne hanno bisogno. Tra queste la previdenza integrativa, gli ordini professionali, la sicurezza sul lavoro. Roba da riapertura dei manicomi. Per quanto riguarda la sanità è già materia di competenza delle regioni, con le risorse finanziarie trasferite in base ai LEA, equivalenti dei LEP, in concreto il riferimento è la spesa storica. Come si può facilmente immaginare la questione dal punto di vista tecnico è talmente complessa che non si può ipotizzare che il Regionalismo differenziato possa in qualche modo essere realizzato nel corso di questa legislatura. Come dicevo, la L.86/2024 è da ascrivere alla precarietà istituzionale che interessa l’Italia dalla fine della Prima Repubblica, per cui il nodo da sciogliere è politico ancora prima di essere tecnico e la riflessione da fare è su che tipo di Stato si voglia. La destra al governo con il combinato disposto rappresentato dal regionalismo differenziato e il potenziamento dell’esecutivo come strumento di riequilibrio del decentramento sembra avere una qualche idea. Il problema sono le opposizioni che dovrebbero costruire, nel giro di qualche anno l’alternativa alla destra. Purtroppo a leggere le firme dei promotori del referendum e le argomentazioni addotte non vedo una posizione unitaria dalla quale partire per un confronto serio e concreto con il centrodestra al governo. Solo per inciso, le istituzioni devono rappresentare tutti e non una parte. Quando leggo o ascolto affermazioni come “con il regionalismo differenziato ritornano le gabbie salariali” provenire da dirigenti sindacali penso che si sia perso il valore delle trasformazioni in materia di legislazione del lavoro a partire dagli anni ‘90 e mi convinco che le argomentazioni per la campagna referendaria sono inefficaci. Altro argomento è “il regionalismo differenziato spacca l’Italia”. Il dualismo economico tra nord e sud ha origine negli anni ‘80 dell’800 quando i governi dell’epoca fecero scelte di politica economica protezioniste a favore dell’industrializzazione del nord. Sul tema una buona lettura o rilettura di Gramsci e Sereni aiuterebbe. Ancora: “il regionalismo differenziato alimenterà la disuguaglianza”. E’ facile rispondere che la crescente disuguaglianza è dovuta alle politiche neoliberali che interessano l’Italia a partire dagli anni ‘90 e che continueranno con o senza il regionalismo differenziato. L’unico periodo nel quale la forbice tra nord e sud si è stretta è stato negli anni ‘60, quando lo Stato faceva Lo Stato. A partire dall’istituzione delle regioni negli anni ‘70 le condizioni del Mezzogiorno sono andate via via peggiorando. Tornando a Gramsci e Sereni, o se qualcuno preferisce a Salvemini e Dorso, il vero problema sono le classi dirigenti meridionali fondamentalmente arroccate a difesa dei propri privilegi. Al netto della battaglia referendaria serve avere un’idea di Stato ed avere il coraggio di dire in modo forte che va riscritto il Titolo V della Costituzione, gli artt. 116 e 117 della Costituzione sono un orrore funzionale al mantenimento delle consorterie locali indipendentemente dall’appartenenza politica. In conclusione se la battaglia è contro un regionalismo differenziato che “spacca l’Italia” bisogna evitare di dire cose fondate sul nulla mettendo in campo piuttosto una idea capace di convincere oltre i meridionali anche i settentrionali, tra questi i meridionali emigrati al nord fuggiti proprio a causa di quelle politiche clientelari che puntano alla conservazione dello status quo. Se non si riuscirà a convincere i Padani ad andare a votare la battaglia politica sarà persa e per evitare che ciò accada serve un’idea forte di Stato.