Le sturmtruppen della falsa inclusione
Durante la proiezione del film “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, in anteprima per le scuole romane (tra le quali quella in cui insegno) all’auditorium di Roma, dalle scolaresche si sono levati schiamazzi e insulti omofobi da parte di alcuni studenti. Evento particolarmente grave anche perché il film si rifaceva a una storia vera conclusasi con un suicidio altrettanto drammaticamente reale.
Del film posso dire poco. Non l’ho ancora visto, quindi non è mia intenzione fare un discorso di critica artistica. Posso dire che il titolo rimanda a “Il ragazzo dai capelli verdi”, film del 1948 di Joseph Losey. Anche trama e tematiche di fondo sono simili. Anche nel film di Losey si tratta di una storia di emarginazione attivata da un fatto accidentale banale. Cambia ovviamente il contesto: qui abbiamo un’America che voleva mettersi alle spalle la tragedia della guerra, rischiando però, in quest’opera di rimozione, di “dimenticarsi” orfani e reduci e le relative difficoltà di un loro reinserimento sociale.
Tornando ai “fattacci dell’auditorium”, le reazioni dei media e dell’Ufficio Scolastico Regionale sono state immediate, esagerate e scomposte. Si è gridato a un allarme omofobia, gli insegnanti presenti alla proiezione e tutti i presidi delle scuole coinvolte sono stati immediatamente convocati e opportunamente “strigliati” dal responsabile dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio. I colleghi che hanno subito questo rimbrotto parlano di un’esperienza particolarmente penosa e umiliante. La responsabilità dell’accaduto è stata quindi fatta ricadere sulle varie istituzioni scolastiche che non avrebbero fatto abbastanza per diffondere la cultura dell’inclusione e sui docenti che sarebbero stati silenti di fronte agli insulti omofobi.
Le ricostruzioni fatte dai colleghi differiscono da quelle “pompate” dai media. Va subito detto che nessuno vuole negare che gli insulti ci siano stati e non siano esecrabili. Solo che sono stati proferiti da alcuni e non sono imputabili alla maggioranza degli studenti. Per compiere questa operazione generalizzante, i media hanno messo, in conto omofobia, anche tutti quei comportamenti che avvengono puntualmente nelle proiezioni alle scolaresche: applausi fuori contesto, scherzi e insulti tra studenti, ecc. Il buio della sala funge da “liberi tutti”, facendo emergere quello che non è possibile fare palesemente. Perciò è lo spazio più consono anche per le provocazioni contro gli adulti e la loro cultura. A conferma di ciò va detto che a “luci accese”, durante presentazioni e dibattiti, non si sono verificate contestazioni o atti di insubordinazione.
La lettura che ne hanno fatto media e istituzioni è stata che la cultura omofoba è diffusa tra gli studenti ed è colpevolmente tollerata dagli insegnanti. Anche se non si può negare che alcuni pregiudizi nei confronti dell’omosessualità ancora persistano, la mia tesi è differente: gli atteggiamenti provocatori di alcuni studenti sono atti di ribellismo sterile contro la cappa asfissiante del pensiero dominante che va sotto il nome di “politicamente corretto”. Questo ho potuto desumere dai momenti di discussione “libera” con gli studenti commentando i fatti. Emergeva, infatti, una sorta di ribellione istintiva non contro gli omosessuali come persone ma contro l’indottrinamento ossessivo su queste tematiche e, sopratutto la criminalizzazione della sessualità maschile eterosessuale vista come foriera di violenza e sopraffazione.
L’insofferenza verso il politicamente corretto non è solo un fatto da adolescenti ma si sta diffondendo in tutto il corpo sociale. A riprova di ciò, perfino il quotidiano “la Repubblica”, che del politicamente corretto è uno dei massimi estensori, ha pubblicato recentemente una serie di interventi parzialmente critici di quella cultura. Analizzando l’affermazione del politicamente corretto nel contesto sociale più ampio, vediamo che la democrazia è degenerata in lobbying anche per quanto riguarda la circolazione delle idee. Ogni gruppo sociale/culturale cerca di acquistare potere per entrare nel “salotto buono”. È chiaro che tutto ciò è assolutamente antitetico a una vera cultura dell’inclusione. Qualcuno deve sempre restare fuori e, a chi tocca questa sorte, non è concesso diritto di parola.
Nel “salotto buono” sono entrate anche le tematiche LGBT e come tali vengono imposte. Che tutto ciò giovi effettivamente alle legittime istanze del mondo omosessuale è piuttosto dubbio. Certo, se ci si accontenta di un consenso passivo e conformista si raggiunge illusoriamente l’obiettivo ma si devono allora mettere in conto le crisi di rigetto direttamente proporzionali al bombardamento mediatico attivato. Chi ne trae effettivamente vantaggio sono “i vertici” delle lobby: politici, giornalisti, influencer, ecc. in termini di guadagni e popolarità. Per rimanere sempre sulla cresta dell’onda creano un continuo stato di allarme e mobilitazione contro un nemico ritenuto sovrastante. Il meccanismo generalizzante, attivato anche in questo caso specifico, che vedeva in ogni studente un omofobo e in ogni docente un complice, né è la conferma.
Veniamo ai contenuti del politicamente corretto. Tutta roba per lo più condivisibile che avrebbe come denominatore comune “la libertà”. D’altronde deriva, più o meno, dalla cultura sessantottesca. Ma dal famoso “vietato vietare” si è arrivati a un’ideologia quanto più illiberale possibile. Chiunque stoni appena un po’, non usi la parolina giusta, viene investito da una serie di insulti ed accuse le più terrificanti ed esagerate. Niente di nuovo. Al cristianesimo andò peggio. Pur predicando pace, solidarietà, amore, finì col fare da spalla a sfruttamento, soprusi e guerre. “Religio Instrumentum regni” diceva Machiavelli, “la religione è l’oppio dei popoli” aggiungeva Marx. Ecco, l’odierno oppio dei popoli è il politicamente corretto e, come tale, funge da mistificazione e legittimazione del nostro sistema socioeconomico non certo basato su uguaglianza e inclusione.
Il cinema è particolarmente costretto dall’ideologia dominante. Fare un film costa, deve perciò trovare finanziatori, evitare censure a tutti i livelli. Un prodotto “politicamente corretto” gode della pubblicità dell’ideologia dominante, viene considerato “educativo”, proiettato nelle scuole, ecc.. Tutto questo non è un problema dal punto di vista artistico. Gli artisti di tutte le arti e di tutte le epoche hanno spesso dovuto lavorare in contesti oppressivi, quasi sempre su commissione ma ciò non ha impedito loro di produrre capolavori. Per alcuni, anzi, “l’arte vive di costrizione e muore di libertà”. Il problema è sociopolitico. Il film in questione parla di un caso di bullismo ai danni di un ragazzo ritenuto omosessuale. In questo modo “sfrutta” due temi ampiamente in auge nei media e cioè il bullismo e le tematiche LGBT. Ma, dalla nostra esperienza di insegnanti e dalla pubblicistica professionale, sappiamo che le vittime di bullismo possono essere le più svariate. Gli omosessuali, certo, ma anche il ragazzino timido e goffo, il secchione, persino quello più fortunato dal punto di vista socioeconomico in un contesto popolare. Fare del bullismo una questione di omofobia è totalmente fuorviante. Ci distoglie dal combattere il nemico reale, il meccanismo emarginante che, purtroppo, può oggettivarsi in tutti i gruppi e contesti. Le cattive idee vanno combattute con le buone ma, per farlo efficacemente, ovvero dialetticamente, devono poter essere espresse anche le cattive, almeno in un contesto educativo. Sviluppare il pensiero critico, quante volte lo abbiamo detto e scritto. Esattamente il contrario di ciò che avviene generalmente a scuola dove vige il principio ipocrita “pensa come vuoi ma pensa come noi”. Ma ciò che non può essere espresso tracima in insulto, bestemmia civile, ribellismo sterile e, a lungo compresso, può esplodere, diffondersi pericolosamente, divenire dominante a sua volta.