L’8 marzo è il giorno della Festa della donna, una Festa modaiola tutta all’insegna del consumismo, che serve prevalentemente a dare ossigeno all’oramai asfittico modo di produzione capitalistico, promuovendo la vendita di diversi beni, merci e servizi: fiori, pizze, ristorazione, profumi, bar, abbigliamento, pelletteria, bigiotteria ecc. ecc. Insomma, la Festa della donna è ridotta (con buona pace delle femministe più incallite) a essere solo un rituale consumistico globalizzato che ogni 8 marzo si ripete, analogo, da Roma a New York, da Tokyo a Parigi, allo stesso modo della Festa di Halloween (degradazione consumistica dell’antica festività celtica del trionfo della Luce) o, ad esempio, dell’inventata Festa di San Valentino, un oscuro martire del II sec. d.C. trasformato – dall’industria culturale capitalistica più che dalla Chiesa di Roma – nel santo protettore degli innamorati, forse sulla falsariga di Rodolfo Valentino, primo Divo del cinema muto che col suo fascino faceva svenire le donne.
E, in quanto rituale consumistico, la Festa della donna reca vantaggio, essenzialmente, alla vita del sistema economico capitalistico che, in Occidente, s’è avvitato su se stesso, da oltre un decennio, in una stagnazione di lungo periodo, poiché l’immane produzione di merci sovreccede le reali possibilità di consumo: per questo motivo i profitti non si realizzano e le fabbriche restano inoperose, con gli impianti sottoutilizzati e i magazzini pieni di merci. Quindi, in definitiva, con la sua spinta consumistica la Festa della Donna serve solo a lenire l’attuale crisi di lungo periodo, forse cronica, del capitalismo.
Ma questa realtà è ignorata dalla maggioranza delle donne che, probabilmente, non sanno cosa si dovrebbe festeggiare veramente l’8 marzo, che non era una Festa, ma la Giornata Internazionale della donna creata per rivendicare migliori condizioni di vita. Le sue origini risalgono agli inizi del Novecento, e sono molto nebulose. Per lungo tempo si è creduto e ripetuto che la ricorrenza fosse legata a un tragico incidente sul lavoro avvenuto l’8 marzo 1908: un rogo alle fantomatica filanda Cotton di New York (o di Chicago ?), dove sarebbero morte un centinaio di operaie tessili arse dalle fiamme.
Tuttavia, la ricerca storica ha dimostrato che, in realtà, l’8 marzo 1908 non avvenne nessun incidente alla Cotton di New York (o di Chicago). Non è stato trovato nessun documento, nessun giornale del tempo che accenni o descriva nelle pagine di cronaca il fantomatico incendio agli stabilimenti Cotton. Che si tratti, dunque, di un falso presupposto storico ne danno atto anche due femministe di ferro come Tilde Capomazza e Marisa Ombra, autrici del libro (edito da Utopia) “8 marzo, storie miti riti della giornata internazionale della donna”. L’unico grande incidente sul lavoro, registrato e documentato dalle cronache di New York, avvenne, nel cuore di Manhattan, alla fabbrica di camicie della Triangle Shirtwaist Company: a causa di un incendio morirono 123 operaie (tra le quali molte ragazze minorenni) e anche 23 operai maschi, immigrati italiani, che lavoravano 10 ore al giorno per un salario giornaliero di circa 1 dollaro, in un ambiente di lavoro malsano.
Quella tragedia che colpì sia le lavoratrici che i lavoratori della Triangle Shirtwaist Company avvenne il 25 marzo 1911 (non l’8 marzo). E fu una conseguenza diretta del brutale capitalismo americano del primo Novecento, che supportava lo sfruttamento del lavoro salariato degli immigrati europei con una serie di duri metodi repressivi, volti a soffocare ogni agitazione tesa a rivendicare aumenti salariali e condizioni di maggiore sicurezza sul lavoro: la polizia interveniva regolarmente per manganellare e arrestare gli operai in sciopero o per disperdere gli assembramenti davanti ai cancelli delle fabbriche; la stessa legislazione vigente negli USA autorizzava, inoltre, i padroni delle fabbriche all’uso di metodi polizieschi per controllare gli operai al lavoro (brutale incarnazione dell’essenza del capitale come “potere di comando sul lavoro” !). Nel rogo della Triangle Shirtwaist Company, infatti, i padroni tenevano le lavoratrici e i lavoratori rinchiusi e reclusi nei laboratori per tutta la durata dell’orario di lavoro: per questo, nel momento in cui si appiccò il fuoco a del materiale infiammabile, quando si misero in fuga sia le operaie che gli operai tessili trovarono le porte chiuse: l’unica via di fuga per sfuggire alle fiamme erano le finestre e molti si buttarono giù dal decimo piano, trovando una morte altrettanto atroce.
Sembra che, dopo questa del 25 marzo 1911, non accaddero altre grandi tragedie sul lavoro che fecero strage di lavoratrici. Sul lavoro, come peraltro in guerra, il 99% dei morti sono, statisticamente, di genere maschile: dalle miniere alle fonderie, dalle catene di montaggio ai ponteggi dell’edilizia. Anche nelle fabbriche tessili, dove la manodopera femminile impiegata (specie ai telai e alle macchine per cucire) è superiore a quella maschile, si sono sempre registrate prevalentemente morti di lavoratori, ossia degli operai che svolgevano le operazioni di tinteggiatura dei tessuti e che, storditi dai vapori dei coloranti chimici, perdevano i sensi e cadevano dentro le grandi vasche e le cisterne delle fabbrica. Ma il punto non è ora questo. Andiamo oltre.
Nel loro libro summenzionato, Tilde Capomazza e Marisa Ombra sfatano poi anche un altro mito, alternativo al rogo della Cotton del 1908, che riconduceva le origini della Giornata delle donne all’iniziativa della spartachista Clara Zetkin, durante i lavori della II Internazionale Socialista, nel 1910, a Copenhagen. Anche qui, però, la ricerca sui documenti non ha confermato l’esistenza di una mozione della Zetkin che fu approvata dalla Seconda Internazionale. Al contrario, storicamente fondata è la manifestazione delle donne russe che il 23 febbraio 1917 a San Pietroburgo, scesero in strada per chiedere “pane e pace”, ossia beni di prima necessità (che in guerra scarseggiavano) e il ritiro della Russia dallo scenario della Prima Guerra Mondiale per ottenere il rientro dei mariti arruolati come soldati. Fu una manifestazione importante che anticipò una serie di successive manifestazioni di piazza, poi sfociate ad ottobre nella storica Rivoluzione che portò al potere i bolscevichi che volevano instaurare uno Stato socialista e anticapitalista come stadio preliminare per la costruzione di una società comunista.
In Russia era in vigore il vecchio calendario giuliano, di origine romana, che in Occidente era stato sostituito già sul finire del XVI secolo dal “riformato” e più preciso calendario gregoriano. Tra i due sistemi di calcolo c’era uno slittamento di 13 giorni, sicchè la data del 23 febbraio 1917 del calendario giuliano corrispondeva, nel calendario gregoriano adottato in Occidente, all’8 marzo 1917.
Perciò, mirando a fissare un giorno comune per tutti i Paesi, la seconda Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste, tenutasi a Mosca il 14 giugno 1921 sotto il patrocinio della III Internazionale, fissò all’8 marzo la «Giornata internazionale dell’operaia». In Italia, la prima Giornata internazionale della donna, venne organizzata l’anno dopo, nel 1922, dal Partito Comunista d’Italia (quello di Togliatti, Bordiga e Gramsci).
Pertanto, l’origine della ricorrenza dell’8 marzo è strettamente legata all’iniziativa contro la guerra delle “donne comuniste“, che a loro volta agivano nel contesto di lotte sociali e politiche di carattere rivoluzionario.
La Giornata internazionale della donna non si svolse più regolarmente con l’avvento della Grande Crisi (capitalistica) del 1929-1933 che condusse il mondo alla Seconda Guerra Mondiale. Riprese a svolgersi con regolarità solo nel Dopoguerra, verso la metà degli anni Cinquanta (e fu in questo periodo che l’8 marzo si associò alla mimosa, fiore povero ma bello). Divenne un vero appuntamento di massa nel corso degli anni Settanta, per iniziativa delle ragazze allora tesserate alla FIGC, la Federazione giovanile del vecchio PCI, che ne organizzavano la Giornata con particolare cura.
E’ questa, a grandi linee, la ricostruzione storica della ricorrenza dell’8 marzo. E, rispetto a ciò – al di là del falso storico del rogo alla Cotton del 1908 e del comune misconoscimento che la genesi dell’8 marzo sta nelle lotte del movimento comunista rivoluzionario del 1917 guidato da Lenin – appare quanto meno paradossale il fatto che ora sia diventata una Festa quella che doveva essere la celebrazione di una tragedia sociale (le morti sul lavoro) o di una aspra lotta politica (l’abbattimento del capitalismo per la costruzione di una società migliore). Una Festa o, peggio ancora, una kermesse consumistica che parifica genericamente le donne come mere consumatrici di merci.
Gli apparati ideologici a servizio del modo di produzione capitalistico (TV, Radio, Media, Moda, Pubblicità ecc.) ripetono lo slogan “L’8 marzo è la Festa di tutte le donne”. Ma che significa “di tutte le donne” ? In questo modo le donne diventano solo un’astrazione generica, un concetto indeterminato, che nella realtà non esiste. Il concetto universale (donna) può esistere solo se si incarna in una singola persona determinata, e concretamente diversa dalle altre. Ad esempio, l’alto-borghese Letizia Moratti è concretamente diversa da Libera Russo, che fa l’operaia metalmeccanica in FIAT a Melfi. Al di là della somiglianza dell’apparato fisico-genitale, hanno ben poco in comune e di che spartirsi. E cosa avrebbero da festeggiare insieme l’8 marzo ?
Così come, ad esempio, la grande capitalista Emma Marcegaglia ha, concretamente, una vita diversa da Rossana Falcone, che fa l’operaia agricola raccoglitrice di pesche nell’alto tirreno cosentino, o da Anastasìa Vylchuk che, emigrata dall’Ucraina, ha girato mezza Europa per guadagnarsi da vivere come badante. Vite diverse, problemi diversissimi e interessi contrapposti.
Che, quindi, “l’8 marzo sia la Festa di tutte le donne” è una proposizione assolutamente falsa. E fin quando la stragrande maggioranza delle donne non capirà questo, e si lascerà ridurre ad astrazione generica, la conquista della libertà e dell’emancipazione – non solo delle donne, ma dell’intero genere umano – restarà un traguardo ancora molto lontano da raggiungere.
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