Oggi è Il 7 dicembre e ricorre l’anniversario dell’attacco giapponese alla flotta USA di stanza a Pearl Harbour, nelle Hawaii, avvenuto appunto il 7 dicembre del 1941.
In realtà il confronto fra i due imperialismi, quello giapponese e quello americano, per il dominio dell’area asiatica e del Pacifico era già in corso da molto tempo. Del resto la Cina era già stata attaccata e parzialmente occupata dal Giappone che ambiva a imporre la propria egemonia su tutto o quasi il continente asiatico e nel sud-est del Pacifico (Birmania, Indocina, Filippine ecc.).
Era quindi inevitabile che quel confronto si trasformasse in uno scontro aperto. L’attacco a Pearl Harbour fornì quindi l’occasione agli USA per entrare in guerra. Molti sostengono che quell’attacco fu una sorta di cacio sui maccheroni per gli Stati Uniti che avevano bisogno di un casus belli per poter convincere l’opinione pubblica interna della necessità e della inevitabilità della guerra; un vero e proprio “regalo” fatto dai giapponesi agli americani perché fornì loro il pretesto di cui avevano bisogno a tale scopo. Altri ancora sostengono che il governo e l’ “intelligence” americana fossero già al corrente dell’intenzione di attaccare da parte dei giapponesi. A supporto di tale tesi (niente affatto campata per aria…) il fatto che pochi giorni prima le portaerei americane – i veri pezzi forti della flotta USA (le navi colpite e affondate o gravemente danneggiate durante l’attacco erano vecchie corazzate,ormai obsolete o destinate a diventarlo) – furono fatte salpare da Pearl Harbour. Inoltre, un’operazione aereonavale così importante e impegnativa, con un dispiegamento di forze e mezzi così massiccio da parte della marina imperiale nipponica, non poteva certo passare inosservata né poteva essere realizzato da un giorno all’altro, come se nulla fosse.
Addirittura, anche taluni film celebrativi hollywoodiani hanno lasciato intendere, fra le righe, che questa sia più che un’ipotesi e che gli USA abbiano lasciato sostanzialmente campo libero ai giapponesi di agire.
Del resto, la storia è zeppa di “casus belli”. Senza andare troppo lontano nel tempo, ricordiamo l’attentato a Francesco Ferdinando nel 1914, erede al trono dell’impero austro-ungarico, che formalmente fu la scintilla che diede l’avvio alla prima guerra mondiale, oppure l’altrettanto famoso “incidente di Ual Ual” che fornì il pretesto a Mussolini e al regime fascista per aggredire e occupare militarmente l’Etiopia.
Un altro famoso e storico “incidente” fu quello del Golfo del Tonchino nel 1964 che creò il precedente per l’intervento americano in Vietnam (in realtà una guerra molto lunga che terminò solo nel 1975 e che costò la vita a circa 60.000 soldati americani e a due milioni di vietnamiti).
Cammin facendo, arriviamo così all’11 settembre e all’attacco alle Torri Gemelle di New York.
Anche e soprattutto in questo caso la polemica è stata vivacissima tra coloro che sostengono l’ “autenticità” dell’attentato, da attribuire a cellule jihadiste (allora erano Al Qaeda e i talebani il nemico pubblico numero uno, ora soppiantati e superati, anche nell’immaginario comune, dallo Stato Islamico), e tra coloro – i cosiddetti “complottisti”, come vengono da tempo soprannominati e individuati (e anche bollati, dobbiamo essere onesti…) – che invece sostengono che l’attentato alle Twin Towers sia stato, diciamo così, un “prodotto fatto in casa”, cioè concepito ed attuato direttamente dalla Cia (magari con la complicità e/o la collaborazione dei servizi segreti di qualche altro stato). A sostegno di ciò forniscono numerose prove e testimonianze fra cui quelle di numerosi e anche autorevoli – va ricordato – ingegneri e tecnici di altissimo livello (fra cui molti americani), i quali sostengono che in base ai loro calcoli e ai loro studi soltanto una potente carica di esplosivo collocata alla base di quegli edifici, avrebbe potuto provocare quegli effetti. Anche il regista americano Michael Moore nel suo famoso film “ Fahrenheit 9/11” adombrava questa possibilità in modo molto concreto.
In parte, anche se con toni minori (le dinamiche sono completamente diverse), lo stesso genere di perplessità circa la “genuinità” degli attentatori (e dei mandanti), sono state avanzate in occasione della strage alla redazione di Charlie Hebdo e a quelle recenti avvenute sempre a Parigi.
Noi non abbiamo le competenze né le conoscenze necessarie per poter esprimere un’opinione certa in un senso o nell’altro. Ma soprattutto riteniamo che lo strumento principale per indagare tali eventi non sia quello dell’individuazione dei responsabili, di coloro che materialmente hanno eseguito quegli attentati e dei mandanti, ma quello dell’analisi politica, cioè dell’analisi delle condizioni, dei contesti e delle strutture sociali, economiche e politiche (all’interno delle quali, certamente, agiscono degli “attori”…) che hanno determinato e reso possibili tali eventi. Certo, venirne a conoscenza, sarebbe meglio. Sapere ad esempio se l’attentato alle Torri Gemelle sia stato effettuato da questa o quella cellula jihadista, supportata o meno dall’intelligence di questo o quello stato, sarebbe sicuramente importante. Ma non decisivo, tutto sommato. Perché lo strumento dell’analisi politica ci porta comunque a capire ciò che è fondamentale capire, e cioè a chi giova questo o quel determinato atto terroristico o “incidente”. E quindi, per essere ancora più chiari, così come è innegabile che l’attacco a Pearl Harbour fu l’episodio che consentì agli Stati Uniti di entrare in guerra e di consacrarsi (e di imporsi) di lì a pochi anni come la prima grande superpotenza planetaria, è altrettanto innegabile che l’attacco alle Torri Genelle è stato l’evento che gli ha consentito di lanciare su grande scala la nuova grande offensiva imperialista finalizzata al controllo e al dominio di aree strategiche sia dal punto di vista economico che geopolitico. E questo è ciò che conta veramente.
Ciò detto, stabilito cioè qual è il metodo fondamentale di indagine, trovo però sbagliato, come dicevo prima, bollare in modo sprezzante coloro che invece concentrano la loro forze sulla ricerca dei responsabili, siano essi gli esecutori e i mandanti, come “complottisti”. In genere i “complottisti” tendono a collocarsi a destra però ce ne sono anche altri di sinistra o che provengono da sinistra. Il loro approccio è a mio parere errato perché rischia di impoverire (e in effetti impoverisce) l’analisi complessiva, cioè l’analisi della struttura, della realtà economica, sociale e politica, e finisce inevitabilmente per capovolgere i termini della questione. Finisce cioè per porre la struttura (cioè la realtà complessiva che produce anche quegli eventi) in secondo piano rispetto agli eventi e agli “attori” di quegli eventi, siano essi protagonisti o semplici comparse.
Tuttavia è a mio avviso sbagliato bollare come ridicole se non deliranti tutte le loro ipotesi.
Del resto, che i servizi segreti, le intelligence e le polizie politiche svolgano un ruolo sulla scena geopolitica mondiale, è innegabile. E soprattutto è evidente come queste stesse strutture rispondano alla volontà politica degli stati da cui dipendono e spesso da quella dei gruppi di potere economici, finanziari e politici in competizione fa loro per il controllo stesso di quegli stati.
La competizione e la lotta per il potere fra quei grandi gruppi si traduce inevitabilmente in scelte strategiche differenti, specie in materia di politica estera, e in ultima analisi anche nella gestione operativa in un senso o in un altro di quei corpi preposti alla “sicurezza” degli stati. Ed è così che quelle stesse strutture vengono utilizzate (del resto è il loro mestiere…) per destabilizzare stati e regioni, per finanziare o addestrare organizzazioni terroriste, per organizzare colpi di stato e via discorrendo. E’ accaduto di recente in Siria, in Libia e in Ucraina, dove le intelligence di alcune grandi potenze occidentali e non solo hanno organizzato, finanziato e promosso vere e proprie guerre civili o rovesciamenti di legittimi governi. Ma è accaduto molto spesso anche in un passato un po’ meno recente e in altri contesti, come ad esempio quello latino-americano, dove per circa mezzo secolo non si riescono neanche a contare i colpi di stato militari organizzati dalla Cia. Mi limito a citare il più famoso, cioè quello che fu realizzato in Cile e che portò al potere il torturatore al servizio delle multinazionali americane, Augusto Pinochet. Quel golpe fu concepito e organizzato fin nei minimi particolari. Infatti, ben prima del criminale assalto alla Moneda (il palazzo presidenziale) con relativo assassinio del Presidente Salvador Allende che si suicidò pur di non cedere al ricatto dei golpisti (la sua morte deve quindi essere considerata un assassinio a tutti gli effetti) e della brutale repressione che ne seguì ad opera dei militari e dei cosiddetti “squadroni della morte” (addestrati dalla Cia), fu finanziato lo sciopero dei camionisti che servì a mettere in ginocchio il paese dal punto di vista economico e a creare le condizioni per una disaffezione popolare indotta nei confronti del governo.
Ora, non si capisce per quale ragione, strutture così potenti, capaci di destabilizzare interi paesi e stati, di rovesciare governi, organizzare colpi di stato (cioè operazioni anche molto più complesse da organizzare e che richiedono una quantità enormemente superiore di risorse, mezzi ed energie rispetto a degli attentati terroristici) non potrebbero o non dovrebbero essere in grado (o avere l’autonomia sufficiente, fermo restando quella relazione con i gruppi di potere economico-finanziari che gli stanno alle spalle) di concepire, promuovere, finanziare e organizzare attentati terroristici. E ciò che non si capisce ancor più è perché tutto ciò debba essere considerato assurdo o fantascientifico. Forse che chi organizza un colpo di stato non è in grado di organizzare un attentato sul proprio territorio o altrove? Non scherziamo neanche. E’ assolutamente possibile e per ciò che mi riguarda, credibile.
L’errore, quindi, non consiste nel considerare fattibile tutto ciò, perché è assolutamente fattibile e credibile. L’errore è, come dicevo prima, nell’eccesso di dietrologia (che molto spesso finisce per sfociare nella logica della spy story e attribuire a questa l’origine e la causa degli eventi e soprattutto dei processi politici), nel capovolgere l’ordine dei fattori e anteporre o privilegiare questi eventi fino a farli diventare determinanti, rispetto all’ analisi complessiva della realtà storica, politica, economica e sociale che li produce.