Le scelte legislative a margine delle emergenze terroristiche e il “diritto dello straniero”
Le terribili stragi di Parigi ripropongono all’attenzione degli interpreti il tema delle garanzie giuridiche cui l’ordinamento è disposto a rinunciare in funzione preventiva rispetto ai rischi di un pericolo ineffabile. La “deminutio” del contenuto dei diritti investe potenzialmente una gamma vastissima di diritti fondamentali che trovano tutti nella Costituzione il loro fondamento più solido. Già da tale dato normativo dovrebbe, innanzitutto, scaturire una prima indicazione di metodo: la necessità cioè di una valutazione ponderata nel trattamento degli stessi anziché una regolamentazione frutto di pulsioni emotive retaggio di una concezione arcaica del diritto in cui, anche il mero “sospetto”, o il timore generalizzato legato a particolari condizioni soggettive, possono prestare il fianco a palesi violazioni dei diritti fondamentali.
Al di là del contemperamento tra esigenza di sicurezza e privacy, questione che necessita di una ponderazione caso per caso al fine di definire con prudenza le possibili limitazioni di quest’ultima, altri rilevanti diritti fondamentali interessati a tale contemperamento ineriscono alla libertà personale ed al godimento dei diritti sociali. E’ su questi due temi, in particolare, che occorre spendere qualche riflessione.
A tale proposito, l’analisi della prassi legislativa del nostro recente passato post 11 settembre ci racconta di scelte normative poco congrue che sembrano solo dettate dalla necessità di spegnere immediatamente i timori legati alla sicurezza collettiva.
Un caso emblematico è quello che ha coinvolto il campo del diritto penale, settore in cui il principio fondamentale della libertà personale è stato variamente compresso per esigenze di tipo squisitamente punitive. Il tratto peculiare di alcuni provvedimenti intervenuti in tale settore risiede nel fatto che essi miravano ad una generalizzata criminalizzazione di una categoria di soggetti che, da punto di vista fattuale non erano interessati direttamente alla commissione di reati comuni.
Così si è assistito, per esempio, non solo all’introduzione del reato di clandestinità ma anche a all’aggravante dell’essere clandestini.
Riguardo a quest’ultimo tema la Corte Costituzionale (sent. n. 250/’10) ha dichiarato incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza la norma che prevedeva l’aggravante di sul presupposto per cui uno status soggettivo non può, di per sé, condurre ad un aggravio delle misura sanzionatoria prevista per un qualsiasi fatto di reato: stabilire un aggravante di tal guisa non corrisponde ad una scelta irrispettosa del principio di uguaglianza formale. A ciò va aggiunto che la stessa normativa aveva poi contestualmente introdotto il reato di clandestinità determinando dunque, un doppio binario di punibilità rispetto ad una condizione soggettiva.
La normativa, introdotta nel 2009 per volontà dell’allora Ministro Maroni, ma tuttora stranamente in vigore per quanto attiene alla fattispecie di reato di clandestinità nonostante gli intendimenti di cancellarla espressi con legge delega, è l’espressione di una politica propagandistica ed umorale. In una sorta di delega in bianco da parte della politica al diritto penale, venivano introdotte misure sanzionatorie tese a colpire penalmente un’indistinta comunità di soggetti con pressoché nulli risultati pratici (anche sul piano pratico, infatti la misura si è rivelata totalmente inefficace in quanto spesso i soggetti incriminati non vengono rintracciati e si è costretti ad avviare un processo inutile e dannoso per le casse statali) al fine di combattere un fenomeno complesso per i quali erano invece auspicabili scelte di altra natura.
Tali soluzioni legislative rischiano di condurre ad una sostanziale metamorfosi del diritto penale e dei suoi principi cardine in quanto intendono colpire e punire chi, indiscriminatamente, possiede o non possiede certe caratteristiche perché da quelle si presume, con assoluta certezza, che ci siano gli estremi per l’irrogazione di una pena.
Lo svilimento del diritto penale si coglie soprattutto nell’assoluta elisione del principio di offensività che è necessario presupposto per l’irrogazione di ogni sanzione. Che senso ha prevedere un’aggravante di clandestinità applicata alla commissione di qualunque fatto di reato? Quale fatto di reato presuppone in sé la clandestinità in sé e per sé considerata tanto da potersi presumere, senza alcuna prova contraria, il fatto stesso di una pericolosità e reità del soggetto?
Non solo, su di un piano psicologico sembra che la logica indiscriminatamente punitiva che governa l’agire dei terroristi risulti in tutto e per tutto identica a quella che si riscontra in queste soluzioni legislative: è la logica dello “sparare” nel mucchio (da intendersi qui riferita alla normativa descritta), dove la punizione penale assurge a ruolo di funzione rieducativa e dove la barbarie si fa Stato rinnegando in un solo colpo i principi costituzionali di uguaglianza, necessaria offensività del fatto di reato, di rieducazione della pena.
Ma il tema del progressivo assottigliamento dei diritti investe non solo i “diritti di libertà” che trovano nel diritto di libertà personale la massima dimensione ma anche in quello dei “diritti sociali”, nella dimensione di diritti essenziali, legati indissolubilmente al principio di uguaglianza sostanziale, cioè allo sforzo richiesto allo Stato per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che creano situazioni di ineguaglianza. E’ una norma quella dell’uguaglianza sostanziale in cui si condensano i migliori valori del nostro ordinamento e della nostra cultura politica e sociale, in cui cioè coesistono le istanze socialiste di solidarietà con quelle centriste riassumibili nel concetto autenticamente cristiano di “misericordia” verso il prossimo.
Anche in questo ambito abbiamo assistito, nell’ultimo decennio, ad interventi di settore tendenti a ridurre la platea dei beneficiari unicamente sulla base di qualità soggettive posseduta dai soggetti e, in particolare, della condizione di “straniero”.
Per fortuna la Corte Costituzionale, fin dalle sue prime sentenze, ha sempre asseverato la tesi per cui il principio di cui all’art. 3 della Costituzione vale pure per lo straniero, quando trattasi di rispettare i “diritti inviolabili”. Ed è anche qui evidente come il tentativo, a volte mal riuscito, di comprimere il nocciolo duro dei diritti sulla scorta di un doppio binario di tutele, una per i cittadini ed una per gli stranieri ancor peggio se clandestini, è stata espressione di una scelta che non ha alcun fondamento nel nostro ordinamento. Non solo, anche qui il rischio della compressione di tali diritti oltre ogni misura imposta dalla ragionevolezza delle scelte legislative, specie nelle prestazioni essenziali che esse contengono, è quella di sminuire il significato degli stessi valori nella misura in cui appare difficile, anche in termini meramente ontologici, concepire l’idea che un valore è essenziale per gli uni e non essenziale per gli altri.
A titolo esemplificativo si ricordano alcune tendenze normative che hanno variamente limitato i diritti sociali degli stranieri ponendo in essere delle forti discriminazioni basate sulla cittadinanza, molte delle quali censurate dalla Corte Costituzionale.
Una legge regionale lombarda limitava il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea alle persone totalmente invalide per cause civili di cittadinanza italiana. La Corte (sent. 432/’05), dopo aver sottolineato che suddetta provvidenza rinviene la propria ragion d’essere in una logica di solidarietà sociale, conclude proprio nel senso che la disposizione in discussione si pone in contrasto con il principio sancito dall’art. 3 della Carta fondamentale perché introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione del tutto arbitrari. In base ad un analogo percorso interpretativo, con sentenza n. 40/’11, la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una legge del Friuli che escludeva gli extracomunitari dal sistema integrato di interventi e servizi sociali mentre con la sentenza n. 40/2013 ha dichiarato che è illegittimo chiedere il possesso del permesso di soggiorno CE lungo soggiornante per l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale erogate dall’Inps e, infine, con sentenza n. 11/’09, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normazione statale sulla pensione di inabilità nella parte in cui esclude l’accesso per gli stranieri non in possesso dei requisiti reddituali necessari per la carta di soggiorno.
Più recentemente la Corte (con sentenza 25 giugno 2015) ha avuto modo di pronunciarsi anche sull’illegittimità dell’esclusione degli stranieri dal servizio civile. Secondo la Consulta, «…l’esclusione degli stranieri, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e di conseguenza di sviluppare il valore del servizio a favore del bene comune, comporta un’ingiustificata limitazione al pieno sviluppo della persona e all’integrazione nella comunità di accoglienza».
Alla luce della breve disamina esposta, l’impressione generale è che, da parte del legislatore, si sia scelta la paura e si sia deciso di cavalcare l’onda emotiva (ed elettorale) che essa genera, creando fruizioni di diritti a doppia corsia a dispetto di un impianto di diritti costituzionali solido che avrebbe autorizzato scelte di maggior inclusione sociale e di maggior coraggio. Ed è proprio l’inclusione, il sentirsi parte di un tessuto sociale che rappresenterebbe uno degli snodi più efficaci per la lotta ad ogni fondamentalismo che, al di là di ogni implicazione di altra natura, spesso trae linfa vitale dall’isolamento sociale.
L’auspicio è che le scelte normative del prossimo futuro, in costanza del riverberarsi degli episodi terroristici, non si caratterizzino, così come accaduto nella legislazione degli ultimi dieci anni, per un affievolimento nella tutela dei diritti fondamentali, pena l’abbassamento generalizzato del livello di condivisione intima degli stessi da parte della comunità nel suo complesso considerata, che è poi il presupposto indefettibile per la loro vigenza e per la vigenza di uno stato di diritto.