I recenti avvenimenti di Parigi, gli attentati in Mali, a Beirut e l’abbattimento dell’aereo russo, per mano dell’Isis, ci pongono di fronte ad una crescente escalation bellica che ha un risvolto psicologico ed emotivo che merita di essere indagato.
I fatti di Parigi sono stati per più di una settimana il solo e pressoché unico argomento di discussione (infatti l’enfasi è stata posta su questi mentre gli attentati di Beirut e l’abbattimento dell’aereo russo sono stati archiviati nell’arco di poco tempo); telegiornali, radio e quotidiani hanno dedicato prime pagine e approfondimenti a questi eventi facendo in modo che anche chi fino a pochi giorni prima non si fosse occupato di questioni geopolitiche, tutto d’un tratto si ritrovasse a doverne sapere (in maniera non certamente esaustiva) e a dover, in qualche misura, scegliere. In poche parole, una scelta obbligata.
Qual è la ragione per cui masse intere che fino a poco tempo prima non si interessavano di tali questioni, ad un certo momento si sono sentite quasi in dovere di pronunciarsi?
La risposta è nella crescente condizione di paura, potremmo dire, collettiva. La paura ha fatto e sta facendo si che la “maggioranza silenziosa”, vedendosi alle strette, appunto perché costretta da un sentimento paralizzante, si sia sentita e si senta quasi nell’obbligo di dare opinioni, di esprimersi, e per lo più sia pervasa da una sorta di entusiasmo bellicista e interventista, più o meno indotto.
La strategia della paura, se da un lato ha portato a quanto detto finora, dall’altro si è trasformata in una vera e propria forma di isteria collettiva. E’ sufficiente fare due chiacchiere con chiunque per le strade e se ne avrà la conferma: Persone che vivono in piccole città di provincia che studiano il Corano per poterlo utilizzare con eventuali attentatori, altre che evitano le zone costiere per paura che i terroristi sbarchino sulle spiagge, altre che non prendono più la metropolitana, altre che evitano di passeggiare per le vie centrali delle città e altre ancora che vivono nel costante timore di cadere vittime di un attentato terroristico da un momento all’altro.
Tutto ciò accompagnato dal cieco assenso alla blindatura delle città da parte dell’ esercito, dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza. Come se questo imponente schieramento di mezzi, nel caso in cui un terrorista decidesse di farsi esplodere in una metropolitana o in un qualsiasi luogo pubblico, potesse essere risolutivo o preventivo.
L’allerta terrorismo è, insomma, una minaccia sentita da tutti, senz’altro più della precarizzazione e delle morti sul lavoro, del jobs act , dei tagli al welfare, ai salari, alle pensioni e alla spesa sociale. Ed è un’ allerta proprio perché ce lo dice l’intelligence americana, unitamente all’antiterrorismo nostrano. Quella stessa intelligence che fino a pochi giorni fa condannava la Russia per aver colpito in Siria i “ribelli” addestrati dalla Cia…Ma questo è ancora un altro discorso…
Quello che però nessuno sentirà mai dire in un telegiornale, è che il conflitto in atto altro non è se non una guerra fra imperi, che vede l’ Unione Europea come uno dei protagonisti, anzi, come un vero e proprio polo imperialista che pur con i suoi ritardi, punta ad estendere e ampliare la sua egemonia e il suo mercato, naturalmente con la collaborazione degli Usa e di Israele (e in “antagonismo” con la Russia e la Cina).
Cosa ha a vedere tutto ciò con i lavoratori? Dove si vanno ad inserire in questo scenario le classi lavoratrici, all’interno di un conflitto che, come sempre, torna utile ai gruppi sociali dominanti in competizione fra loro per la spartizione e il controllo delle risorse, dei territori e delle vie di comunicazione e di trasporto (delle merci)?
In un contesto simile, quella della paura deve quindi considerarsi come una vera e propria strategia; così come lo era appunto la cosiddetta “strategia della tensione” che negli anni ’70 e primissimi ’80 del secolo scorso puntava a far si che la gente si chiudesse in casa proprio in un momento storico in cui il conflitto era alto. Nella stessa misura, questa nuova strategia del terrore, con le dovute differenze, oltre al consenso all’”interventismo” e alla costruzione di una sorta di “animo guerrafondaio”, ha come finalità anche il ritiro nella propria dimensione privata.
Lo scontro fra stati e imperi, per essere efficace, necessita di un annichilito o comunque notevolmente affievolito antagonismo di classe. Nel momento in cui tale antagonismo è stato sconfitto o comunque disinnescato attraverso un processo durato molti anni, insieme alla perdita di egemonia e del ruolo che storicamente la Sinistra aveva fra i lavoratori salariati e le masse popolari (e soprattutto convincendo i lavoratori che i loro interessi coincidono con quelli delle classi dominanti), la strategia del terrore viene a rappresentare, potremmo dire, il colpo di grazia.
In un contesto in cui osserviamo il capitale esprimersi in tutta la sua violenza e la sua tendenza guerrafondaia, terrorizzare e impaurire classi e gruppi sociali già sconfitti fa parte di una strategia complessiva che guarda sia all’esterno (la guerra imperialista per il controllo e il dominio dei mercati) sia all’interno (la pace sociale).
La guerra, insieme alla costruzione di un falso nemico esterno (nel caso specifico il cosiddetto “mondo islamico” che minaccerebbe i valori cristiani e liberali della civiltà occidentale), diventa così un ulteriore strumento per disinnescare il potenziale e sempre latente conflitto sociale.
Guerra imperialista e conflitto sociale si rivelano quindi essere aspetti intimamente legati fra loro in un rapporto inversamente proporzionale. Potremmo dire che maggiore è il conflitto sociale (e la coscienza politica delle masse) e minore è il rischio di essere trascinati in una guerra, dal momento che proprio quell’elevato tasso di coscienza rende molto più difficile creare le condizioni necessarie per la “mobilitazione esterna”, cioè per la guerra.
E’ pur vero però che in presenza di un’aspra e potenzialmente sovversiva conflittualità sociale, i gruppi dominanti potrebbero essere spinti (come spesso è avvenuto nella storia) alla “soluzione esterna” (cioè la guerra), con il fine di disinnescare il conflitto e ricompattare la nazione.
La contraddizione, come vediamo, resta insanabile, ma non c’è dubbio sul fatto che l’alto tasso di coscienza civile e politica accompagnate da un’ altrettanto forte mobilitazione popolare siano state fondamentali per indebolire lo schieramento interventista e a volte anche per porre fine alle avventure militari, come avvenne nel caso più famoso, quello della guerra del Vietnam, dove il governo americano non era più in grado di gestire politicamente l’opposizione interna alla guerra.