Siamo in guerra! Da oggi o da 25 anni?

La domanda può sembrare capziosa, preconcetta, di parte addirittura ideologica secondo i parametri del politicamente corretto (ed ipocrita) che usa la cultura di “sinistra”, ma non possiamo capire, interpretare ed inquadrare i fatti di Parigi se non si parte dalla prospettiva storica, che rifiuti l’eterno presente che ci propone il pensiero borghese “moderno”.

Infatti da un punto di vista strettamente storiografico potremmo tracciare un elenco di continui interventi militari che dal 1991 hanno modificato intere regioni del globo e disfatto assetti Statuali definiti e consolidati nel corso
di tutto il ‘900. Il primo intervento in Iraq di Bush padre, la scomposizione della Yugoslavia per tutti gli anni ’90, la Somalia e le molte e nascoste guerre fatte in Africa per il controllo, conto terzi per le multinazionali, delle materie prime. Poi l’intervento in Afghanistan nel 2001, l’occupazione militare dell’Iraq del 2003 e la sua disgregazione in tre parti, le cosiddette “primavere” arabe e gli interventi diretti ed indiretti dal 2010 che hanno distrutto ieri la Libia, oggi la Siria e lo Yemen ed hanno tribalizzato quei popoli riportandoli al medio evo. Ne può essere dimenticato il supporto dato dalla UE ai nazisti ucraini che hanno riaperto un fronte di guerra dentro il continente Europeo a poco tempo dalla conclusione  della guerra in Yugoslavia.
Il tutto sempre scandito dai massacri perpetrati da Israele nei confronti del popolo Palestinese. Probabilmente l’elenco potrebbe continuare ma il fatto è che dalla fine del campo socialista si sono rimessi in moto i classici
meccanismi ottocenteschi del capitalismo.
Se questa è pace! Questi episodi bellici, che in 25 anni non hanno avuto soluzione di continuità, sono stati determinati dagli interessi dei soggetti che hanno promosso gli interventi cioè gli USA, come imperialismo dominante, e la UE come imperialismo rampante. Ogni intervento è stato motivato, giustificato e rappresentato in qualche modo a seconda di dove veniva fatto, islamisti, dittatori, slavi antidemocratici, insomma ad ogni “nemico” veniva confezionato il giusto abito ideologico da sfoggiare presso l’opinione pubblica mondiale ovvero presso quella dell’occidente definito evoluto. E’ questo il contesto in cui vanno collocati gli atti terroristici di Parigi (ma non solo c’è infatti anche l’aereo Russo e l’attentato di Beirut del 12 novembre scorso) ed è da qui che bisogna partire per capire che quello che sta accadendo non sono incidenti della Storia ma è processo carsico che adesso comincia a
manifestarsi anche nel cuore della Unione Europea.
Neppure la lettura di quello che sta avvenendo può essere principalmente militarista in quanto i caratteri dello scontro che si sta mostrando implicano modifiche che vanno al cuore del capitalismo attuale e di cui l’aspetto
militare ne è solo uno. Va fatto uno sforzo analitico per capire come la complessità del mondo attuale “globalizzato” incide sulla fase di scontro che si sta aprendo e sui diversi piani in cui tale conflitto si produce.
Bombardare Riyad e Ankara? La prima questione che incide nelle specifiche vicende attuali è l’incremento esponenziale che si è determinato sul piano della competizione globale, competizione che riguarda le grandi potenze ma che vede la nascita di nuovi protagonisti. E’ ormai universalmente risaputo che l’ISIS non potrebbe esistere se non ci fosse il sostegno della Turchia e dell’Arabia Saudita che intendono contrastare l’Iran, e Putin ne ha fatto esplicito riferimento durante il recente vertice del G20. Questa è oggi la vera contraddizione che vive l’occidente, e la Francia in primo luogo, in quell’area perché per sconfiggere gli islamisti si dovrebbe bombardare Riyad ed Ankara. Il punto qui però non è militare ma strategico infatti, ad imitazione degli imperialismi dominanti, quelli subalterni e regionali cercano di imporre il loro comando. Per la Turchia questo avviene per riflesso storico ed interesse
economico di potenza locale e per la petromonarchia dell’Arabia Saudita significa poter svolgere il proprio ruolo di produttori di petrolio e possessori di potenza finanziaria senza essere subalterni agli Stati Uniti, così come è avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ stata questa necessità che ha prodotto a suo tempo Bin Laden, che ha iniziato la sua “carriera” contro l’URSS ma che si è conclusa contro gli USA.
Il Boomerang tecnologico. L’altro piano da considerare è quello dello sviluppo tecnologico complessivo raggiunto dal capitalismo attuale; lo sviluppo delle reti telematiche hanno determinato una modifica qualitativa delle relazioni internazionali in primis di quelle economiche, produttive e finanziarie che hanno permesso l’abbattimento delle barriere esistenti in precedenza. Per l’Occidente questo ha significato la velocizzazione dei processi produttivi e
commerciali ma anche la nascita di un apparato ideologico potente, se supportato dalla tenuta economica e materiale delle società, fatto di giornali telematici, televisioni satellitari, di social network. Questi stessi strumenti tecnologici prodotti in queste forme dal capitalismo si trasformano se si rivolgono a quella parte dell’Umanità che non gode degli stessi benefici dei paesi sviluppati. Oggi il messaggio integralista diretto verso una Umanità dolente e martoriata da decenni da guerre, dalla fame, dalla disgregazione degli Stati, attecchisce immediatamente in chi non ha nulla da perdere fino al punto di concepire come forma di lotta il suicidio. Quello che è nato come strumento di crescita dei profitti e di produzione ideologica dove l’evento iperbolico diviene il momento vincente si ribalta dunque nel suo esatto contrario sviluppando un’altra ideologia, antagonista, ed arrivando alla rappresentazione dell’orrore come il clou della comunicazione “moderna” politicamente efficace.

Ma non c’è solo questa tecnologia, c’è anche la spaventosa produzione di armi, occidentali soprattutto, dove il surplus deve essere smaltito e produrre profitto vendendo armi anche a chi è considerato ufficialmente come “nostro” nemico; questo riduce la supremazia militare dei paesi imperialisti i quali oggi prendono atto di non essere in grado di fare i colonialisti, cioè controllare militarmente i territori, e fanno un ulteriore salto tecnologico con i droni, aerei sempre più moderni e sofisticati, robotica militare, etc.
Ciò sul momento fa risparmiare certamente le vite dei militari occidentali, certo non quelle dei civili locali, ma in prospettiva si potrebbe rivelare incapace di produrre effetti concreti e di costringere i “civilizzati” militari ad affrontare, non si sa però con quale esito, di nuovo i barbari con gli scarponi a terra. Non solo, ma la diffusione tecnologica in tutti i suoi aspetti, permette anche la guerra ideologica e militare dentro le cittadelle imperialiste e
dunque gli episodi come quelli di Parigi, che non sono certo i primi (ricordiamoci di Madrid e Londra) prevedibilmente si ripeteranno e si amplificheranno nella misura in cui il conflitto prodotto dagli imperialismi si
incrementerà.

La lotta di classe è internazionale. Poi c’è la guerra strategica, quella che fa quotidianamente “il Capitale contro il Lavoro”. In realtà questa è il rumore di fondo che ha accompagnato i conflitti di questi decenni, una guerra che ha assunto forme diversissime e che ha come campo di battaglia il pianeta intero, invero sempre più angusto dal punto di vista del Capitale. I suoi effetti sono stati devastanti sulle classi subalterne e sui popoli in quanto il processo di ristrutturazione della produzione e della circolazione delle merci ha modificato e funzionalizzato l’evoluzione delle classi sociali a livello mondiale.

Innanzitutto ha determinato l’abbassamento del livello di vita e delle condizioni del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato distruggendo con ferocia quel Welfare che era stato anche il prodotto di decenni di lotte della classe
operaia e delle società occidentali. L’obiettivo, raggiunto, era infatti quello di ribaltare completamente i rapporti di forza tra le classi ed è stata questa la stella polare dell’agire delle classi dominanti.

Inoltre lo sviluppo tecnologico e la velocizzazione dei trasporti e delle comunicazioni ha permesso la delocalizzazione nei paesi divenuti poi la periferia produttiva dei centri imperialisti. Questo ha permesso che si potesse passare dalla produzione industriale ad una basata sulla finanza, servizi e sul commercio; tutto ciò ha fatto crescere la disoccupazione ma soprattutto la precarizzazione del lavoro nei centri, e nelle periferie ha avviato uno
sfruttamento brutale della forza lavoro che nei paesi di origine dei capitali finanziari non era più possibile. Certo sono nati da questo rimescolamento storico nuovi punti di crescita vitali per la stabilità economica, quali la Cina, ma questi ora sono già in crisi ed in assenza di possibili ulteriori crescite economiche sostanziali.

Alle emigrazione dei capitali per investimenti ha corrisposto parallelamente l’immigrazione di quelle parti di popolazione mondiale eccedente, superflua, messa in crisi dalla riorganizzazione sociale e produttiva, oltre che dalle
guerre che non sono altro che un sottoprodotto della suddetta riorganizzazione.
Questo è un processo che riguarda l’Unione Europea ma anche gli USA i quali stanno costruendo dal ‘94 un muro lungo oltre mille chilometri sul confine con il Messico contro chi viene dall’America latina e centrale. Si sono create così le condizioni per “internalizzare” lo sfruttamento brutale anche nei centri imperialisti con una immigrazione massiccia, spesso drammatica, come ci ricordano le cronache quotidiane e che, in alcuni paesi come appunto la Francia, si è aggiunta alle precedenti ondate migratorie che sono ormai alla seconda o terza generazione.

Classificare quello che è accaduto in Francia come estremismo islamico diretto dalla Siria è una mistificazione ed un errore. Sono passati circa dieci anni dalle rivolte nelle banlieue parigine represse brutalmente dalla polizia che
uccise diversi giovani. Da allora non ci sono state più rivolte significative ma certo non sono cambiate le condizioni di vita di questa parte sociale, come sono peggiorate del resto anche le condizioni dei settori popolari “autoctoni”.
Il radicalismo islamico ha usato questo tempo di tregua sociale per attecchire direttamente sul “nostro” conflitto di classe vero e proprio, rappresentandolo politicamente prima ed adesso anche militarmente. Per rimuovere questa
contraddizione non basteranno certo i bombardamenti in Siria ed in Iraq o in Libia in quanto la contraddizione sta qui, nel cuore dell’Europa.
Contraddizione questa che indebolisce ulteriormente le classi subalterne spintonate verso un razzismo funzionale ideologicamente all’egemonia del capitale che ha continuamente bisogno di forza lavoro sfruttabile, controllata e politicamente subalterna.

Competizione Globale ed armi nucleari. Questo coacervo di contraddizioni che si sommano e sovrappongono stanno facendo saltare via via tutti i parametri che hanno in qualche modo governato il mondo, sia a livello internazionale che all’interno dei singoli paesi. Tutto ciò è il prodotto di quella che abbiamo definito “Crisi Sistemica” ma c’è anche chi la chiama crisi finanziaria, stagnazione secolare od in altro modo ancora. Insomma lo scenario attuale è determinato da un limite sempre più evidente alle possibilità di valorizzazione del Capitale che riversa al proprio interno le contraddizioni rendendo più feroce la lotta di classe dall’alto in tutte le sue forme ed acutizza quella competizione globale che riguarda certo le potenze locali ma soprattutto i paesi imperialisti e le grandi potenze a cominciare dalla Russia e dalla Cina.

Anche su questo la cronaca, per chi vuole capire, ci dice molto sia delle tensioni su Siria e su Ucraina che di quelle in estremo oriente tra Cina, USA e Giappone che si stanno mostrando anche se per ora in modo piuttosto sommesso.
E’ la competizione globale vera e propria che si manifesta a questo livello dove però subentra per la misurazione dei rapporti di forza un elemento strategico che è quello dell’arma nucleare che, finora, rimane solo sullo sfondo. Ma anche qui lo scenario tende a complicarsi intanto per la moltiplicazione dei paesi che hanno testate nucleari ed i missili per il loro lancio, infatti in questo contesto un incidente potrebbe dare vita ad un conflitto dagli esiti imprevedibili. Siamo, in sostanza, in una situazione dove gli equilibri strategici sono indeterminati e nessuno può essere certo della propria vittoria in caso di guerra “tradizionale” o addirittura nucleare. La definizione degli “apprendisti stregoni” calza a pennello per delle classi dominanti che nei paesi imperialisti hanno perso ogni prospettiva di lungo periodo, ogni progettualità progressiva in quanto rappresentano un modello sociale che fa della irrazionalità, del profitto immediato, della competizione la propria base materiale.

In conclusione, sono state sinteticamente rappresentate quattro questioni strategiche che si intrecciano e rendono sempre più complicata la risoluzione delle contraddizioni; siamo dentro un passaggio storico uguale per spessore ma opposto per segno politico a quello avuto nel 1991. Ieri dal bipolarismo al mondo unipolare governato dagli USA oggi dalla fine di quella egemonia ad un mondo dove il multipolarismo non è sintomo di una accresciuta democrazia internazionale ma la premessa per un caos mondiale prodotto dalla competizione e dalla crisi sistemica che dal 2008 sta attraversando tutti i continenti. Se l’uso dell’arma nucleare verrà ancora ritenuto impraticabile quello che ci potrebbe aspettare è una situazione di crisi economica, di regressione sociale, politica e di conflitti militari con alleanze a “geometria variabile” che si protrarrà nel tempo in una sorta di riedizione della guerra dei cento anni.

Certamente questa è la crisi di “lor signori”, la crisi di un modello sociale che, privato del suo storico antagonista di classe, sta mostrando paradossalmente i propri limiti storici; ma questa crisi rischia di trascinare anche le classi
subalterne e per questo vanno capite le funzioni che i comunisti, il movimento di classe, i democratici devono avere in questo contesto. Questa è, va detto con molta chiarezza e senza esitazioni, quella di lottare contro il proprio
imperialismo, rifiutarsi di votare ancora una volta i nuovi crediti di guerra.
Per questo chiedere la rottura della Unione Europea, la fuoriuscita dall’Euro e la fine della NATO sono parole d’ordine che stanno tutte dentro questo passaggio storico, sicuramente in una condizione di minoranza ma con la chiarezza sulle contraddizioni che si stanno manifestando e che non potranno che amplificarsi. Ed è in questo senso che va visto l’incontro nazionale del 21 Novembre a Roma della Piattaforma Sociale Eurostop che rappresenta una base sulla quale possono convergere forze sociali, sindacali e politiche che hanno coscienza del baratro verso cui stanno andando le classi dominanti in Europa in un impeto avventurista prodotto dalla loro incapacità di governare le proprie contraddizioni.

Mauro Casadio – Rete dei Comunisti

Fonte: http://www.retedeicomunisti.org/index.php/editoriali/1068-siamo-in-guerra-da-oggi-o-da-25-anni

2 commenti per “Siamo in guerra! Da oggi o da 25 anni?

  1. armando
    19 Novembre 2015 at 12:10

    Trovo molto pregnante soprattutto la prima parte. Mi viene in mente Baudriilard, Lo scambio simbolico e la morte, scritto dopo l’11 settembre.

  2. Davide
    19 Novembre 2015 at 19:05

    Osservo, sempre più, come le posizioni filosofiche e politiche di comunisti, neo-leghisti e movimentisti (tutti di orientamento cosiddetto di “destra”) sono legittimamente coincidenti.

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