“Coloro che combattono per la libera concorrenza non difendono gli interessi di quelli che sono ricchi. Vogliono che sia lasciata mano libera a uomini sconosciuti, che saranno gli imprenditori di domani e la cui ingegnosità renderà più piacevole la vita delle generazioni future.“
(Ludwig von Mises)
Il neoliberismo muoveva dall’assunto secondo cui la distruzione del sociale a beneficio di individui isolati e “manager di se stessi” avrebbe prodotto, a breve o a medio termine, un innalzamento delle condizioni materiali di tutti. In altre parole, i sostenitori del neoliberismo erano convinti – alcuni in buona fede, altri sapendo bene che la posta in gioco era combattere contro il pericolo della piena occupazione e dell’innalzamento dei salari – che l’arricchimento individuale costituiva un ideale considerato come porta d’accesso alla felicità. Essi erano persuasi altresì che pervenire ad un mondo prospero, avanzato, democratico e pacificato, comportava l’emancipazione dai lacci dello Stato e dalle costrizioni della società. Insomma, per costoro, occorreva lasciarsi alle spalle il socialismo e il comunismo ma anche la socialdemocrazia post-keynesiana del welfare e dell’intervento pubblico sull’economia.
Da anni ormai sappiamo che non è così: fin dalla crisi economica scoppiata a ridosso degli anni ‘10 del nuovo millennio, abbiamo ben compreso che il neoliberismo non funzionava affatto come i suoi sostenitori ci avevano promesso.
Tuttavia, mai come in questo periodo storico, nel tempo cioè di una pandemia che ha colpito il cuore stesso dei paesi del post industriale, abbiamo chiara consapevolezza della menzogna celata nella prassi neoliberista che purtroppo ha regnato (e regna) incontrastata nelle formazioni di destra ma anche di sinistra delle cosiddette democrazie occidentali. In questa fase storica, cioè, ci siamo resi conto (o avremmo dovuto farlo) del fatto che le privatizzazioni sono del tutto inadeguate a fronteggiare ciò di cui la società ha bisogno per reggere davanti a difficoltà che riguardano il corpo sociale nella sua interezza. Più in generale è la visione del mondo neoliberale (di questo si tratta, non soltanto di un modello di politica economica) ad aver fallito clamorosamente, implicando nella sua disfatta un’intera generazione di politici sia di destra, sia di sinistra. In questo quadro, pertanto, dato che il nostro lavoro è destinato ad esercitarsi sulla prassi storica e sulle contraddizioni della realtà, ciò che è dunque decisivo sollevare sono le incoerenze e le promesse non mantenute della visione del mondo neoliberale. È necessario cioè evocare lo stato delle cose attuali e confrontarlo con le promesse che erano servite ad una intera generazione di politici per andare al potere. Alla luce dei fatti emersi da tale confronto potremo ben dire che i decenni che ci hanno preceduto sono stati caratterizzati da scelte scellerate e spesso abiette.
Il neoliberismo prometteva un’autonomia individuale basata sulla costruzione libera del proprio sé. Il risultato è la dipendenza di tutti dai diktat della finanza internazionale e dai dispositivi della tecnica.
Il neoliberismo puntava sul dressage di un corpo proprio “salutista” che avrebbe potuto/dovuto implementare sempre più le possibilità di vivere nel modo migliore il contatto con se stessi e con l’ambiente circostante. Il risultato è l’aumento esponenziale delle malattie mentali, di angosce individuali e collettive che a stento vengono contenute con la medicalizzazione del fatto sociale, attraverso l’uso e l’abuso di psico-farmaci, di droghe e di dipendenze di varia natura.
Il neoliberismo assicurava che una crescita costante del prodotto interno lordo avrebbe senz’altro prodotto una globalizzazione sempre più intensa, rapida e soddisfacente per tutti, ma non ci aveva detto che esiste uno sviluppo diseguale, oltre che dei costi ambientali tali da riflettersi inesorabilmente sul pianeta con esiti che potrebbero risultare presto irreversibilmente drammatici. Neppure ci aveva messi in guardia sul fatto che i paesi che, per ragioni storiche o contingenti, rimangono indietro divengono prede facili da divorare, e in buona coscienza, con l’approvazione generale da parte di speculatori provenienti dai paesi ricchi e da masse convinte che coloro che vengono divorati, in fondo, viste le loro colpe (debito pubblico, politiche dissennate di spesa), meritano ampiamente di perire.
Il neoliberismo aveva dichiarato di volerci liberare dalla sclerosi elefantiaca delle burocrazie, considerate come un residuo della mentalità statalista e socialista, ma il risultato è stato invece l’aumento esponenziale delle dimensioni dell’apparato (peraltro sempre più sofisticato sotto l’aspetto tecnico) e delle sue infinite possibilità di “mettere al lavoro” le masse, spingendo costantemente alla competizione generalizzata sulla base di protocolli serializzati, formali, privi di qualsiasi efficacia sul piano dei contenuti sostanziali.
Il neoliberismo aveva trovato il suo terreno di sviluppo anche nelle culture post-sessantottine tese alla eliminazione degli autoritarismi, delle super egoità familiari, sociali, istituzionali ma abbiamo dovuto renderci conto che davvero il neoliberismo non funziona così: dopo diversi decenni di egemonia culturale sull’Occidente, abbiamo potuto ben verificare il fatto che il potere autoritario non soltanto non è stato vinto ma ha addirittura prodotto un’esigenza nuova, e sotto molti aspetti estremamente pericolosa, sempre più diffusa nelle masse, che reclama a gran voce “uomini forti” e “pieni poteri” e che giunge a contestare (di fatto) anche gli assunti più elementari dello stato di diritto e della democrazia. Di fronte alla crisi di quest’ultima, cioè, una parte robusta, non soltanto dell’elettorato, ma anche della classe politica, preferisce l’autoritarismo piuttosto che metter mano ad una seria politica di redistribuzione delle ricchezze. Ciò è stato reso possibile anche a causa del fatto indiscutibile della distruzione delle classi medie. La supremazia culturale del neoliberismo ha polarizzato come mai era avvenuto prima la società: intorno ad un polo piuttosto piccolo dal punto di vista numerico si è concentrata la gran parte delle ricchezze del pianeta, sulla polarità estrema, invece, si sono raccolti i “vinti” dalla globalizzazione: le classi medie sempre più proletarizzate, e i lavoratori sempre più precarizzati convivono con disoccupati, lavoratori in nero e una massa indistinta di reietti del sistema e nuovi poveri, per non parlare dei nuovi fenomeni migratori – esercito di riserva del nuovo schiavismo occidentale.
Ebbene, se il quadro sociologico qui impostato ha un minimo di corrispondenza alla realtà del nostro tempo, dovremmo ormai aver ben compreso la lezione che la storia ha voluto impartirci. Avremmo dovuto, cioè, renderci conto, spiace che qualcuno non lo abbia ancora compreso, che non esiste alcun individuo senza il sociale e che anzi, come già sapeva Aristotele, e come (mutatis mutandis) aveva confermato Hegel, ontologicamente viene prima la società e poi l’individuo. Mai come oggi, l”umanità costituisce un insieme non frantumabile né scomponibile, sia sul piano nazionale sia globale; mai come oggi, ciò che accade a Nairobi può avere un impatto su Oslo, su Milano o su Shangai. Bisogna allora convincersi che le idee sciagurate del neoliberismo e dei suoi sostenitori hanno conseguito soltanto esiti drammatici nel corpo (pur esistente) delle società occidentali, hanno slabbrato i rapporti, indebolito le istituzioni e, invece di produrre ricchezza, autonomia ed emancipazione, hanno prodotto soltanto giovani senza futuro, precarietà, infelicità generalizzata e incapacità di affrontare adeguatamente le avversità che il mondo inevitabilmente riserva agli esseri umani.