Oramai è ufficiale. Dio è morto. E ad annunciarlo è stato il Papa. Non in un’enciclica “urbi et orbi”; ma nel corso di un appuntamento domenicale.
Stiamo parlando dell’Economist. E del suo editoriale del 28 marzo. Una pagina per prendere atto che il mondo nato trent’anni fa e destinato, così si diceva, ad una vita eterna, non c’è più. Finita la globalizzazione, con le infinite reti che la strutturavano. Finita ( forse perché mai realmente esistita) l’autonomia dell’economia rispetto alla politica o meglio la dipendenza della seconda rispetto alla prima. Finita l’ortodossia economico-finanziaria con le sue regole e i suoi custodi. Finito, anzi definitivamente sepolto, l’ordinamento liberale nella sua ipotesi di fondo: l’ estinzione, per irrilevanza, degli stati nazionali.
Finita, soprattutto, un’intera epoca storica. Anzi sepolta per sempre. Perché, da oggi in poi, il pendolo tenderà verso una direzione del tutto opposta. Una direzione di cui il settimanale ( come tutti noi) coglie facilmente il protagonista; ma non la natura e i possibili sbocchi. Così da dedicare all’annuncio una pagina; ma non, come sarebbe necessario, l’intero numero.
E si capisce anche il perché. Il cantore della democrazia liberale ( anche in questo caso, l’aggettivo fa nettamente premio sul sostantivo) sta guardando la scritta sul muro; e chiude gli occhi terrorizzato. Vede lo stato padrone dell’economia; ma vede anche lo stato padrone della vita dei suoi cittadini. Dovrebbe vedere anche una cosa che a noi è ben chiara, la crescita esponenziale delle disuguaglianze e ad ogni livello; ma sarebbe chiedergli troppo.
Guardiamola allora noi, la scritta sul muro. E senza distogliere lo sguardo. Perché la pandemia sarà tra noi ancora per molto tempo. Cambiando in profondità tutte le regole del gioco. E perché le scelte che compiremo nel “durante”saranno decisive nel determinare il “dopo”.
E queste scelte, attenzione, non si collocano lungo la scala del “più o meno” ma in termini di “o/o”. Magari per arrivare, a partire da questa base, ai necessari compromessi. O/o: chi difende il diritto alla salute per tutti i cittadini contro chi considera prioritaria la ripresa economica; chi considera prioritaria la lotta contro l’esplodere delle disuguaglianze contro chi considera il tema secondario se non irrilevante; chi guarda con speranza al ritorno di uno stato protagonista dello sviluppo economico e sociale contro di chi si muove per ritornare all’ordine di prima; chi sogna uno stato garante e promotore della democrazia contro chi opera per uno stato autoritario e onnipotente; chi sostiene la centralità del servizio pubblico contro chi vorrebbe sostituirla con erogazioni momentanee per i bisognosi; e, infine, chi opera in vista di un internazionalismo solidale contro i cultori e praticanti della lotta di tutti contro tutti.
Uno scontro. Tanti scontri. Un dramma. Tanti drammi. Il cui svolgimento e la cui “visibilità politica” dipenderanno dalla natura e dalla consistenza delle forze messe in campo.
Alcune le vediamo in azione e le conosciamo quindi perfettamente. Conosciamo Trump. E i suoi collaboratori. Le loro cieche sanzioni; l’America prima di tutto; la loro attenzione alle esigenze dell’economia e il loro disinteresse per la salute dei propri concittadini. Conosciamo Orban e i suoi tanti attuali e potenziali imitatori; e vediamo come in tanti stati del mondo, dall’Europa dell’est, al Medio oriente, all’Asia meridionale, all’America latina, la crisi del coronavirus è vista come un’occasione d’oro per limitare al massimo libertà, democrazia e diritti. Ma conosciamo anche le anime morte; prime tra tutte i poteri forti d’Europa disposti a concedere libertà d’azione e di spesa agli stati in difficoltà, ma sperando che si tratti di una concessione momentanea e negandosi stupidamente a solidarietà collettive.
A nostro favore, almeno per ora, soltanto l’evidenza dei fatti e l’evolvere delle coscienze. Un conto sentirsi snocciolare da emeriti studiosi dati statistici sulla povertà e sulle disuguaglianze nel mondo. Tutt’altro conto è vedere gli indiani che fuggono dalle città per rifugiarsi sugli alberi dei loro villaggi in assenza di altri luoghi in cui andare; o i senza tetto di Los Angeles allineati in parcheggio all’aperto della città e a distanza di sicurezza; o i rider attaccati nelle città italiane per rubargli le pizze e non certo ad opera della criminalità organizzata o dei cinesi. Tre, quattro, poche immagini che non riescono ancora a scuoterti; ma quando saranno cento e mille o ti metterai a piangere o ti dirai “dobbiamo fare qualcosa”.
A nostro favore il numero crescente di “pentiti”. Parliamo di quanti – politici, studiosi, opinionisti, operatori economici e sociali- hanno cantato le lodi delle “magnifiche sorti e progressive” susseguenti alla caduta del muro e che oggi hanno cambiato idee e orientamenti e riscoperto antichi valori. Un fenomeno molto più consistente di quanto si pensi. E che non va assolutamente sottovalutato e men che meno disprezzato. Dopo tutto, se San Paolo non fosse stato colpito sulla via di Damasco, il messaggio cristiano avrebbe fatalmente tardato ad assumere la sua dimensione universalistica. Mentre senza il compromesso tra capitalismo e democrazia non ci sarebbero stati i “trenta gloriosi” del secondo dopoguerra. E, fatto che ci riguarda più direttamente, senza Roosevelt non ci sarebbero stati né il “new deal” né la lotta vittoriosa contro il nazifascismo, né il “welfare state”.
“Noi, nostri”: ma di chi e di che cosa stiamo parlando ? La domanda è non solo legittima ma essenziale per chi voglia capire la situazione in cui viviamo. E agire di conseguenza.
E la risposta è: “con la parola noi intendiamo parlare della cultura universale del socialismo democratico che aggiunge alla parola libertà quella di eguaglianza e soprattutto di fraternità. E a quanti, nel mondo, pensano, agiscono, lottano e soffrono per difendere questi valori. E quando parliamo di sinistra, quanti, provenienti da altri orizzonti politici e culturali, sono disposti a battersi al loro fianco contro i fautori del vecchio ordine e contro la barbarie incombente. Ma non certamente ai socialismi e alle sinistre ufficialmente presenti sulla scena. E per il semplice fatto che questi sono diventati simulacri privi di vita.
Lo sono diventati dal giorno in cui hanno cessato di scommettere sul loro futuro perché convinti della vittoria del loro tradizionale antagonista, il capitalismo finanziario, globalizzato e, come dire, convinto della propria autosufficienza. Convinzione curiosamente condivisa da una sinistra radicale, afflitta, non a caso, dalla stessa impotenza.
Da allora in poi, tutti separati l’uno dall’altro. E tutti portati a giocare nel giardinetto di casa, sotto sorveglianza e fino all’ora di cena; e senza impicciarsi minimamente di quello che stava avvenendo all’esterno.
Un’impotenza procurata. Che li ha resi tutti, dico tutti, incapaci sempre di capire ciò che stava accadendo, dalla crisi del 2007/2008 in poi; e di reagirvi nel modo giusto.
Oggi, nell’era del coronavirus- sono passati due/tre mesi e sembra un’eternità – abbiamo sentito migliaia di voci; ma praticamente nessuna che fosse oltre il minimissimo sindacale da parte della sinistra ufficialmente iscritta all’albo.
E allora, la “sinistra che verrà” non nascerà da quella ufficiale. Perché non avrà la fisionomia partitica ma piuttosto quella di un fronte costituito dal comune sentire di aree diverse tra loro. Perché avrà, necessariamente, una dimensione internazionale e internazionalista. Perché non nascerà da accordi di vertice ma sarà il frutto della crescita di tanti movimenti e di tante esperienze separate. Perchè suo fattore determinante sarà il crescere dell’indignazione e della protesta suscitata dall’enormità delle sofferenze dei governati rapportata alla cecità criminosa dei governanti; fino al grido liberatore del “mai più/nunca mas”. E, infine e soprattutto, perché crescerà e si solidificherà lungo la discriminante tra cultura della solidarietà e quella della barbarie.
Una scommessa, magari a 50 o a 100 contro uno ? Un’utopia ? Un mito ?
Semmai, un’idea/forza; l’unica a nostra disposizione.
Fonte foto: Flickr (da Google)