STATI UNITI
Il partito democratico dopo l’Iowa
“Chi vince nell’Iowa vince negli Stati Uniti”. Vero per Obama nel 2008. Vero per Trump. E, a dire dei giornali, vero anche in molte altre occasioni. Pure lo Iowa (come il New Hampshire che lo segue a ruota) è uno staterello da niente. Pochi abitanti. Quasi tutti bianchi. E, per giunta, agricoltori. Niente che attragga il sociologo o il politologo.
Perché, allora, vincere nell’Iowa è così importante? Forse la cosa ha a che fare con l’idea stessa della democrazia, così come espressa in immagini dagli artisti dell’età rooseveltiana: non le grandi manifestazioni di massa, cortei che sfilano, l’oratore che parla e la folla che l’ascolta rapita; piuttosto una piccola aula dove più dell’oratore che spiega, spicca l’uomo del popolo (potrebbe essere un contadino oppure un operaio) che alza la mano per dire la sua o per fargli delle domande. Le primarie nel nostro piccolissimo stato sono state più o meno questo: tutti i candidati a percorrere tutti i suoi piccoli angoli; piccoli gruppi di cittadini ad ascoltarli e a fargli delle domande.
Ma è proprio in questo quadro che il partito democratico ha mancato all’appuntamento. E non per via delle macchinette. Ma piuttosto della scarsa partecipazione, leggi capacità di mobilitazione (più o meno pari a quella dei repubblicani che avevano praticamente un solo candidato e che l’hanno votato al 97%); e per un verdetto elettorale all’insegna dello stallo, leggi della paralisi.
Le “criticità” (uso questo termine per la prima e ultima volta…) riguardano il campo “moderato”, leggi l’establishment clintoniano. La campagna per l’impeachment si è conclusa con un totale fallimento. Nessunissima breccia tra i repubblicani (a parte il caso Romney) oramai totalmente ricompattati, e a tutti i livelli, intorno a Trump. Nessun riflesso sulla pubblica opinione, dove il consenso per Donald è rimasto inalterato (tra il 45 e il 50%) e magari è leggermente cresciuto. Nessun interesse per la materia del contendere così come definita dalla procedura d’impeachment (nell’Iowa come nel resto del paese). E, soprattutto, nessunissima ricaduta positiva su Biden: nell’Iowa in zona retrocessione, surclassato da Buttigieg e con l’ombra di Bloomberg all’orizzonte.
Nello stesso Iowa, per inciso, i consensi raggiunti dal duo Sanders/Warren (intorno al 45%) sono tre volte più alti di quelli di Biden; e leggermente superiori a quelli Biden/Buttigieg (che però, come vedremo, non appartengono allo stesso campo, checché ne dicano gli opinionisti).
Comunque vadano le cose, l’Iowa segna il definitivo tramonto della strategia politica incarnata da Hillary. La Nostra dedicò tutte le sue energie, in forma lecita ma anche illecita, prima a sconfiggere Sanders, poi a delineare una piattaforma programmatica che non tenesse alcun conto delle sue proposte. Convinta che così facendo, il resto (leggi, sconfiggere Trump) sarebbe stata una passeggiata. Ma vale, a questo punto, e la cosa è chiara a tutti che “si può sbagliare una volta; ma che perseverare sarebbe non solo diabolico ma rovinoso”.
Biden, naturalmente, spera ancora. Nel voto nero. E nell’”endorsment” della gente che conta (anche se l’unico veramente importante, quello di Obama, non l’avrà). Ragiona come Hillary che sommava i voti in termini di categorie: “bianchi acculturati, gente di città, più neri, più ispanici, più madri che accompagnano i figli che giocano a calcio e, oplà, il gioco è fatto”. Ma le cose non hanno funzionato e non funzionano più così.
Ciò significa che, in assenza di qualsiasi ricomposizione politica, si arriverà alla Convention di luglio senza un vincitore e senza un indirizzo politico chiaro.
E qui il problema principale sarà la capacità del candidato presidente non soltanto di mobilitare (dove la sinistra prevale nettamente sulla destra) ma anche di aggregare (terreno su cui sono ambedue deficitarie). Potrebbe rispondere alla bisogna un nuovo candidato emerso dalla convention; ma si tratterebbe di una scommessa molto rischiosa. Potrebbe esserlo Buttigieg. Un candidato di cui è difficile pronunciare il nome: ma che, comunque, non rientra in nessuno degli schemini che gli sono stati appiccicati addosso: dal “Mister Smith che va a Washington” sino a quello del pragmatico moderato e terra-terra senza fronzoli o condizionamenti ideologici.
Il nostro sembra piuttosto un incrocio tra Kennedy e Obama: del primo l’aspetto, l’età, la baldanza giovanile e la condizione minoritaria (ieri cattolico, oggi gay). Del secondo l’essere un intellettuale (otto lingue, due lauree ad Harvard e a Oxford, la netta propensione alla riflessione politico programmatica, un padre grande cultore di Gramsci), capace di contestare, da ogni punto di vista, il presidente uscente, la sua ideologia ma anche il bilancio e le strategie della sua amministrazione. A naso, nulla che possa renderlo invotabile dalla componente moderata; e nulla che possa impedire la mobilitazione a suo favore della sinistra radicale.
Staremo a vedere.
MONDO
FASTI E NEFASTI DELL’INTERNAZIONALE NAZIONAL-POPULISTA
I VIAGGI DI GIORGIA MELONI
Una foto con il presidente degli Stati Uniti vale, per un politico italiano, più o meno come un attestato di frequentazione a un corso per un qualsiasi cittadino italiano. Non è che ti garantisca il successo; ma senza di quello non vai da nessuna parte.
In questo quadro, incontrarsi con Trump, di più “risultargli simpatico”, è diventato un vero e proprio oggetto del desiderio. Per risultare poi un miraggio (vedi Salvini) o, peggio, una patacca invendibile (vedi Macron e poi Johnson, ambedue convinti di avere sedotto the Donald per esserne stati poi completamente abbandonati).
La nostra Meloni è stata invece assai più furba. Anche perché meglio consigliata. Così da preferire a un fugace incontro con il Capo, un posto di rilievo tra i suoi sostenitori più accreditati.
E’ in questa veste che, preventivamente accreditata, ha partecipato, in rappresentanza del centro-destra italiano, al National Prayer Breakfast. Che non è una variante bizzarra del Giorno del Ringraziamento ma l’occasione per il raduno dei gruppi, quasi tutti evangelici, quasi tutti portatori del Verbo nazional-populista di Bolton come ideologia e trumpiani come riferimento politico; e, soprattutto tutti reazionari.
In questa veste ha fornito ai suoi ascoltatori le opportune informazioni sulla situazione italiana. Rassicurandoli in merito alla frequentazioni russe di Salvini: il Nostro rimane amico e alleato di Donald; e i rapporti con Mosca potrebbero tornare buoni se e quando la crociata anti islamica dovesse tornare all’ordine del giorno. In quanto a Conte,Trump non deve assolutamente fidarsi di Giuseppe: subalterno rispetto all’Europa, connivente con i cinesi , aperto ai migranti e, soprattutto, capo di un governo che più di sinistra non si può.
Più o meno nello stesso periodo Ernesto Galli della Loggia ha invitato l’Italia a schierarsi con gli Stati Uniti. Loro e non l’Europa sono stati e sono i nostri veri amici.
Fossi al posto di Conte, non ne sarei così sicuro.
BOLSONARO
Il trumpismo, leggi il nazional-populismo reazionario (sempre culturalmente e spesso anche socialmente), è diventato, da subito, un punto di riferimento internazionale. Sia per chi ne aveva anticipato gli indirizzi, adattandoli alle varie realtà nazionali (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Turchia, India); e, almeno sinora, con successo. Sia per chi “è venuto dopo” (il Brasile) deciso a seguire in tutto e per tutto gli insegnamenti del Maestro (definito dal ministro degli esteri di Bolsonaro salvatore dell’anima dell’occidente”) e in chiave compiutamente reazionaria; ma, almeno per ora, con un sostanziale insuccesso.
Un insuccesso che si potrebbe sintetizzare nella capacità (oltretutto parziale) di distruggere il Brasile moderno, nato e cresciuto all’indomani del crollo delle dittatura militare (ortodossia finanziaria, unita a forti politiche di redistribuzione, multiculturalismo, indigenismo, statalismo, egemonia culturale della sinistra, creazione di un “soft power” a livello internazionale); ma nella totale incapacità di costruire alcunché al suo posto.
Tutto ciò era, in qualche modo, scritto sin dall’inizio. Dove il Nostro ha potuto avvalersi della versione brasiliana di Mani Pulite, nata come ribellione dei ceti medi poco riflessivi e da subito indirizzata contro la sinistra, corrotta perché statalista, dal Di Pietro locale. Salvo a vedere, di lì a poco, il giudice Moro, figura centrale dell’operazione, colto con le mani nel sacco e la stessa lotta alla corruzione perdere indirizzo e rilevanza.
Così come si sono perse per strada liberalizzazioni e privatizzazioni, modello Thatcher/Pinochet ; anche perché osteggiate dal Brasile profondo (burocrazia, militari) ostile, certo, alla sinistra e a Lula ma non fino al punto di vedere danneggiati i propri interessi; per tacere di un parlamento, in cui il partito il Bolsonaro è presente ma molto lontano dall’essere maggioranza.
Ancora, sul piano internazionale, il nuovo Brasile ha esplicitamente rinunciato al suo ruolo di “soft power, al costo di smantellare un apparato diplomatico e culturale che era tra i primi del mondo. Ma senza riuscire a diventare il primo tra i seguaci di Trump. Per ora niente ambasciata a Gerusalemme; ne va delle vendite di prodotti alimentari nei paesi arabi. E, ancora, niente faccia feroce nei confronti della Cina; il Brasile dipende da Pechino per il 30% delle sue esportazioni. E, infine, nessun aiutino militare per ristabilire la libertà in Venezuela: è da 150 anni che il Brasile non muove guerra ai suoi vicini; perché dovrebbe cominciare a farlo adesso?
Cosa resta, allora? Resta la guerra. Dei violenti, dei prepotenti e delle varie lobby che li sostengono contro i senza terra, gli abitanti delle favelas e coloro che li sostengono. Dei “valorizzatori” – proprietari di mandrie, investitori locali (quelli internazionali si tengono alla larga), avventurieri, missionari evangelici – contro l’Amazzonia e i custodi del suo habitat. Dei ricchi contro i poveri. Degli evangelici contro la Chiesa cattolica. Dei tagliatori di teste, alla caccia del pensiero socialista, che dico, marxista, nelle università dei crociati culturali: difensori di un arte che “o sarà eroica e nazionale o non sarà” (affermazione ripresa paro paro da Goebbels), negazionisti del razzismo e sostenitori dei benefici della schiavitù, nemici della musica rock “che porta all’aborto, al satanismo e alla perversione” (non stiamo parlando di predicatori da strapazzo ma, rispettivamente, del segretario addetto alla cultura, del presidente della fondazione per la valorizzazione della cultura afrobrasiliana e del presidente della fondazione per l’arte; tutti nominati da Bolsonaro, tutti rimossi per iniziativa della magistratura e del Parlamento). E, in definitiva, dei nostalgici della dittatura militare e oppositori fanatici della democrazia brasiliana.
L’esito di questa guerra è incerto. Anche per la presenza, nella società brasiliana, di consistenti anticorpi.
A cose fatte, rimarranno comunque tante rovine. E l’eco di tanti colpevoli silenzi.
MALATTIE, INFETTIVE E NO
Siamo tutti angosciati per il coronavirus. Ma, se questo ci può consolare, c’è, come si diceva una volta, “gente che sta peggio di te”.
E’ il caso dell’Ebola – 3500 casi, 2200 morti – che sopravvive, forse in qualche foresta sperduta nel Congo, dove medici e vaccini non possono arrivare, grazie al “combinato disposto” di “no vax” e signori della guerra.
E’ così per il morbillo: 140 mila morti in tutto il mondo, 70 mila nuovi casi, presente anche in Ucraina; ma qui c’è il vaccino.
E’ così per la malaria: 220 milioni di casi nel mondo, 450 mila morti, sempre nel 2018 ; senza vaccino.
E’ così per l’Aids: 40 milioni di sieropositivi; però per due terzi in Africa. Valore del vaccino soggetto a discussione.
Così le case farmaceutiche per lo più in cattive acque; e poco disposte a investire sui vaccini.
Il tutto mentre il cancro avanza: 18 milioni di nuovi casi diagnosticati nel mondo nel 2018 (+20% rispetto al 2012), con 9.6 milioni di morti; numero destinato a crescere nei prossimi due decenni del 60% ma soprattutto nei paesi più poveri. Fattori determinanti: fumo, obesità.
Insomma, una quantità di gente che si ammala e che muore. Ma che, nella stragrande maggioranza dei casi, abita in paesi lontani. Tanto che, a darci le ferali notizie, è solo Il Manifesto.
BUONE NOTIZIE
RUANDA, CHI PARTE DA LONTANO VA PIANO MA ARRIVA SANO
Centinaia di profughi. Ma in un ambiente tranquillo e ampiamente accuditi. Sono neri. Vengono da vari paesi dell’Africa. Ma tornano dall’inferno dei campi libici. E non grazie alla resipiscenza dei vari Minniti ma in virtù di un accordo tra l’ Organizzazione per i Rifugiati e l’ Unione degli Stati Africani. Accordo successivamente raggiunto, assieme alla verifica del loro status, con diversi paesi europei disposti ad accoglierli.
Un metodo destinato ad essere riproposto in futuro? Questo, Le Monde non ce lo dice. Ma la sua è certamente una buona notizia.
FMI E PRESTITO ALL’ARGENTINA
Molti di noi si sono chiesti come mai il Fondo Monetario Internazionale, garante magari duro ma sempre indiscusso della moralità finanziaria nel mondo, abbia gettato dalla finestra quasi sessanta miliardi per venire in soccorso dell’Argentina, debitore insolvente seriale.
Ora il Financial Times ci spiega in poche parole l’arcano. Semplice: l’aveva chiesto, di persona, Trump alla Lagarde. Promettendo in cambio fondi consistenti per l’urgente ricapitalizzazione del fondo. Salvo rimangiarsi la promessa una volta ottenuto ciò che voleva…