Checché ne dicano chirurghi plastici e mercanti di lozioni, ringiovanire è impossibile, eppure gli esiti delle elezioni di domenica 26 gennaio sembrano riportarci indietro nel tempo di una quindicina d’anni, con i due partiti egemoni degli allora centro-sinistra e centro-destra che si accaparrano una presidenza di Regione a testa, e l’arrembante Lega di Salvini rimasta malinconicamente a secco.
Il fustaccio Bonaccini ci ha messo del suo (e le Sardine mediatiche hanno dato una bella pinna), ma che il Partito Democratico esca vincitore dalla competizione è indiscutibile: rafforzato dalla provvidenziale fuoriuscita dei renziani (dichiarati) accresce in Emilia-Romagna voti assoluti e percentuali rispetto alle Europee, mentre in Calabria si consola della batosta rimediata da Callipo confermandosi primo partito. Non sará stato un trionfo (che nessuno peraltro pronosticava), ma il contenimento della Lega é un’iniezione di fiducia per elettori ed eletti e, cosa più rimarchevole, la dirigenza ha rispolverato con successo il vecchio schema di un centro-sinistra monocentrico, con sulle ali formazioni allineate ma in grado – avanzando proposte “diverse” soltanto nella forma espressiva – di intercettare segmenti di elettorato diffidente o sfiduciato. Sarei anzi tentato di dire che la copia é meglio dell’originale, poiché eurodeputate “coraggiose” e sguscianti sardine si riveleranno assai piú organiche e malleabili di PRC e IdV, se non altro perché diretta emanazione di una forza progressista (o sedicente tale) di cui condividono appieno i “valori”. La prova é stata superata: questo contava davvero, e adesso le elezioni anticipate diventano – per il PD, s’intende – un’opzione praticabile senza eccessivi tremori.
Assegnare la palma del (secondo) vincitore ad un partito in Emilia quasi azzerato (2,6%) puó suonare sarcastico, ma Forza Italia ha messo a segno un triplice colpo: imporre una propria candidata alla presidenza calabra, vederla stravincere e piazzarsi al secondo posto fra le liste, superando al fotofinish la Lega. Niente male per una forza politica data per defunta, ma anche qui merita allargare lo sguardo dall’albero alla foresta: l’exploit difensivo di FI fa il paio con il nuovo, silenzioso balzo in avanti di FdI, guidati con mano sicura da una Meloni emula di Quinto Fabio Massimo. Assieme ai suoi Fratelli, Giorgia é stata sdoganata da firme autorevolissime e influenti – a Mieli ha fatto eco il Times – scoprendo negli ultimi mesi una vena “moderata” che ha colto di sorpresa un po’ tutti (gli altri). Ha imparato anche a giocare con maestria la carta dell’essere donna (e, quando serve, vittima), una sorta di asso di questi tempi, ed é pronta a competere con Salvini per la leadership di un nuovo centrodestra che, nel medio termine, potrebbe assumere una fisionomia più centrista e meno sbilanciata sulla Lega. In quest’ottica la risalita – perlomeno in meridione – di Forza Italia é per lei un’eccellente notizia, mentre prosegue con juicio lo smarcamento da Salvini.
É quest’ultimo, a mio avviso, ad aver incassato la sconfitta più amara. I numeri raccontano un vistoso arretramento leghista rispetto alle elezioni 2019 in ambo le regioni, ma le cifre non dicono tutto: tacciono ad esempio sul fatto che in Emilia Romagna il nostro ha inconsapevolmente imitato il suo omonimo Renzi, trasformando la competizione in un referendum sulla sua persona – un referendum da cui é uscito nettamente battuto, malgrado autoconsolatorie dichiarazioni del giorno dopo che ricordano anch’esse la reazione dell’ex premier all’esito referendario di quattro anni orsono. Ad attenuante di Salvini va riconosciuto che nella vicenda emiliana la personalizzazione della sfida non é stata dettata solo da autolesionistica tracotanza: il leader leghista aveva assoluto bisogno di un’affermazione per mettere in mora la maggioranza parlamentare e procurarsi (o tentare di procurarsi) elezioni subito, in un momento in cui la sua popolaritá é ancora elevata e gli alleati in condizione di minorità. Gli é andata buca, e immagino che ad avvilirlo vieppiù sia stato il compiacimento esibito dai “mercati” (subito enfatizzato dai media) per il risultato emiliano-romagnolo e la rielezione di Bonaccini. Nonostante le recenti professioni di servilismo atlantista e il mettersi sull’attenti dinanzi a Israele, che svelano a qualsiasi persona raziocinante la grottesca inconsistenza del suo “sovranismo” da sagra, il Matteo verde non gode di alcun sostegno internazionale ed é guardato anzi con il fastidio che si riserva a una petulante macchietta. Se il governo dura – e questo si augurano un po’ tutti, osservatori compresi – la sua stella é destinata ad offuscarsi ben presto. La battuta d’arresto di gennaio, seguita ad altre mosse rischiatutto ma – mi ripeto – in qualche misura necessitate, potrebbe far girare il vento in suo sfavore, primo perché gli italiani (storicamente portati a infatuarsi dei vincitori) non perdonano le sconfitte, secondo perché a lungo andare tendono a stufarsi di quanti, senza aver davvero la situazione in pugno, si ergono a primattori monopolizzando la scena. La stessa crisi di rigetto manifestata nei confronti di Renzi potrebbe insomma colpire anche un Salvini quotidianamente nel mirino della stampa e – oramai – pure di alleati sempre più insofferenti. Il probabile calo della Lega porterebbe ad un riassetto di quell’area politica favorendo la nascita di un centro-destra policentrico e “moderato”, cioé atlantista, europeista, “brussellese” e senza velleità innovatrici.
Si tornerebbe insomma alla staffetta tra due aggregazioni alternative nella comunicazione ma non nella sostanza, ambedue d’ordine e liberiste: due destre intercambiabili, in sintesi.
Sempre meglio del “fascista”, belerá qualche anima candida…
In questo quadro non residua spazio per il M5s, oggi in pieno disfacimento e privo di ogni bussola. I colpi ricevuti sono concentrici e micidiali: alla duplice debacle elettorale si accompagna il quotidiano stillicidio di parlamentari in fuga o cacciati prima di aver sbattuto la porta. A defilarsi – con evidente sollievo – é stato anche Di Maio, probabilmente per insanabili contrasti con un Beppe Grillo che punta, per ragioni ignote, a fare della sua creatura un ulteriore satellite del PD. Un voltafaccia arduo da capire, quello del Garante (della dissoluzione?), che indebolisce ancor più la posizione dei suoi di fronte ad un PD ringalluzzito e seriamente tentato di imporre all’esecutivo una decisa virata normalizzatrice, cioé a destra (niente revoca per i Benetton, congelamento della prescrizione, picconate al reddito di solidarietà ecc.). Come reagiranno gli sbandati grillini? Se cedono sono perduti, ma la via d’uscita di nuove elezioni é loro preclusa: come ha spiritosamente osservato qualcuno, la regola dei due mandati sarebbe applicata direttamente dagli elettori, e per evitare di ritornare a Roma da turisti immagino che moltissimi fra i “cittadini” presenti in Parlamento sarebbero più che disponibili a passare direttamente o indirettamente a un PD di nuovo in forze e capace di garantire poltrone e strapuntini. Tra i maggiorenti il solo (malsopportato) Di Battista avrebbe concreto interesse a far saltare il banco per ritagliarsi un movimento di lotta, gli altri potrebbero optare, in nome del primum vivere deinde philosophari, per mantenere un profilo basso e cedere ai democratici su quasi tutto, ottenendo in cambio qualche riconoscimento di facciata (ad esempio un qualche appoggio su regole anti vitalizi e referendum confirmativo, il ridimensionamento ma non la cancellazione del reddito et similia). Questa soluzione, equivalente ad un sicuro suicidio politico ma tale da assicurare sopravvivenze personali (a termine), farebbe da prodromo ad un ritorno all’ordine pre-crisi: dopo il 2009 i 5stelle sono riusciti a incunearsi in uno spazio temporaneamente non presidiato dalle forze politiche tradizionali che adesso, complici l’apparente mansuetudine di una UE sempre invece in agguato e la stanchezza di una cittadinanza pigra e disincantata, si va riducendo fino a scomparire.
Questo rientro nei ranghi é ovviamente una pessima notizia: chi oggi, in molti casi a ragione, critica ferocemente i “grillini” abbandonati da Grillo, si ritroverà ben presto a rimpiangere loro e l’anomalia tripolare che bene o male l’apparizione del movimento ha prodotto.
Se non altro l’eclissi dei 5stelle cancella anche un’illusione che in molti avevamo cullato: quella secondo cui, svaniti loro, si sarebbero aperte praterie per la sinistra d’ispirazione marxista. No, non occupavano il “nostro posto”: a disilluderci é la performance miserrima, nella regione “rossa” per eccellenza, dei partitelli che di quella tinta esibiscono, sulle loro bandiere, sfumature che vanno dal fucsia al rosso antico. Il PC ha fatto peggio di una setta no vax, e ho detto tutto: la Storia testimonia che le rivoluzioni sono quasi sempre opera di minoranze agguerrite e coese ma cospicue, mai di gruppetti sparuti.
Di questa rovina della sinistra ne discuteremo prossimamente: anticipo soltanto che a parer mio il problema non sta tanto nella qualità dell’offerta, senz’altro variegata, ma nella totale assenza di domanda da parte dei cittadini italiani che, se si accorgono di noi, é solo per rivolgerci ironiche frecciate che richiamano alla mente i giudizi beffardi di Sobakov, cagnaccio trasformato in proletario, sullo scambio epistolare fra due “professoroni tedeschi”.
Ribadisco ció che scrissi all’indomani delle Europee: neanche stavolta possiamo dirci sconfitti, essendo rimasti semplici spettatori.
Fonte foto: (da Google)