Pubblichiamo volentieri questo interessante articolo di Giusi Piras sul fenomeno dei cosiddetti “Hikikomori” pur non condividendone le conclusioni.
Se, infatti, la critica al sistema capitalista (che produce il fenomeno degli “Hikikomori”) che ella stessa propone è senz’altro condivisibile, sostenere poi che, cito testualmente “L’articolo non vuole inneggiare a radicali (e ormai improponibili) sovvertimenti dell’ordine sociale semmai riconoscere l’importanza imprescindibile del pensiero critico, della cultura dell’accoglienza, tolleranza e solidarietà” è quanto meno contraddittorio. Non solo, testimonia una “cultura” della sconfitta, dell’impossibilità della trasformazione dello stato di cose presente che a mio parere finisce inesorabilmente per vanificare quella critica.
Denunciare e criticare le contraddizioni di un sistema di dominio sociale dando a priori per scontato che sia illusorio pensare ad un suo ipotetico e futuro (anche remoto) superamento, significa indebolire fortemente quel sia pur valido approccio critico.
L’attuale sistema capitalista trae la sua forza proprio da questo assunto che si fonda sul concetto dell’impossibilità del suo superamento. Il capitalismo è stato, per così dire, “ontologizzato”, concepito non più come una forma storica dell’agire umano ma, appunto, come una sorta di condizione ontologica, naturale, e quindi non trasformabile, non superabile. Partendo da questo postulato la politica è stata da tempo ridotta ad una ancella dell’economia (capitalista) e del mercato, e tutto il resto (filosofia, psicologia, arte) ad una sorta di innocuo carosello di opinioni. Per la serie: “Dite pure tutto quello che volete tanto il capitalismo, in quanto condizione ontologica, vero e proprio stato di natura, non è trasformabile né superabile”. Tutt’al più, al massimo, tiepidamente riformabile, e questo è di fatto l’orizzonte (molto micro) in cui si muove l’autrice dell’articolo.
Io penso invece che oggi sia tornato il momento di mettere in campo una rinnovata “idea forte” di trasformazione radicale della realtà che deve affondare le radici nella migliore tradizione (non può esistere un’idea forte senza solide radici…) di quello che fu il Movimento Operaio in tutte le sue declinazioni storiche, politiche, filosofiche e ideologiche (mantenendo, attualizzandolo, ciò che è giusto mantenere, e liberandosi in via definitiva di tutto ciò che si è rivelato sbagliato e anche dannoso…) e, soprattutto, deve essere in grado di interpretare lucidamente le nuove contraddizioni prodotte dal sistema capitalista (tecnocapitalista?…).
Sono state le “idee forti” a cambiare il mondo, dal Cristianesimo delle origini all’Illuminismo, fino al Socialismo e al Comunismo e non le “idee deboli” che finiscono inevitabilmente per essere funzionali al “padrone del vapore”, specie quando questo “padrone” è un sistema di dominio complessivo (sociale, economico, culturale, psicologico ecc.) altamente complesso e sofisticato come quello capitalista attuale, molto abile a sussumere le critiche che gli vengono mosse.
Per il resto, il focus acceso dall’autrice su questo inquietante e nuovo prodotto del capitalismo che è il drammatico fenomeno umano e sociale degli “Hikikomori” è prezioso e condivisibile. E per questo la ringrazio.
(Fabrizio Marchi)
Di seguito l’articolo:
A cominciare dagli anni ’70-’80 in Giappone si è sviluppato un fenomeno sociale che coinvolge un numero sempre crescente di giovani che interrompono le comunicazioni con la realtà sociale e si ritirano nella propria stanza, rimanendovi ininterrottamente per lunghi periodi. Tamaki Saito, psichiatra giapponese, nei primi anni ’90 li ha definiti “Hikikomori”, una parola che significa “stare in disparte, ritirarsi”. Molti di loro hanno abbandonato la scuola e sono disoccupati, preferendo rimanere isolati dalla vita reale al punto da costituire un serio problema sociale.
Saito fu colpito dal numero di genitori che cercavano il suo aiuto per i figli che avevano lasciato la scuola e si erano nascosti in casa per mesi e a volte anni. Questi ragazzi provenivano spesso da famiglie della classe media, erano quasi sempre maschi e l’età media del loro ritiro era di 15 anni.
Saito riconosce in questi ragazzi profonde paure sociali, un estremo conflitto tra la voglia di uscire nel mondo, fare amicizia o amare e l’incapacità di farlo. Scelgono di non affrontare l’agone sociale, lavorativo e scolastico, come male minore. Quando ha iniziato la sua ricerca, il ritiro sociale non era un fenomeno sconosciuto, ma è stato inquadrato dagli esperti sanitari come un sintomo di altri sottostanti problemi psicopatologici piuttosto che un modello di comportamento peculiare e a sé stante.
Tale comportamento sembrerebbe rispondere a un disagio della contemporaneità che lo psichiatra e psicoterapeuta Daniele La Barbera così definisce “nella società attuale, attraversata da dinamiche di mutamento culturale profonde, rapide e incessanti, il disagio psichico tende a esprimersi in forme insolite rispetto al passato, assume connotazioni di comorbilità complesse e comporta anche l’emergere di nuove aree cliniche che evidenziano il forte impatto che il cambiamento psicosociale esercita sull’equilibrio emotivo dell’individuo postmoderno e sulle sue capacità di adattamento” (2010).
Le difficoltà nelle relazioni interpersonali a qualunque livello e di qualunque tipo costituiscono un filo comune che lega le molte forme assunte dal disagio nella contemporaneità e il fenomeno Kikikomori rientra nel novero a pieno titolo.
Il fenomeno, inizialmente considerato come specificatamente collegato alla cultura nipponica, ormai si è esteso ad altri stati del mondo e anche all’Italia. Per quanto riguarda il nostro paese, le ultime stime parlano di oltre 100 mila casi di hikikomori con una percentuale di maschi di circa il 90% (Crepaldi, 2019). Gli studi interculturali sono difficili da realizzare e dati significativi per comprendere l’impatto del fenomeno sulla società sono scarsi (Furlong, 2008). Uno dei principali problemi è la molteplicità causale e fenomenologica del ritiro sociale e non c’è consenso sulla definizione per il ritiro sociale in questo campo di studio (Furlong, 2008; Lee et al., 2013; Wong, 2009). Intanto una prima questione da porre è se il ritiro dell’Hikikomori sia un disturbo psicopatologico ovvero una malattia. L’hikikomori a oggi, sostiene Crepaldi (2019) “non è ancora stato riconosciuto ufficialmente, né in Giappone né dalla comunità scientifica internazionale come una psicopatologia .… In sostanza stiamo parlando dell’espressione di un “disagio adattivo”, della difficoltà a trarre sensazioni positive dalle relazioni interpersonali e, più in generale, dalle dinamiche sociali moderne”.
Il sociologo Alain Ehrenberg (2010) e il filosofo Byung Chul Han (2010) hanno sostenuto che la depressione sia una reazione frequente alla pressione della prestazione esercitata da una società in cui domina l’imperativo della realizzazione sociale e personale (Crepaldi, 2016).
Marco Crepaldi, sulla base della sua esperienza professionale, nel formulare una definizione del termine Hikikomori, individua una causa sociologica madre del fenomeno:
“… L’hikikomori è una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitalistiche economicamente sviluppate” (Crepaldi, 2013).
L’adolescente, di fronte a queste continue e pressanti richieste, subite in una fase evolutiva caratterizzata da forti vissuti di inadeguatezza, può decidere di nascondersi, di rinchiudersi in un mondo più facile da gestire.
“… Quando parliamo di hikikomori ci riferiamo ad un soggetto sano che decide volontariamente e in modo consapevole di vivere in uno stato di isolamento. Con questo non si vuole sostenere che tale scelta non rappresenti una situazione di disagio o di malessere per il ragazzo, ma semplicemente che la condizione non è determinata da forze esterne o da altre patologie preesistenti” (Crepaldi, 2013).
Si parla infatti di Hikikomori primario “ossia un Hikikomori che si sviluppa prima e a prescindere da altre patologie; uno stato di ritiro che non deriva da nessun disturbo mentale preesistente”. (Crepaldi, 2013).
In base anche alla capillare ricerca condotta in Giappone si può affermare che non è un disturbo in sé e per sé ma, col prolungarsi dell’isolamento, la situazione degenera, si cristallizza e può acquistare indubbi caratteri psicopatologici. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine hanno effetti profondi sull’Hikikomori che gradualmente perde le sue competenze sociali, i riferimenti comportamentali e le abilità comunicative per interagire con il mondo esterno. Viene da chiedersi quanto l’organizzazione sociale ed economica dei paesi capitalisti giochi un ruolo nell’Hikikomori.
Non vi è dubbio che il fenomeno possa essere affrontato nel contesto del sistema capitalista, che, seppure con peculiarità nazionali, presenta caratteri trasversali in tutti i paesi industrializzati.
Il capitalismo definisce le persone in base alla loro ricchezza, il che significa che la loro autostima è determinata dal loro reddito. Tutto in questo sistema si basa su strategie “panoptiche” del consumo ovvero la capacità di acquistare merci (dai bisogni di base all’intrattenimento, all’abbigliamento, alle interazioni con le persone, uscire in un bar, vedere un film, andare al ristorante, in discoteca ecc.). Lo status socio-economico svolge anche un ruolo sorprendente nelle relazioni sentimentali. La società giapponese, ma anche la nostra seppure in misura minore, valuta i potenziali partner maschili sulla base del reddito e del loro successo professionale. Se qualcuno non ha raggiunto tale successo, ha molte più difficoltà a trovare una partner. D’altronde, l’opportunità di ottenere un tale status sociale sta diminuendo di anno in anno in ogni nazione industrializzata. La disoccupazione è fluttuante, i salari sono ristagnati e in molti paesi si sono ridotti, creando innumerevoli problemi di sopravvivenza rispetto ai bisogni quotidiani. In tale condizione non sorprende che le persone si ritirino dalla società o rinuncino ad una vita significativa. Dato che la situazione economica globale rende sempre più difficile andare in pensione per gli anziani, questi tendono a mantenere il loro lavoro più a lungo. Ciò si combina con l’aumento della disoccupazione in generale, (che è dilagante tra i giovani); come conseguenza si ha un’intera generazione di cittadini che non può entrare nei posti di lavoro più remunerativi oppure ottengono lavori sottopagati. Stiamo assistendo ad un tendenziale crollo del sistema sociale a causa della natura alienante della produzione capitalista, della distribuzione iniqua della ricchezza e delle relazioni sociali. Per citare il filosofo Diego Fusaro, “L’omologazione economicamente diseguale della mondializzazione capitalistica si presenta così, in ambito culturale e sovrastrutturale, nella forma dell’ordine simbolico dominante del pensiero unico politicamente corretto, sistema superstizioso e imperfettamente laicizzato di interdizioni e di sanzioni atto a neutralizzare ogni idea, ogni orientamento, ogni prospettiva, ogni anelito non allineato con la struttura realmente data e concretamente asimmetrica del mondo”.
Probabilmente, l’Hikikomori combatte con il ritiro la sua personale battaglia contro un sistema che lo opprime e lo devasta. La sua è una guerra silenziosa, invisibile come silenziosa ed invisibile è “l’omologazione capitalistica e mercificante dell’individualità” (Galbussera, 2017).
L’articolo non vuole inneggiare a radicali (e ormai improponibili) sovvertimenti dell’ordine sociale semmai riconoscere l’importanza imprescindibile del pensiero critico, della cultura dell’accoglienza, tolleranza e solidarietà.
Perché sino a quando l’imperativo sociale è “arrivare primi” a scapito di chi sta intorno, innumerevoli individui rimarranno indietro, perdendosi per strada o, per meglio dire, dentro casa propria.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E WEB
Crepaldi M (2019) Perché l’hikikomori riguarda soprattutto i maschi in https://www.hikikomoriitalia.it/;
Crepaldi M (2016) Cos’e-e-cosa-non-e-l’hikikomori in https://www.hikikomoriitalia.it/;
Crepaldi M (2019) Hikikomori: una nuova etichetta diagnostica? in https://www.hikikomoriitalia.it/2019/10/;
Crepaldi M (2013) L’hikikomori non è una malattia”: lo dice anche il Governo giapponese in https://www.hikikomoriitalia.it/;
Ehrenberg A (2010) La società del disagio. Torino: Einaudi pp. XIV-XV;
Ehrenberg A (2010) La fatica di essere se stessi. Torino: Einaudi ;
Fusaro Diego (2018) Cos’e-il-pensiero-unico-e-perchè-è-al-servizio-del-mondial-capitalismo in https://www.ilfattoquotidiano.it/;
Galbussera Marisa (2017) La vergogna di vivere dell’hikikomori in Agonie dell’identità, Padova University Press;
La Barbera D. (2010) Editoriale. Quaderni Italiani di Psichiatria;29:1-40 ;
Lee YS, Lee JY, Choi TY, et al. (2013) Home visitationprogram for detecting, evaluating and treating socially with drawnm youth in Korea. Psychiatry and Clinical Neurosciences 67: 193–202;
Wong V (2009) Youth locked in time and space? Defining features of social withdrawal and practice implications. Journal of Social Work Practice23: 337–352;