EUROPA. 1) AUSTERITA’ E DEFICIT
Nei suoi indirizzi di commiato l’ora ex commissario europeo Moscovici ha tenuto a rassicurare l’Italia, ma non solo. Non sono alle viste, ha detto, procedure d’infrazione né per il nostro né per gli altri sette paesi – Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Slovacchia, Slovenia – che “pongono problemi”, riguardo all’entità del debito, del deficit e soprattutto alle politiche poste in atto per affrontarli. Fermo restando, naturalmente, che la loro posizione sarà di nuovo valutata nel corso della prossima primavera.
Da dove nasce questa improvvisa comprensione, se non indulgenza nei confronti dei reprobi? Sicuramente del fatto che sono numerosi e, oltretutto, geograficamente (praticamente tutta l’Europa latina e mediterranea) significativi. Un conto è prendersela con le solite pecore nere (ruolo in cui l’Italia aveva, negli ultimissimi anni, preso il posto della Grecia); tutt’altro conto avere a che fare con un intero ovile comprendente, tra l’altro, uno dei due stati-guida dell’Ue.
Ma c’è dell’altro. E precisamente la crescente consapevolezza che l’applicazione delle ricette del FMI e di Bruxelles e la riduzione del deficit (e a maggior ragione del debito) sono due strategie tra loro incompatibili.
Un dato, proprio in Francia, particolarmente evidente. Qui l’ordoliberista Macron avvia, a spron battuto, le “riforme”: unificazione, al ribasso, del sistema pensionistico, riduzione dell’entità o, comunque, della rete territoriale dei servizi e dei loro operatori, tagli nel settore pubblico, riorganizzazione del sistema fiscale a vantaggio dei ceti più favoriti.
Tutto ciò però non ottiene i risultati sperati – nessuna spinta agli investimenti – mentre, sull’altro fronte, crescono il dissenso e la protesta.
E allora quello che è stato tolto ai ceti medi e popolari in termini di servizi e di risorse collettive viene restituito in termini individuali. Al termine di un ciclo che si apre con il ritiro dello stato dell’economia e si conclude, ciclicamente, con l’aumento della spesa pubblica e del deficit.
In Francia, quest’anno, varie decine di miliardi in più a soddisfare le più varie necessità. E un deficit a superare il 3 %. Non sorprenderà, dunque, che il presidente, da difensore dell’”ordine costituito” quale era, sia diventato oggi il suo esplicito e pubblico contestatore. E, da ordoliberista puro, gollista…
EUROPA. 2) NATO
Se la contestazione della politica di austerità da parte di Macron non aveva suscitato particolari reazioni, non così la sua constatazione che la Nato fosse in una condizione di “morte cerebrale” ( intervista all’Economist”). Ciò non significa, come invece sostiene Trump, che essa sia “obsoleta” o, peggio ancora, inutile e nociva. Significa, semplicemente, che la sua “dottrina”e il suo possibile aggiornamento all’indomani della caduta del muro non sono mai stati oggetto di una riflessione politica collettiva; con il risultato di tornare ad essere, per pura forza d’inerzia e per il “continuismo degli apparati” , quelli della guerra fredda. Leggi la predisposizione dei mezzi per rispondere a un attacco militare e/o politico, ieri sovietico oggi russo, contro uno dei suoi membri. Ieri, la Germania; oggi l’Estonia o magari anche l’Ucraina. Tanto per capirsi.
Naturalmente il presidente francese si è ben guardato dall’entrare nello specifico ( lo abbiamo fatto noi per lui…). La sua voleva essere una provocazione, nel senso negativo ma soprattutto positivo del termine.
Hanno risposto con urla di indignazione i paesi dell’Est, baltici e polacchi in testa. E con esaltazione delle magnifiche sorti e progressive dell’alleanza militare, l’immarcescibile segretario Stoltenberg e i “russofobi” Usa, leggi la stragrande maggioranza dei membri del Congresso. La rappresentanza piena dell’asse su cui si regge oggi la strategia dell’Alleanza.
Dagli altri paesi (Europa latina in testa) un silenzio che ognuno può interpretare come vuole. Dalla Germania una appassionata difesa della ragion d’essere della Nato, leggi degli Stati Uniti, come unico possibile garante della sicurezza della Germania; difesa che è anche il prezzo da pagare per garantire il diritto di Berlino alla libera uscita, leggi completamento del North stream e una spesa che rimane al di sotto del 2% richiesto da Trump.
VEDERE HONG KONG
Tre mesi di manifestazioni violente e senza sosta, con distruzioni di edifici, devastazioni, blocco dei servizi, invasioni del Parlamento e quant’altro. Ma il tutto con un numero di morti che si conta sulle dite di una sola mano: molto al di sotto dei disastri compiuti in Cile nell’arco di una sola settimana, meno delle vittime causate dalla rivolta dei gilet gialli; per tacere dei mattatoi iracheni e iraniani.
Un dato che nessuno sembra avere colto. Ma che è di un evidenza impressionante. Anche perché fa il paio con altri due, questi assolutamente rivelatori.
Il primo è l’atteggiamento, insieme, della Cina e degli Stati Uniti. Dalla prima, l’ovvia denuncia di manifestazioni ” manovrate dagli americani” ma, al tempo stesso, l’impegno a non intervenire se non in caso estremo; dai secondi, la prosecuzione del negoziato commerciale e l’affermazione di Trump :”se non ci fossi stato io, i rivoltosi sarebbero stati spazzati via in pochi minuti”, affermazione, come sempre improvvida e sopra le righe ma magari anche fondata.
Il secondo è la tenuta delle elezioni alla data prevista. “Come se niente fosse”. Una roba assolutamente senza precedenti. Nel passato. E anche nel presente. Nel mondo delle rivolte e delle guerre civili le elezioni “vengono dopo”: dopo un lungo cessate il fuoco e un accordo tra le parti, propiziato dalle pressioni internazionali. Qui sono “venute durante”. Via le pietre, via tutti gli altri oggetti assai più contundenti, via i poliziotti anti sommossa; e tutti insieme, sotto gli ombrelli, verso le urne. E a prendere atto, come ha detto la signora Lam, del risultato del voto.
Perché tutto questo ? Una domanda, manco a dirlo, che i nostri media non si sono nemmeno posti. Perché vittime del “politicamente corretto” ( vedi Mentana). O semplicemente perché disinteressati alla faccenda.
Personalmente mi sono fatto l’idea che questo scontro fortemente controllato abbia a che fare con le diverse interpretazioni da dare alla formula “uno stato due sistemi”.
Finora la formula ha funzionato in questo modo: istituzioni autonome, un largo spazio di libertà ( economiche ma anche politiche e culturali) pochissima o nessuna democrazia ( a partire dal fatto che il suffragio universale funziona solo per i distretti ma non per la città nel suo insieme, dove il sistema di voto garantisce automaticamente la maggioranza ai rappresentanti di Pechino).
E allora la tenuta del voto significa che i contendenti hanno accettato di muoversi al suo interno ( scartando preventivamente le ipotesi estreme dell’indipendenza ostile verso la Cina o della pratica annessione da parte di quest’ultima) . Mentre il suo esito significa che le forze della democrazia ( e, per inciso, anche della giustizia sociale) hanno prevalso su quelle dell’autoritarismo e della conservazione.
L’esito della partita è ancora aperto. Ma la partita è quella giusta.
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