Borghesia riflessiva, borghesia sensibile, borghesia?

Tra i vari cantori delle magnifiche sorti e progressive nate da Mani pulite, i peggiori sono stati forse quelli di sinistra.
Per uno di loro, lo storico Paul Ginsborg, quella rivoluzione sarebbe stata da ascrivere all’avvento della “borghesia riflessiva”, tradotto in italiano del partito di Repubblica. Non più volgari politicanti Dc, pronti a dilapidare il danaro pubblico in assistenzialismi di vario tipo. Non più socialisti rampanti, nuovi protagonisti del regime delle tangenti a tutto danno di imprenditori soggetti a lacci e lacciuoli di ogni tipo. Ma, a loro posto l’avvento di tecnici e politici illuminati, finalmente liberi di perseguire il pubblico bene.
Per Veltroni e i suoi molteplici seguaci, il trionfo della “borghesia sensibile” e del partito che avrebbe incarnato, da allora in poi, il “politicamente corretto”.
In realtà il trionfo della nuova classe generale. E cioè dei ceti medi. In economia il partito del “meno tasse e meno spese”. In politica indifferente al cosa (“c’è una sola soluzione razionale ai problemi e non è né di destra né di sinistra”) e molto invece al “come” (in contesto in cui l’ossessione per la corruzione va, guarda caso, a colpire la casta dei politici e la spesa pubblica e non certo il potere del danaro e il ruolo dei privati).
Tutto ciò fa sì che la rivoluzione dei ceti medi diventi, da subito di destra, vedi Italia, vedi Brasile. Anche perché l’insieme di frustrazioni che la pervade (no alla politica, no ai partiti, no allo stato e al pubblico) non potrà essere non solo utilizzata ma neanche realmente contrastata né dalla borghesia riflessiva né da quella sensibile; come ampiamente dimostrato da tutte le vicende della seconda repubblica.
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