Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Esaurita in apparenza[1] la sua spinta propulsiva, la sinistra sedicente marxista si crogiola oggigiorno alla luce di una costellazione di miti/feticci che, interpretabili come coperte di Linus, segnalano anzitutto l’inaridirsi del metodo dialettico che Marx trasmise in eredità ai suoi successori.
Scrivendo, in una celebre lettera a Lafargue, “Quel che so per certo è che io non sono marxista” Carlo Marx intendeva sottolineare – assieme al suo ripudio del dogmatismo – l’esigenza che la ricerca andasse avanti in ogni direzione e che lo strumento dialettico da lui forgiato venisse rettamente adoperato nella prassi, senza caricarsi di indebiti contenuti religiosi e/o metafisici. Colpisce che l’ammonimento sia stato lanciato in un’epoca di dinamica diffusione del verbo socialista, non sorprende invece che in un periodo di ripiegamento qual è l’attuale la tentazione di rifugiarsi in un rasserenante marxismo da beghine sia presente, prima ancora che in singoli compagni spaesati, in intere formazioni politiche – e ne detti la linea.
Sebbene la pretesa marxiana di creare una società giusta ed egualitaria “definitiva” sia figlia di un’educazione giudaico-cristiana (d’altra parte la formula “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” valeva anche per chi l’ha enunciata…), egli si sarebbe opposto con vigore all’emergere di un perbenismo di sinistra che, osservato da vicino, assomiglia fin troppo a un catechismo dei buoni sentimenti. Polemico e all’occorrenza “spietato”, ma sempre problematico, il filosofo di Treviri ci ha offerto un’infinità di spunti e generalizzazioni che vanno prese per quello che sono, non elevate a regole che non ammettono eccezioni (pena immediate scomuniche, da parte loro tutt’altro che “buoniste”).
E’ da un pezzo però che, smarrita la rotta, la sinistra va alla deriva, e non sapendo più che farsene delle mappe se le incornicia e le trasforma nell’identità fittizia di cui abbisogna per occupare il tempo che la separa dall’ormai prossimo naufragio sulle scogliere del reale. Ecco allora che regole tendenzialmente valide assurgono a verità assolute, disegnando un mondo onirico che con quello in cui ci tocca vivere ha ben poco in comune.
Segnalerò solo alcuni esempi che, a parer mio, suffragano l’assunto.
Partiamo dalla giustizia, o per essere precisi dalla questione “dei delitti e delle pene”. Migliaia di anni di Storia ci insegnano che, in una società divisa in classi, il diritto tutela invariabilmente gli interessi di quelle dominanti: che viva nell’Antico Regno o nella Germania del ‘500 il povero non avrà mai soddisfazione, se la controparte è provvista di mezzi o di alto lignaggio. Partendo da quest’ovvietà Marx aggiunge qualcosa in più: la scoperta che il disagio e l’inferiorità sociali sono criminogeni, in primo luogo perché l’estremo bisogno è un potente incentivo a infrangere le regole (chi rischia di morire di fame non rispetta la proprietà altrui!), in secondo luogo perché quelle stesse regole sono fatte su misura dei possidenti. In linea di massima il crimine è frutto di ingiustizia e necessità, ed è per questo che l’articolo 27, comma 2°, della Costituzione italiana stabilisce che “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato.” Portato alle estreme conseguenze questo principio produce però un esito aberrante: quello di incolpare della totalità dei delitti gli ingiusti rapporti di produzione, cioè la società, e specularmente di “vittimizzare” ogni colpevole (all’inizio magari solo il misero, oggi di fatto chiunque). Di quest’amnistia “spirituale” debbono, per certa sinistra, beneficiare tutti: ecco spiegata la ripugnanza nei confronti dell’ergastolo espressa prima da Rifondazione Comunista e più di recente da PaP. Certo, in un mondo ideale esso andrebbe abolito, ma per un motivo più valido di quello contenuto nel citato articolo 27 (che esprime un’indicazione per il legislatore): per la semplice ragione che se tutti gli esseri umani si comportassero rettamente di esso verrebbe meno ogni utilità. Il problema è che questo mondo ideale appartiene ad un universo fantastico: neppure il Socialismo realizzato potrebbe aspirare a cotanta perfezione, giacché si baserebbe pur sempre su fondamenta umane. Sono assolutamente persuaso che una marcata riduzione delle diseguaglianze farebbe sprofondare il tasso di criminalità (poiché gli ultimi non sarebbero più costretti a delinquere, mentre per i privilegiati scemerebbe la convenienza a farlo), ma il suo azzeramento è utopia pura. E’ insita in non pochi di noi, indipendentemente dalle condizioni economico-sociali e da sollecitazioni dell’ambiente, quella che E. A. Poe definiva «perversity» (potremmo tradurla con crudeltà gratuita) così come sono presenti forme aggressive di malattia mentale: come dovrebbe difendersi la società da questi devianti – forse concedendo loro una sorta di licenza di uccidere di bondiana memoria? Evidentemente no, a meno che non si scelga di assegnare a costoro maggiori diritti rispetto alle potenziali vittime – ma questo è assurdo, poiché nessuna società informata a ragionevolezza si condannerebbe all’autodistruzione premiando gli elementi antisociali e chi risulta socialmente pericoloso. La neutralizzazione di costoro non è affatto in contrasto con il principio rieducativo, proprio perché quest’ultimo ha valenza generale – ed in ragione di ciò ammette eccezioni imposte dalla realtà concreta. Possono esistere alternative all’ergastolo? Teoricamente sì, ma – penso a forme di risocializzazione mediante condizionamento mentale o alla famigerata castrazione chimica – potrebbero risultare alla fin fine meno rispettose della personalità del condannato. In sintesi: si può essere marxisti e al contempo essere favorevoli, in situazioni estreme, al mantenimento di pene definitive? Si può e si deve, anche se nulla vieta ai dubbiosi di presentare domanda di cittadinanza alla repubblica dei sogni.
Un altro mantra della sinistra in cerca d’autore è quello del pacifismo. Sarebbe meraviglioso se l’intera umanità deponesse le armi, ma – dal momento che cronaca ed esperienza inducono ad un cauto pessimismo – attivisti ebbri di entusiasmo incitano a offrire unilateralmente il buon esempio. Non è sufficiente – sostengono – una pesante riduzione delle spese militari: servirebbe l’integrale abolizione delle forze armate. Che la guerra sia un abominio è incontrovertibile; si può convenire anche sulla sua natura generalmente imperialistica e sul fatto che, mentre a dichiararla sono i grandi, a combatterla sono i piccoli. Giustamente la nostra Costituzione (art. 11) la ripudia “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: permane però il problema della guerra difensiva, che – e già questo appare indicativo – la Carta non menziona affatto. Potremmo risolverlo come fece Lenin, che qualificava come difensiva e dunque “giusta” la sola lotta intrapresa dagli oppressi contro gli oppressori – convincente, ma il pacifismo “senza se e senza ma” nemmeno questa ammette, e nega dunque la legittimità di una rivoluzione che non sia assolutamente pacifica. Mi domando: con avversari tanto imbelli che bisogno ha il Capitale di sostenitori e alleati? I pacifisti tout court farebbero meglio a riconoscere che tutte le loro speranze di palingenesi sono affidate a un improvviso rinsavimento dell’umanità (èlite in testa!) che dovrebbe realizzarsi nello stesso istante in ogni angolo del globo: un’impossibile condicio sine qua non al mancato verificarsi della quale un eventuale incruento avvento del socialismo in un solo Paese esporrebbe quest’ultimo – prontamente disfattosi di esercito e mezzi di difesa – alla certezza di un’immediata invasione dall’esterno. Poco male: coerenza vuole che istituzioni fatte della stessa sostanza dei sogni durino non più di una notte… ironia a parte la prospettiva di un mondo senza guerre è per chi confida nella vitalità dell’idea socialista assai meno utopistica di quella dell’estinzione dei crimini, ma prima occorrerebbe instaurare per l’appunto un sistema socialista (preferibilmente con strumenti pacifici, ove necessario con quelli più idonei) e poi difendere il nuovo nato dalle rappresaglie di un mondo ancora asservito al profitto. La pace è un irrinunciabile obiettivo di lungo termine: nell’immediato, si vis pacem para bellum – massima ciceroniana cui saggiamente si attennero tutti i rivoluzionari dimostratisi capaci di conferire stabilità al rivolgimento sociale da essi attuato (Lenin e Trotzky in primis). Stalin aumentò a dismisura le spese militari non tanto perché era – come ce lo descrivono – un mostro assetato di sangue, ma perché aveva compreso che un’URSS priva di difese sarebbe stata inerme preda delle potenze capitaliste. Ma in fondo “aboliamo le spese militari!” è un ottimo slogan da corteo, da scandire tra un canto rivoluzionario e la birretta finale…
Aspetti francamente patologici sono poi rinvenibili nei rapporti fra la sinistra post-marxista del mito semplificante-identitario ed una serie di aggregazioni complesse e perciò sfuggenti quali l’universo femminile, l’ex (?) Terzo mondo, oggi impersonato dai migranti, e quello animale.
Agli albori del movimento femminista Marx ed Engels si schierano risoluti dalla sua parte, ricorrendo a motivazioni concrete e non “ideologiche” o riconducibili all’invenzione del “genere”: le donne appartenenti alle classi disagiate sono due volte oppresse, in primo luogo per la collocazione sociale e in seconda battuta per il sesso, che ne determina la sottomissione al marito o al padre. Non a caso – come ribadisce Losurdo – quella per l’emancipazione femminile è ascrivibile alla variegata categoria delle lotte di classe. Riporto per sommi capi l’analisi senza pronunciarmi sulla sua giustezza o meno, ma tengo a sottolineare che la simpatia dei due pensatori va alle femmine in quanto vittime, non viceversa. Oggigiorno l’approccio appare mutato, per non dire capovolto: si assiste, a sinistra, a una beatificazione della donna in quanto tale cui fa da logico contraltare la colpevolizzazione del maschio, portato per sua natura (come lo scorpione di Fedro – ci suggeriscono) ad usurpare il ruolo di “patriarca”, e dunque a infierire sull’altra metà del cielo[2]. E’ la tesi mistificante propagandata dal format Me Too[3], che divide l’umanità in buone e cattivi: con questi deliri nulla ha a che spartire il marxismo, moltissimo l’esigenza dell’èlite capitalista di fomentare la discordia tra i sudditi per scongiurare il formarsi di un fronte comune contro una sopraffazione che riguarda le donne al pari degli uomini (un tempo si sarebbe detto: divide et impera, ma oggi al massimo si insegna il pidgin english). In mancanza di meglio, la sinistra post-marxista e “petalosa”[4] denuncia l’emergenza rappresentata dal c.d. femminicidio[5] arrivando persino a proporre aggravanti ad sexum le quali, prima ancora che incostituzionali (art. 3 Cost.), sarebbero moralmente inaccettabili perché discriminatorie.
Oltre ad un lodevole spirito umanitario sono un diffuso senso di colpa, la mitizzazione russoviana del “buon selvaggio” ed un’avversione pseudo-marxista alle identità culturali ad ispirare i fautori – spesso, non sempre in buona fede[6] – dell’accoglienza indiscriminata dei migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia. Esaminiamo questi elementi uno alla volta, iniziando dall’autocolpevolizzazione. Le responsabilità dell’Occidente guerrafondaio e saccheggiatore delle ricchezze altrui sono enormi, ma estendere la colpevolezza a tutti i suoi cittadini è scorretto é fuorviante: Karl Marx stigmatizzava l’ostilità degli operai inglesi nei confronti di quelli irlandesi perché contraria ai comuni interessi (di classe), ma non imputava di certo ai primi lo sfruttamento dei secondi, attuato da un Capitale che spremeva gli uni e gli altri. Un ragionamento analogo va fatto a proposito dei lavoratori immigrati. Si assiste anche ad una tragicomica esaltazione di una sorta di “verginità” del migrante, come se quanti affrontano il mare sui barconi (o più spesso cercano di entrare in Europa per via di terra) provenissero tutti da impenetrabili giungle o da villaggi rimasti all’età della pietra. Chi si muove, in realtà, parte di solito da grandi città asiatiche o africane, e la scelta avventurosa di rincorrere un futuro più prospero è sovente influenzata da battage pubblicitari che presentano l’Europa impoverita come il continente di Bengodi (o “Lamerica” del celebre film di Amelio). Nessuno arriva qua con il rasoio di selce, tutti invece col cellulare… bramano di condividere il nostro presunto benessere, cui ritengono (perché sono stati educati a crederlo) di avere pieno diritto. Quanti identificano in costoro un nuovo proletariato rivoluzionario (“moralmente superiore” e comunque apportatore di sangue nuovo) scambiano per un dato fattuale il prodotto della loro fervida immaginazione, e anche quando rivestono di una patina marxista i propri ragionamenti ricadono in petizioni di principio: merita leggere, a questo proposito, l’illuminante passaggio estrapolato da un articolo comparso sul numero di giugno di Lotta Comunista ove ci viene assicurato che “La nostra opposizione a xenofobia e razzismo è irriducibile. Non si tratta per noi di un precetto morale, non è «ama il prossimo tuo come te stesso» come predicano i cattolici, che peraltro rispettiamo. (…) Per noi, comunque, si tratta di una questione di classe, di unità di classe, I migranti rafforzano con energie nuove la nostra classe e la lotta di classe contro lo sfruttamento. E per questo combattiamo ogni discriminazione contro di loro[7]”. L’autore spaccia per fatti notori una serie di asserzioni indimostrate e opinabili, al cui “fondamento” sta l’immotivata convinzione che solo un proletariato globalizzato e meticcio possa dare la spallata a un’élite capitalista lei sì apolide. Marx non ha mai teorizzato niente del genere (il suo appello, tra l’altro, si rivolgeva ai proletari “di tutti i paesi”[8], e solidarietà e fratellanza non presuppongono affatto una riduzione delle etnie a massa indifferenziata), ma il ripudio della propria identità “bianca” in favore di un salvifico meticciato si è così profondamente incistato in molte anime della sinistra che qualsiasi difesa di peculiarità e tradizioni nazionali (e persino locali) é condannata come un rigurgito di fascismo[9]. Non è per niente casuale, allora, che queste “sinistre” si scaglino con assai maggiore veemenza contro la vituperatissima piccola borghesia impiegatizia o bottegaia (nella quale, al di la delle definizioni, dovrebbero concretamente riconoscere masse di proletari inconsapevoli o soggetti in via di rapida proletarizzazione) che contro l’élite capitalista, con la quale condividono in fondo l’orizzonte globalista – con l’impercettibile differenza che i grandi borghesi il loro disegno lo stanno attivamente mettendo in pratica, mentre i volonterosi antagonisti sono fermi ad uno stadio che richiama alla mente i “sarà” e i “però” dei tre (poi due, quindi uno…) amici al bar cantati da Gino Paoli.
E’ questa serie di (auto)condizionamenti, di cui sarebbe salutare sbarazzarsi, a ostacolare un approccio critico di buona parte della sinistra alla questione migranti e a favorire per converso quelle forze di destra che soffiano strumentalmente sul fuoco di paure popolari che, a parere di chi scrive, non sono del tutto prive di fondamento.
All’idolatria per la donna (contrapposta al maschio brutale) ed il migrante, promosso a “eroe” del socialismo avvenire in sostituzione dell’ingrato operaio che vota a destra, si affianca in taluni ambienti una particolare attenzione per il mondo animale che, non disdicevole in sé, sconfina tuttavia non di rado nell’esaltazione e nel parossismo.
La riscontrabile crescita, avvenuta negli ultimi decenni, della sensibilità del cittadino medio nei confronti delle sofferenze animali è un fenomeno da salutare con compiacimento, anche se ricercare la sua spiegazione nel solo campo dell’etica sarebbe semplicistico: al giorno d’oggi possiamo fare a meno di costose pellicce e dell’ambra grigia, e la stessa caccia ha perduto la sua funzione di allenare i giovani allo scontro fisico e alla guerra. L’eccessivo aumento del consumo di carne, riconosciuto come tale, ha portato molti a sperimentare abitudini alimentari più sane – anche per porre un freno a metodologie di allevamento intensivo che suscitano indignata ripugnanza, testimoniando la “bestialità” del capitalismo. Gli animali meritano rispetto, così come l’ambiente nel suo complesso, ma più di qualcuno sta andando o è già andato oltre, macchiando un’assennata filosofia di vita con gli eccessi del fanatismo. Non alludo soltanto alle discutibili imprese di certi “animalisti”: si assiste più in generale, ad opera di gruppi progressisti, ad un’ideologica equiparazione dell’animale all’uomo, condita dalla pretesa di assicurare al primo diritti inalienabili (pur sempre di matrice umana) che possono rivelarsi all’occorrenza incompatibili con le esigenze e finanche la sicurezza di noialtri. Così il ventilato abbattimento di un esemplare dimostratosi pericoloso e la “derattizzazione” di porzioni di territorio da nutrie infestanti diventano casi da prima pagina e suscitano smodate polemiche, mentre si diffondono mode culinarie i cui adepti, inconsapevoli di essere consumatori sedotti da un mercato di nicchia, impartiscono rabbiose e non richieste lezioni “etiche” all’umanità intera. Certo anche Pitagora era (a quanto pare) vegetariano e bollava i macellai dell’epoca come “impuri”, ma motivava la propria scelta con ragionamenti un po’ più elevati, e la sua dottrina, in ogni caso, andava ben oltre il divieto di mangiare carne. Sia ben chiaro: ognuno è libero di cibarsi di ciò che preferisce, stomaco permettendo, ma quando queste scelte individuali diventano un surrogato dell’emancipazione rivoluzionaria e si perde di vista la centralità dell’essere umano allora la situazione inizia a farsi – se non seria – perlomeno grave.
Mi avvio a concludere questa sommaria riflessione destinata a lasciare il tempo che trova: ho additato solo alcuni dei totem cui si aggrappa una sinistra sbandata[10], ma la fila si allunga davanti e dietro di noi, e di molti idola ho trattato in precedenti scritti. Una fede cieca inaridisce il pensiero specie se – come ammoniva il Guccini d’antan – essa si rivolge “a poveri miti”. Credo che, per riacquistare la vitalità da lungo tempo perduta, la sinistra (cioè la sua minoranza consapevole) dovrebbe decidersi a tagliare i rami secchi, anche se su di essi stanno comodamente appollaiati numerosi compagni e varie minuscole famiglie politiche: le invocazioni rivolte a divinità di cartapesta ben raramente fruttano miracoli (e consenso, nelle urne e altrove).
[1] Sarei lieto fosse mera “apparenza”!
2] Il tweet delirante di Maurizio Acerbo, Segretario del fu PRC, è un’ottima esemplificazione di questo andazzo (https://twitter.com/maurizioacerbo/status/1150281686657187840), ma un aggressivo (e risibile) richiamo al patriarcato risuona sovente nelle dichiarazioni e nei post di militanti femministe o di “maschi pentiti”.
[3] Non per caso un prodotto della società americana, iperliberista e al contempo manichea.
[4] La fiera rivendicazione della “dignità culturale” dell’ignoranza è un ulteriore regalo che un progressismo talmente smarrito da aver dimenticato l’insegnamento di Robert Owen e di don Milani fa al nostro (ma forse non suo!) nemico di classe.
[5] Per scongiurare cortocircuiti logici si potrebbe punire con l’aborrito ergastolo i soli femminicidi! Di “maschicidi”, in effetti, è meglio non si inizi a parlare: il termine fa pensare, per assonanza, alla carta moschicida…
[6] Valori e obiettivi del finanziatore e di un’attivista di un’ONG possono benissimo non coincidere…
[7] Giovani leninisti in Europa di R. Pastorino. A ben vedere la (richiamata) posizione della Chiesa cattolica, fondata su di un precetto morale, appare assai più lineare, coerente e comprensibile.
[8 Incitati a unirsi, non a mescolarsi.
[9] Impalpabile fantasma che si aggira per l’Europa immaginata dalla sinistra (sia quella per così dire autentica che quella spuria poiché convertita da decenni alle “buone ragioni” del mercato capitalista).
[10] Della quale sappiamo per certo una cosa sola: che non è marxista, e manco nobilmente utopista.
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