Stavolta il grande comunicatore in bermuda ha (forse) toppato, arenandosi come un cetaceo sulla spiaggia, o ha più banalmente palesato scarsa conoscenza di diritto e prassi costituzionali unita ad un pressapochismo tronfio che gli ha dettato una tantum i tempi sbagliati. Ebbrezza da presunta infallibilità? Di certo mancavano i pretesti per scatenare una crisi agostana, e il nostro se li è dovuti inventare, con effetti fra il comico e il surreale: ci vuole una bella faccia di bronzo per tacciare di ostruzionismo chi ti ha appena concesso la fiducia in Parlamento sulla conversione in legge dell’osceno Decreto Sicurezza bis, e la rottura con i 5Stelle per un’innocua e annunciatissima mozione di bandiera sul TAV puzza di sfrontato opportunismo persino al più sbronzo tra i frequentatori del Papeete beach. “Governo dei no”: ma quando mai? A Matteo II gli ingenui grillini sono stati leali perinde ac cadaver, votandogli letteralmente tutto, immunità extra large compresa, e per questo – pur mantenendo buona parte delle promesse fatte – hanno pagato un conto salatissimo in termini elettorali; è stato semmai l’affabulatore leghista a non produrre quasi nulla in quattordici mesi di governo per pugnalare infine alle spalle un compagno di strada sfiancato dal peso di laboriosi compromessi e lodevoli – seppure spesso dilettanteschi – tentativi di combinare qualcosa a beneficio degli italiani.
Perché allora questa maldestra mossa a sorpresa, tanto controproducente nell’immediato da costringere Salvini a riesumare Berlusconi, mettere in forse l’ulteriore crescita nei consensi di una Lega finora col vento in poppa e rilanciare addirittura le ambizioni dell’omonimo Renzi, un camaleonte non meno cinico di lui?
L’ipotesi delirio di onnipotenza è spiegazione parziale e insufficiente, perché ad onta di una certa grossolanità – peraltro orgogliosamente esibita fra piazze e litorali – Salvini è un politico astuto e intelligente[1], se non preparato. Il suo problema è che (misure repressive a parte) egli non crede fino in fondo al proprio programma, o perlomeno non sa come realizzarlo. L’unica delle misure “sociali” andata in porto è Quota 90, condivisa dal M5S: l’azzardo crisi gli garantisce comunque la possibilità di evitare nel breve termine – e con ridotte forze parlamentari (corrispondenti al 17% conquistato nel 2018) – la prova di ostacoli che non sarebbe in grado di valicare. Un indizio? I provocatori e reiterati inviti di Di Maio a indicare le coperture della Flat tax non sono mai stati accolti, e in ciò nulla v’è di strano: la “tassa piatta” che Salvini e i suoi hanno in mente non è un abbassamento delle aliquote per i ceti medio-bassi, bensì un omaggio ai benestanti finanziabile soltanto con un sanguinoso taglio di risorse allo stato sociale (sanità in primis). Per attuare questa riforma classista i fautori di reddito di dignità e salario minimo non sono proprio i partner ideali, specie se ti sopravanzano nettamente nei numeri sia alla Camera che al Senato – un travolgente successo elettorale salviniano ne costituirebbe invece la degna premessa, visto che alla capacità di cattivarsi il voto operaio i leghisti sommano, lasciandola trapelare con nonchalance, l’intenzione di soddisfare prioritariamente le esigenze dei padroni: la posizione negativa assunta sul salario minimo (inviso all’imprenditoria) conferma l’assunto. C’è poi da impostare una legge di bilancio assai critica per la questione del paventato aumento dell’IVA, che sarebbe la mazzata definitiva per l’economia italiana (e dunque per quei ceti che, consapevoli o meno dei propri interessi, si affidano alla Lega), senza contare la madre di tutti i problemi: quell’autonomia differenziata per le regioni del Nord Italia che, penalizzando il Meridione, potrebbe nel medio termine ricacciare l’ex partito di Bossi nelle province natie.
Tutte quelle citate sono questioni scottanti e divisive che però – se stai al governo – prima o poi ti tocca affrontare. La crisi agostana rivela allora la sua natura di scommessa, che ha buone possibilità di essere vinta se il voto politico verrà fissato a primavera, passata la buriana finanziaria. L’elettorato italiano ha la memoria corta: dopo aver obliato gli innumerevoli voltafaccia salviniani degli ultimi anni (da No TAV a sì TAV, da pro Russia a pro USA, da agitatore anti-Fornero a tutore dello status quo ecc.) farà lo stesso con l’impudente sceneggiata estiva.
I temi per una campagna elettorale da giocare furbescamente “di rimessa” sono già sul tavolo: la difesa della sovranità nazionale (in chiave parodistica: siamo colonia USA e a Matteo II sta bene così) e la lotta all’immigrazione descritta come un’invasione aliena. Perché di rimessa? Perché dall’altra parte della barricata si assiepa gente, celebre o meno, che pare essersi accordata per far propaganda alla Lega momentaneamente in ambasce. Alludo soprattutto alla questione migranti: le sparate di un Richard Gere o di un Antonio Banderas, che pure entusiasmano gli attivisti di certa sinistra, non fanno che accrescere l’insofferenza degli italiani, per il semplice fatto che i testimonial – milionari “buonisti” a caccia di pubblicità gratuita, giustamente percepiti dalle masse come radical chic all’ennesima potenza – sono sbagliati e fuori posto su quelle che vengono descritte come “navi della sofferenza”. Le immagini si imprimono nei telespettatori più in profondità delle stanche parole di circostanza dei cronisti, e i visi sorridenti di giovani neri quasi tutti maschi e apparentemente in buona forma che fan corona alla star di turno non sono esattamente uno spot pro accoglienza. Non meno controproducenti sono gli appelli al multiculturalismo lanciati da intellettuali senz’altro onesti come un Tomaso Montanari, che discetta su Il Fatto di lettere scritte in arabo da principesse normanne senza evidentemente afferrare che ciò che atterrisce i nostri connazionali è la prospettiva – evocata cotidie da soloni che ci sono o ci fanno – di una prossima massiccia migrazione di centinaia di milioni di africani verso l’Europa provocata dal cambiamento climatico e dall’inesorabile aumento della popolazione del continente nero. Tralasciamo l’argomento (logico e un po’ malthusiano) che il catastrofico peggioramento del clima dovrebbe frenare la galoppante evoluzione demografica per giungere al nocciolo del problema, che è anzitutto di percezione: la presenza di stranieri immediatamente riconoscibili come tali è oggi evidente nelle nostre città e suscita uno shock culturale senza precedenti, che induce all’arroccamento e alla difesa di un’identità percepita come a rischio estinzione. L’esaltazione del meticciato ecc. che larga parte della sinistra fa cozza contro il senso comune e, più che risultare inefficace, si traduce in un generalizzato moto di ripulsa e di sdegno verso chi pontifica ex cathedra, pompando benzina nel serbatoio di una macchina – la c.d. “Bestia” salviniana – che, non avendo gli strumenti per risolvere il “problema”, si fa megafono del sentire popolare e in tal maniera gratifica e reca interessato conforto a masse di individui che da essa si sentono “compresi”, considerati.
Questa “rassicurante” retorica anti-migrazioni si colora di una luce particolarmente sinistra se prendiamo in considerazione un dato di fatto: essa non svolge la mera funzione di zuccherino (=placebo) da offrire a moltitudini impaurite, ma serve a mimetizzare scelte politiche che non sembra eccessivo definire autoritarie o perlomeno antidemocratiche. I due decreti-sicurezza, ingenuamente (e colpevolmente) avallati dai 5Stelle, affiancano a misure spot contro ONG e clandestini norme meno “visibili” ma assai più inquietanti e liberticide, che vanno dalla criminalizzazione del blocco stradale (sicurezza 1), una delle poche forme di pressione pacifiche ed efficaci a disposizione dei lavoratori in lotta, alla stretta sulle manifestazioni di dissenso contenuta nel sicurezza bis, cui chi scrive si propone di dedicare apposita e separata trattazione.
E’ questa ostilità al conflitto e alle rivendicazioni sociali “dal basso” la cifra autentica del salvinismo, che si combina con orientamenti in materia economica schiettamente neoliberisti: la Lega è una formazione due volte di destra, perché reazionaria e al contempo imbevuta di spirito neoliberale (o se si preferisce, come ha scritto qualcuno, “neoreganiano”). Per fare un raffronto, il PiS polacco e l’ungherese Fidesz sono di destra solamente a metà, poiché partiti tradizionalisti/nazionalisti ma fautori – soprattutto il primo – di politiche di protezione sociale dei ceti deboli[2].
Come fare allora a contenere la Lega nel breve periodo, per poi provare a sconfiggerla più avanti? La risposta è abbastanza semplice (sulla carta, s’intende): bisogna smetterla di mitizzare i migranti come se fossero gli eredi del proletariato rivoluzionario, riconoscere che eventuali spostamenti di enormi masse umane verso l’Europa costituirebbero un problema da non prendere alla leggera (e che dunque il cittadino medio non è un imbecille o un razzista da rieducare a colpi di reprimende), ma soprattutto evidenziare come i fenomeni migratori non siano, nell’ordine, 1) una problematica che il governo di una singola nazione è in grado di risolvere, né 2) la causa principe della crescita di diseguaglianze e insicurezza, di cui il diffondersi del timore nei confronti del “diverso” è tutt’al più un sintomo. Questo è dunque il primo passo: rifiutare il terreno di scontro più favorevole all’avversario. La seconda mossa consiste nel colpirlo nei suoi punti deboli, cioè nello svelarne moventi e scopi reconditi, denunciando ai suoi elettori “poveri” la contrarietà della Lega – e in genere dei partiti sistemici – a misure di equità sociale come il salario minimo e la chiusura festiva dei negozi, l’enorme costo per i ceti subalterni di una flat tax finalizzata a compiacere i ricchi, le conseguenze in termini di servizi resi alla cittadinanza di una frammentazione del Paese ecc.. Bisogna far comprendere all’operaio, al piccolo negoziante e al pensionato i quali, inferociti contro il migrante “nullafacente e/o spacciatore”, si apprestano a regalare il voto a Salvini che stanno per fare un pessimo affare: in cambio di ciò che resta di una preziosissima sicurezza sociale fondata su diritti e prestazioni pubbliche ne riceveranno una fittizia e truffaldina, oltretutto di matrice poliziesca.
Non può essere il PD a combattere questa battaglia culturale e comunicativa, per il semplice fatto che le politiche neoliberiste stanno anche nella sua agenda: ad impegnarsi dovrebbero essere socialisti e comunisti, magari aprendo un serrato confronto con le componenti più evolute di un M5S in enorme difficoltà e a rischio sopravvivenza.
L’alternativa a imboccare una strada come quella indicata è chiudersi in un isolamento che, vista la “presa” esercitata sulla società, si annuncia non tanto splendido quanto patetico.
[1] Lo comprova la profferta, fatta ieri a sorpresa in Senato, di sostenere coi voti leghisti la riforma costituzionale.
[2] La destra sociale in Italia non esiste più, almeno da quando la Meloni ha gettato la maschera traghettando i suoi Fratelli d’Italia su posizioni apertamente conservatrici e pro-capitale.
Fonte foto: Ilfoglio.it (da Google)