Premetto che sono e rimango sovranista (nella qualità di italiano, vittima della “disciplina europea” e dei suoi sacerdoti locali; se fossi francese o tedesco non se lo sarei). E premetto anche che l’Europa che abbiamo non mi piace affatto; così come non mi piacciono i trattati e i regolamenti su cui si fonda.
Tutto ciò premesso aggiungo subito che lo schemino su cui si fonda gran parte del credo politico della sinistra radicale ( “i trattati sono una gabbia soffocante che impedisce ogni cambiamento; i trattati sono immodificabili; e allora, per recuperare la nostra libertà, bisogna uscire”) è, a mio avviso, del tutto privo di senso.
E’ una tesi che sostengo da qualche tempo seppure in via incidentale. In una linea argomentativa che si basa sulla valorizzazione di un percorso alternativo; quello di lottare per cambiare. Percorso che ha il vantaggio di mettere in rilievo la dimensione internazionale delle nostre iniziative; e di sottolineare il fatto che il crollo dell’ordine internazionale e l’attacco concentrico all’Europa che ne deriva rendono di fatto impossibile che l’Europa resti così com’è.
Di andare oltre non me la sono sentita. Nella vita politica ho sempre sognato la fraternità. Nella vita reale, la pratica dell’amicizia: vivere felicemente i tuoi sogni e lottare per realizzarsi assieme a persone che li condividono. Per questo mi piace il ruolo di simpatizzante: aiutare, dare una mano quando occorre, sostenere sino in fondo le cause in cui credi. Talvolta, se richiesto; più spesso nella veste di Pierino. Mentre vedo con sempre più forte riluttanza quello di iscritto: un ruolo che mi costringerebbe a continue polemiche, puntualizzazioni, precisazioni su questo o su quello; confinandomi, in definitiva, in uno spazio minoritario. Nei partiti di oggi, il più inutile. Nelle nostre microfrazioni, il più risibile.
Nel caso specifico, avrei dovuto polemizzare frontalmente con un mantra: quello dell’exit. Amicizie rotte, polemiche personali, ulteriori divisioni dell’atomo. Tutte cose insopportabili; almeno per me.
E tutto questo su di un tema su cui la sinistra radicale non ha alcuna voce in capitolo. E qui vengo al titolo del mio post.
Possiamo eccitarci da soli quanto ci pare, invocando euro stop o contestando i trattati dal 1957 in poi come fonte di tutti i nostri mali. Rimane il fatto che la nostra chiamata alle armi è del tutto irrilevante. Perché siamo in Italia in una nebulosa vicina allo zero assoluto. Perché in Europa i nostri potenziali alleati ( in primis Podemos e France insoumise) vivono un periodo di grave crisi di identità. E, infine, perché almeno nell’Europa di oggi, la prospettiva di exit è gestita in prima persona dalla destra radicale: qualche volta strumentalmente ma, almeno nel caso inglese, in modo radicale.
Giusto ricordare qui che abbiamo tutti gioito per la vittoria della Brexit. Perché incarnava alla perfezione la rivolta del popolo bue contro le èlites. E perché era stata recepita da quest’ultime con una boria tinta di disprezzo francamente insopportabile; al punto di invocare da subito una seconda consultazione per fare ammenda selle scelte sconsiderate della prima.
Dopo, e non a caso, il tema Brexit è scomparso dai nostri schermi. O è comparso solo di riflesso: per salutare il successo di Corbyn l’anno successivo; o per denunciare l’indegna campagna mediatica contro di lui ( cui anche il Pd e il Psi avevano partecipato, sino a raggiungere livelli difficilmente superabili di malafede e di pura e semplice stupidità.
Ma quella martellante campagna di odio ( assecondata dall’azione di disgregazione portata avanti da un mascalzone di nome Tony Blair) che ha portato a definire il nostro Jeremy come terrorista, antisemita, traditore della patria, stalinista, eversore e, da ultimo, incapace di intendere e di volere ( manca solo la pedofilia e il me too…), senza precedenti nella recente storia inglese non era un’aberrazione momentanea. Ma era piuttosto parte integrante di una strategia, questa sì potenzialmente eversiva, portata avanti ieri dall’ala brexitista del partito conservatore oggi da tutta la sua leadership.
Eversiva; usiamo questo aggettivo a ragion veduta. Parliamo di una situazione dove all’indomani del fallimento del negoziato con l’Ue, ogni sbocco razionale e/o conforme ai dettami della costituzione materiale del paese- ritiro immediato della May, modifica consensuale dell’approccio negoziale e dei suoi obbiettivi, elezioni anticipate, nuovo referendum- sono stati boicottati dal partito di governo. E al solo scopo di tenerlo in vita. Parliamo di una situazione in cui a tirare la volata ai conservatori ( esattamente come accade in America) è la loro componente più retriva: quella che sogna di fare del Regno qualcosa di intermedio tra l’America di Trump e un grande paradiso fiscale. Parliamo di una situazione in cui la contrapposizione tra leave e remain riguarda nel profondo l’idea stessa che i cittadini britannici hanno della loro identità nazionale; ed è perciò stesso distruttiva e non suscettibile di mediazioni. E parliamo, infine, del fatto che al fondo di tutto questo c’è il riemergere dal profondo del nazionalismo inglese; il che sta alimentando fin d’ora la generale ripresa del fenomeno in Scozia e in Irlanda del Nord. Anche qui in un contesto in cui non si vedono possibili mediazioni.
Non stiamo parlando, con tutto il rispetto, della Macedonia del Nord. Stiamo parlando del Regno unito, oggetto, da decenni della nostra ammirazione e dei nostri desideri. E di un’Europa da cui si vuole fuggire: ma per i suoi meriti e non per le sue colpe.
Rimane, allora, per tutti, un invito alla riflessione e alla misura. Quella che ha portato, di recente, proprio il nostro Corbyn a valorizzare i legami con l’Europa. E, udite udite, a prospettare l’ipotesi di un secondo referendum.