Dall’ipermercato alla pace

E’ trascorso diverso tempo dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Una scelta che Trump presentò come tappa necessaria per arrivare ad una soluzione definitiva della questione israeliano-palestinese; il tutto sulla base di un progetto globale già predisposto da Washington.

Da allora, però, questo progetto è scomparso dalla scena. Nessun testo. Nessun dibattito. Nessuna reazione.

Tracce però molte. Anche se non visibili. Sappiamo che è stato redatto d’intesa con Netanyahu; scontato dunque il pieno appoggio del governo israeliano. Sappiamo anche che non è stato ancora sottoposto all’Autorità palestinese; scontato dunque  che a questa verrà presentato un testo alla cui redazione non avrà minimamente contribuito. Sappiamo, infine, che sono in corso intense discussioni con l’Arabia saudita e altri paesi del cosiddetto blocco sunnita; scontato dunque  che non ci sono ancora le condizioni per proporre un “progetto di pace” corredato dal loro essenziale consenso o anche solo silenzio/assenso.

Ma su questo torneremo tra poco. Perché siamo comunque sin d’ora in grado di capire la filosofia, la visione del mondo che anima il progetto. A spiegarcela, sia pure con un approccio un tantino singolare, il suo “capo di stato maggiore”; l’ambasciatore americano a Gerusalemme, Friedman.

Il Nostro ha davanti agli occhi una realtà che tramuta in sogno. E’ l’ipermercato a nord di Gerusalemme dove israeliani e palestinesi, affiancati davanti ad un set di utensili da cucina o, se preferite, nell’acquisto del telefonino di ultima generazione, tramutano progressivamente la loro vicinanza in fraternità; insomma “oggi a Gerusalemme, domani dappertutto”.

Difficile, però, condividere la sua estatica visione del futuro. E per due ragioni: l’una di carattere generale, l’altra direttamente legata alla realtà locale. In linea generale l’esperienza sembra confermare quanto affermano sondaggi riservati: nel senso che l’ipermercato non è il luogo più propizio per il nascere di nuovi rapporti sentimentali di tipo amicale o sentimentale ( prima di lui una serie infinita di altri luoghi pubblici, a cominciare dalle balere per finire con le parrocchie). Nello specifico, poi, israeliani e palestinesi hanno, qui e oggi, infiniti e quotidiani rapporti di prossimità: ma in una serie a scendere che parte dal casinò di Gerico (o dai migliori alberghi di Ramallah) per andare  giù giù, via perquisizioni, arresti e omicidi (più o meno mirati…) sino  a Hebron e alla non convivenza con i coloni d’assalto. Con la netta prevalenza dell’inimicizia sulla fratellanza.

Pure, la sortita di Friedman riflette in fondo uno dei cardini del Trumppensiero. L’idea che con il denaro si possa ottenere tutto e che la forza faccia automaticamente premio sul diritto. La sua traduzione in chiaro è un’offerta che non conviene né discutere né, in ultima analisi, rifiutare. “Noi siamo disposti a sommergervi di soldi; ma a condizione che rinunciate alle vostre pretese” ( in linguaggio più civile” ai diritti sanciti in un’infinità di risoluzioni internazionali che voi stessi avete formalmente condivisi”). E, “sappiate – lo diciamo per il vostro bene – non potete rifiutare la nostra offerta; perché, se lo fate, ve la faremo pagare; e sino in fondo”.

Messa così, però, è una proposta del tutto inaccettabile, anche per una dirigenza palestinese ancora più moderata dell’attuale; e che non ha alcun possibile riferimento con la situazione di Gaza. Mentre è molto difficile che i dirigenti sunniti, peraltro ampiamente disponibili a passare sotto silenzio la politica dei fatti compiuti, accettino di mettere la loro firma ad avallare la cancellazione sommaria sulla questione palestinese.

Probabile allora che il progetto fantasticato da Trump rimanga per lungo tempo nel cassetto; e che i palestinesi debbano assistere ancora per lungo tempo alla politica dei fatti compiuti e dell’annessione strisciante. Anche se con la piccola soddisfazione di averla subita; ma non avallata.

A copertura del tutto, infine, il silenzio ( pavido ? sdegnoso ? fate voi) dell’Europa; un silenzio tanto assordante da suscitare la protesta pubblica di ben 37 ex ministri degli esteri dell’Unione.

Un tempo, non era così. Un tempo l’Europa non si comportava così. Un tempo l’Europa dichiarava solennemente, a Venezia, che non ci poteva essere pace senza il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Un tempo l’Europa inviava delegazioni su delegazioni “in loco” per spingere i gruppi dirigenti delle due parti verso un possibile accordo, debitamente ascoltate dagli interessati. Un tempo il nostro paese, oggi tra i primi per pavidità, avvisava Gheddafi dei piani americani  per ucciderlo o dichiarava in Parlamento la legittimità della resistenza armata. Un tempo…

Cos’è successo da allora ? Tantissime cose. E, una tra tutte, la scomparsa dei blocchi e dell’Urss. Avremo modo di riparlarne.

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Fonte foto: Israele.net (da Google)

 

 

 

1 commento per “Dall’ipermercato alla pace

  1. ndr60
    12 Maggio 2019 at 18:20

    La normalizzazione di Israele passa anche per altri canali, come ad esempio l’aver permesso “l’acquisto” di una tappa del Giro d’Italia o quello dell’Eurofestival della canzone. Così, ciò che sarebbe stato impensabile per un altro paese in cui vigeva l’apartheid (il Sudafrica), diventa invece del tutto naturale per Israele, anche se il regime sudafricano non bombardò mai le township dei neri col fosforo bianco.
    Quanto alla convivenza, anche nell’antica Roma schiavi e padroni convivevano fianco a fianco, ma i ruoli erano ben definiti, e sono gli stessi che Trump e Netanyahu vorrebbero, per israeliani (di una sola etnia) e tutti gli altri.

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