Ho udito, non molto tempo fa, un giornalista affermare alla radio che senza l’Unione Europea non avremmo in Italia democrazia e diritti – e che comunque nessuno può fornire prove dell’asserto contrario (“non esiste controprova”, mi pare abbia detto).
Più che di una spudorata menzogna potremmo parlare di una smaccata contraffazione della realtà, che assieme all’onere probatorio viene bellamente capovolta: siamo di fronte ad una μυθοποίησις, cioè alla cosciente creazione di un mito – termine che non a caso in greco antico significa “favola”. Giornalisti che anziché descrivere l’esistente ci raccontano favole: ecco il punto di partenza di una breve riflessione dedicata al tema, oggi attualissimo, dei rapporti fra democrazia e comunicazione.
Visto che le astrazioni ci interessano fino a un certo punto, cominceremo la nostra analisi dal dato testuale, partendo non da un’opera qualsiasi, bensì dalla Costituzione del ’48. L’articolo 1 proclama che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e già dalla scelta del participio possiamo desumere utili informazioni sul significato che i costituenti vollero assegnare ad un sostantivo di per sé ambiguo – o, per meglio dire, non di rado ambiguamente adoperato.
Democrazia non è sinonimo di suffragio universale né di multipartitismo, perché gli articoli 2, 3 e 4 trattano di tutt’altro: di diritti fondamentali, doveri civici, uguaglianza effettiva e promozione della piena occupazione. Secondo chi redasse la Costituzione repubblicana non ci può essere democrazia autentica senza diritti civili, sociali ed economici garantiti alla generalità dei cittadini.
Fra i diritti e doveri in ambito civile figurano quelli ricompresi nei primi due commi dell’articolo 21: la libertà di espressione (e comunicazione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e la libertà di informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”). Il riferimento alla “stampa” può essere considerato riduttivo, ma è semplicemente datato: negli anni ’40 i giornali erano il principale mezzo di informazione, con la radio al traino e la televisione che muoveva i primi, incerti passi – ad ogni modo i due commi, letti unitariamente, tutelano la libera informazione comunque veicolata.
Entrambe queste libertà incontrano dei limiti fisiologici e speculari: la critica e più in generale le opinioni devono basarsi su dati reali e mai travalicare nell’offesa gratuita, punita perché lesiva dell’onore o della reputazione del/i soggetto/i preso/i di mira. Sono richieste dunque veridicità (o verosimiglianza) e continenza. Il principio è corretto, anche se di ardua applicazione – ma, come vedremo, le difficoltà nascono in un contesto concreto all’interno del quale agiscono attori fra loro fortemente disomogenei per condizioni sociali e capacità di influenzare l’ambiente circostante. In particolare il pluralismo dell’informazione e la sua indipendenza sono presupposti della democrazia, poiché consentono ai membri della comunità di formarsi idee proprie imperniate su fatti oggettivi.
Mettiamola così: democrazia e informazione non possono che andare a braccetto, e se la prima zoppica ben difficilmente la seconda procederà a passo spedito. Nelle dittature p.c.d. “dichiarate” (di norma dall’Occidente, perché non ce n’è una che si definisca tale!) all’assenza di libertà politica corrisponde il totale asservimento dei media a chi esercita il potere; anche dalle nostre parti, tuttavia, un osservatore minimamente attento nota con facilità la zoppia nell’incedere della coppia di fatto.
Prima di approfondire la tematica tocca però chiedersi: la democrazia, in Italia e in Europa, è un dato oramai acquisito o è rimasta un’enunciazione cartacea? E, se dovessimo optare per la risposta pessimistica, ci troveremmo alle prese con due quesiti ulteriori e piuttosto insidiosi: era ed è inevitabile, tutto questo? Al di là di ciò, il grado di democrazia della nostra società è mutato oppure no nel corso degli ultimi decenni, pur all’interno di una cornice repubblicana apparentemente immodificata?
I temi sono evidentemente intrecciati, e vanno pertanto affrontati congiuntamente. Per farlo mi concederò un parallelismo in apparenza stravagante, e per certi versi quasi blasfemo: quello con il modello di concorrenza perfetta teorizzato da Adam Smith. Il pensatore scozzese riteneva che a garantire l’equilibrio di un mercato concorrenziale fossero necessarie alcune precondizioni: fra queste annoverava l’esistenza di una moltitudine di (piccoli) operatori fra loro omogenei, e di conseguenza impossibilitati a condizionare i prezzi, e la simmetria informativa, vale a dire l’accesso paritario da parte di tutti i partecipanti alle informazioni disponibili. Siamo nel campo dell’astrazione pura: nel mondo reale le cose vanno in tutt’altra maniera, visto che il presente è caratterizzato da monopoli e oligopoli sempre più aggressivi. Casomai la regola funziona in alcune strade di Madrid, dove decine di bar si contendono la clientela offrendo menù similari, ma de minimis non curat praetor e comunque l’argomento di questa trattazione non sono patatas bravas e tintos de verano: volevo soltanto sottolineare che i presupposti della c.d. concorrenza perfetta somigliano parecchio a quelli della democrazia come oggi la intendiamo (o, Carta alla mano, dovremmo intenderla). Traduciamo impossibilità di influenzare i prezzi in impossibilità, da parte di un soggetto privato, di plagiare l’altrui volontà e lasciamo pure immutato il requisito dell’accesso su base paritaria alle informazioni: ecco ergersi dinanzi a noi i pilastri di una democrazia non fasulla. Utopia anche questa allora? Andiamoci piano: esperienze storiche più rimarchevoli della movida spagnola attestano che qualcosa del genere si è realizzato in passato, anche se gli ordinamenti antichi non erano in condizione – né si ponevano il problema – di assicurare servizi quali ad esempio un’efficiente sanità pubblica[1], assurta a “diritto” (ma lo è ancora?) per effetto, da un lato, dell’evoluzione scientifica e tecnologica, di alcune teorizzazioni di matrice illuministica dall’altro. Ad ogni modo la democrazia-modello è un fantasma dalle fattezze ben riconoscibili: implica la piena uguaglianza tra i cives e una totale accettazione delle “regole del gioco” da parte di chi vi partecipa, oltre ad una coscienza solidaristica che spinge ciascuno a porre le proprie abilità al servizio del prossimo; inoltre non abbisogna di (anzi: disdegna!) organi rappresentativi e corpi intermedi. Se di utopia si tratta, è quella immaginata da Karl Marx: una sorta di Gerusalemme terrena, edificata sulle rovine dello sfruttamento capitalista.
La perfezione affascina sempre, ma potremmo accontentarci di molto meno: sarebbe senz’altro democratico – nella sostanza, non solo nella forma – uno Stato che, anziché scomparire, promuovesse al proprio interno un relativo egualitarismo socio-economico fra i cittadini, il godimento indifferenziato di diritti basilari (quelli elencati nella Parte prima della nostra Costituzione, per capirci) e il pluralismo delle opinioni. Quest’animale estinto (o fantastico) potremmo a ragione chiamarlo “socialdemocrazia”. Il problema è che il presente non ci addita alcun esempio di Stato democratico, perlomeno nel c.d. Occidente: ovunque operano gruppi di potere privati strapotenti e infiltrati nelle istituzioni (lobbies, multinazionali, organizzazioni di produttori ecc.) che condizionano la totalità delle scelte politiche senza rinunciare a plasmare menti e coscienze. Le èlite sovranazionali sono classe in sé e per sé, che cura – imponendoli – interessi di parte incompatibili con quelli generali e soprattutto con quelli della maggioranza dei socii, degradati a sudditi, e dove c’è sudditanza non può esservi democrazia: semmai un suo formalistico surrogato, composto di votazioni ininfluenti e retorica elargita a piene mani[2].
Eppure non è andata sempre così: in Italia per due decenni (’60-’70) e altrove per almeno tre abbiamo assistito ad un innegabile progresso sociale, culminato da noi nell’approvazione di riforme – penso allo Statuto dei lavoratori o all’istituzione del Servizio sanitario nazionale – che davano concretezza ai principi contenuti nella Costituzione repubblicana. Non è stato frutto del caso, bensì di particolari condizioni storico-politiche interne (la combattività di forti partiti marxisti, capaci di mobilitare milioni di aderenti) e soprattutto esterne (l’esistenza di un blocco alternativo cui guardare, oltretutto minaccioso e ben armato) che consigliavano prudenza al ceto dominante. Possiamo descrivere la c.d. Prima Repubblica come un regime democratico? No e sì: no perché residuavano pesanti disparità di classe, inaccettabili in una socialdemocrazia adulta, sì perché il predominio degli ottimati incontrava forti limiti, l’ascensore sociale funzionava e le informazioni non erano manipolabili ad libitum come avviene al giorno d’oggi, epoca in cui la democrazia è ridotta a reality show e le disuguaglianze crescono a ritmo incessante in ogni campo. Penso che dell’ultimo assunto non occorrano prove (peraltro fornite a bizzeffe in altre occasioni): trattasi di fatto notorio e “accettato[3]”, come testimoniano le frasi scritte mercoledì 1 maggio da Silvia Truzzi (“Se pensa – Fedez – a tutti quegli articoli della Costituzione (la Repubblica fondata sul lavoro, la vita dignitosa garantita dalla retribuzione, la piena realizzazione della persona) chiariamoci: sono carta straccia da tempo. Della stagione dei diritti si è fatto carne da macello, il lavoro è l’elemosina di un capitale sempre più ingordo e miope ecc.”) su Il Fatto quotidiano, giornale benemerito ma che non aspira al ruolo di nuova Iskra.
Nelle condizioni attuali è dunque logico che i diritti sanciti dalla Parte prima della Costituzione siano, come chiosa la giornalista, “carta straccia” – tutti, compresi quelli ad esprimersi, a informare e ad essere informati, cui accennavamo in apertura. Per quanto riguarda la libertà di espressione essa è favorita quando imita la propaganda sistemica, tollerata se gli accenti critici si smarriscono in una babele di giudizi conformistici senza lasciare il segno; laddove invece agisca come una sferza efficace è agevole per il sistema conculcarla, esponendo chi contesta al dileggio, all’ostracismo sociale ovvero – sempre più di frequente – a pesanti intimidazioni a sfondo economico. Più della minaccia di querele è l’(ab)uso ormai sistematico di azioni risarcitorie da parte di soggetti ben provvisti di risorse – e dunque in grado di pagarsi abili avvocati – a suggerire agli oppositori di rimanere in silenzio, pena danni devastanti: rimedi concessi in via eccezionale alle vittime di offese e menzogne sono divenuti strumenti di impiego quasi quotidiano, spade di Damocle perennemente in bilico sulle teste di chi s’azzarda ad aprir bocca. Prima di dire la tua – consiglia premuroso il sistema, squadernando i codici – valuta bene le possibili conseguenze delle tue parole: il confine tra legittimo biasimo e lesione dell’altrui reputazione è labile, e lo diventa ogni giorno di più. Inoltre l’enorme sproporzione di mezzi tra il comune cittadino e l’appartenente all’élite fa sì che sovente a quest’ultimo basti dar segno di insofferenza per conseguire l’effetto voluto[4].
La denuncia, naturalmente, esplica la sua efficacia deterrente tanto nei confronti dell’opinionista di strada quanto in quelli dei giornalisti o degli organi di stampa poco propensi a farsi megafono di verità ufficiali: si tratta in genere di soggetti economicamente fragili, per l’assenza di finanziatori più o meno occulti, e dunque esposti alla rovina o alla chiusura. Mosche bianche, comunque: in genere i media, di proprietà privata o pubblica che siano, sono bene irreggimentati e ligi ai propri “obblighi statutari”, fra i quali non rientra l’obiettività. Approcciando la tematica dell’informazione c.d. libera (pressoché tutti i quotidiani proclamano, in testata, la loro “indipendenza”) viene in mente la battuta di F. Engels sullo Stato libero: “Lo Stato popolare libero si è trasformato in Stato libero. Secondo il senso grammaticale di queste parole, uno Stato libero è quello che è libero verso i suoi cittadini, cioè è uno Stato con un governo dispotico[1].” Oggidì, in Occidente, l’informazione è “libera” nel senso che non racconta le cose come stanno[2], ma come le pare e piace – rectius: nella maniera di volta in volta più gradita all’èlite dominante sovranazionale, che ha il suo centro di interessi a Washington D.C. ed un’importante succursale a Bruxelles.
Un esempio clamoroso ci viene dalla trattazione della vicenda venezuelana: i media ufficiali non hanno esitato neppure un istante ad abbracciare la causa di tal Juan Guaidó, un tizio che – dopo essersi autonominato Presidente del Paese in dispregio di ogni legalità – ha invocato un intervento militare esterno (cioè dei suoi pupari statunitensi) e di seguito tentato un golpe miseramente fallito. Per lui solo parole al miele, lodi ed interviste ossequiose, mentre il Presidente eletto, Nicolás Maduro, viene sistematicamente insultato con epiteti come tiranno e dittatore e accusato di ogni nefandezza possibile immaginabile[3]. La reductio ad Hitlerum[4], sperimentata con successo contro Saddam Hussein, trova ormai applicazione nei confronti di qualsiasi avversario degli Stati Uniti d’America, e l’informazione suona la grancassa alle “verità” sistemiche, mentre su casi imbarazzanti come quello che riguarda Julian Assange tace pudicamente, mettendo da parte scrupoli e virtuosi proclami[5]. Abbiamo insomma un’informazione forcaiola nei riguardi di certuni, che si riscopre rispettosa e garantista quando a essere a repentaglio è il buon nome di eroi del nostro mondo (iperliberista) come Macron, il premier israeliano o qualche pio dinasta arabo.
Quella di propaganda vecchio stampo[6] non è l’unica funzione che l’odierno capitalismo americanocentrico assegna ai propri media: ad essa se ne affianca un’altra, consistente nell’ingenerare spaesamento, apprensione e – all’occorrenza – un senso di inadeguatezza e vergogna nei consumatori di notizie.
L’enfatizzazione di un “incombente” pericolo fascista, grottescamente ingigantito dai media con l’entusiastica collaborazione di residui di sinistra ormai rassegnati alla convivenza con il Capitale e le sue istituzioni, fa il paio con la maniera in cui vengono trattate tematiche quali l’immigrazione e la c.d. violenza di genere. Nei confronti dei migranti i mezzi di informazione ostentano un pietismo intriso di sdolcinata benevolenza: esibiscono foto e pagelle di poveri fanciulli annegati, descrivono situazioni disumane al di là del mare, inquadrano trepidanti barche in balia delle onde e tessono le lodi delle ONG in blocco, senza manco distinguere tra un Gino Strada e un Catrambone. Invitano esplicitamente all’accoglienza, condannando senza appello muri e porti chiusi, ma – al pari dei partiti sistemici – spengono le telecamere a sbarco avvenuto[7], se non per soffermarsi quotidianamente sui reati commessi da questo o quell’immigrato e rammentarci che, di qui a breve, dall’Africa e dalle periferie del mondo arriveranno a centinaia di milioni. Istillano, insomma, un senso di colpa collettivo (la responsabilità è di noi occidentali, sentenziano, tralasciando qualsiasi distinzione tra chi il Terzo Mondo lo sfrutta davvero e chi si limita a essere sfruttato nel Primo…) frammisto a insicurezza e paura provocate da un fenomeno descritto come ineluttabile[8]. Cosa provoca nel “bersaglio” della comunicazione questo cocktail di emozioni? Non occorre essere degli esperti per capirlo: paralisi, incapacità di reagire, timoroso autoisolamento – proprio ciò che favorisce l’affermarsi di un’economia fortemente ideologizzata la quale, per non incontrare ostacoli alla propria capillare diffusione, abbisogna di persone sole e indifese.
Vogliamo parlare della piaga del c.d. femminicidio[9]? Parliamone, visto che tv, radio e giornali lo fanno quotidianamente. Sembra quasi, a prestar fede ai media, che in ogni maschio si nasconda un potenziale assassino di partner ed ex: “peccato” che le statistiche affermino che i casi di violenza c.d. di genere sono, per fortuna, in calo[10]. Un tempo, fra l’altro, venivano raramente denunciati, ma anche qui l’intento che sta alla base della campagna è evidente: bisogna disgregare ogni struttura sociale e – in via preventiva – ostacolarne persino la formazione. Da questo punto di vista la farsa denominata Me too è ancor più efficace: il ripescaggio di episodi accaduti 20-30 anni fa ci ammonisce che nessuno è al sicuro, e soprattutto che non conviene stringere legami di alcun genere. Meglio soli, perennemente soli e spaventati, come aggrada al Capitale. Attenzione: quest’ansia di non “sbagliare” sta colonizzando le nostre coscienze, moltiplicata dal proliferare di sanzioni che interessano tutti i campi, da quello privato a quello lavorativo.
Dobbiamo sentirci tutti colpevoli, e come tali nasconderci, sparire da una scena sulla quale verremo ammessi soltanto come consumatori-comparse – uno alla volta, naturalmente, onde evitare che in gruppo “si faccia casino”, disturbando il manovratore.
Quello che voglio dire è che al giorno d’oggi l’informazione non è affatto indipendente, e non solo perché alcuni giornali sono house organ di singoli gruppi imprenditoriali (il connubio tra Fiat e La Stampa è un caso da manuale): più in generale perché la quasi totalità dei media[11] sta nelle mani di una ristretta classe sociale che è ben consapevole dei propri interessi antagonistici rispetto a quelli delle cosiddette masse e sa magnificamente perseguirli. Nella sua fase attuale il capitalismo d’Occidente non può convivere con democrazia e libertà di stampa (intesa in senso lato) ma, amante com’è delle forme, tiene opportunisticamente in piedi i loro simulacri: tornano utili. Da noi, nella vituperata Prima Repubblica, le cose andavano in maniera un poco diversa, ma banalmente perché all’esistenza di solidi partiti antisistema faceva riscontro quella di una stampa “dipendente” (comunista, socialista ecc.) votata alla controinformazione, oltre che di diritti sociali degni di questo nome[12].
Volessimo riassumere quanto fin qui scritto in una sintetica formula potremmo concludere che l’obiettività dell’informazione all’interno di un sistema politico-sociale è direttamente proporzionale al suo grado di democrazia: bassissimo nell’odierno regime neoliberista, un totalitarismo talmente perfetto da non aver di norma bisogno di imprigionare i corpi, essendosi impadronito delle menti attraverso psyops.
Mi si potrebbe obiettare che la libera circolazione online di queste mie cinque paginette contraddice l’assunto in esse contenuto, ma in realtà lo avvalora: voi lettori – mi ripeto – siete lo sparuto pubblico di un comiziante da Speakers’ Corner.
[1] Tuttavia l’impero Incas, una civiltà precolombiana dell’età del bronzo, si prendeva carico della sopravvivenza dei sudditi nei periodi di carestia mediante una diffusa rete di magazzini statali, e nell’antica Roma le periodiche frumentationes offrivano sollievo alla popolazione indigente.
[2] Non si può non citare a questo punto un libro quasi profetico – “quasi” perché nell’anno in cui apparve (il 2004) il processo di de-democratizzazione era in corso da lustri, “profetico” poiché nessuno se n’era accorto o aveva osato denunciare prima la sconcia nudità del re: Sudditi, manifesto contro la democrazia di M. FINI.
[3] Non sarebbe altrimenti concepibile l’esplicita opposizione, in nome di un’acritica e ostentata adesione al modello liberalschiavista, a progetti neanche troppo convinti di riduzione delle diseguaglianze come l’introduzione di un salario minimo per i lavoratori e la sacrosanta limitazione delle aperture domenicali degli esercizi commerciali.
[4] Un tempo i “querelomani” li incontravamo nei testi di diritto penale e in pubblicazioni scientifiche: oggi li troviamo comodamente assisi in Parlamento: https://www.secoloditalia.it/2019/02/pagheranno-caro-pagheranno-tutti-renzi-furioso-querela-travaglio-vuole-giustizia-e-un-sacco-di-soldi/
[5] Contenuta nella lettera ad August Bebel del 1875: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-la.htm.
[6] O lo fa in ritardo, fra mille titubanze: https://www.youtube.com/watch?v=4ZC2Wpxo8DM.
[7] Anche della denutrizione nello Yemen, a giudicare da certe fotografie!
[8] Copyright di Diego Fusaro.
[9] E la “rivoluzionaria” Greta Thunberg, beatificata da stampa e televisioni? Non ho motivo di dubitare della buona fede di una sedicenne, dico soltanto che se fosse realmente pericolosa la tratterebbero come gli studenti francesi in gilet giallo: a manganellate.
[10] Che prudenzialmente possiamo far risalire a Ramses II, che trasformò una quasi disfatta (Qadesh) in una monumentale vittoria…
[11] Lo schiavo nei campi di pomodoro fa notizia solamente se capita qualcosa di altamente drammatico, altrimenti rientra – a quanto pare – nell’ordinaria amministrazione.
[12] Si noti: non sto esprimendo un giudizio sul fenomeno migratorio (per il quale rimando a precedenti scritti), ma sul modo in cui – a reti unificate – ci viene narrato.
[13] Il correttore segna la parola in rosso, dunque come un “errore grave” (di diritto, mi sento di aggiungere). Vogliamo scommettere che presto anche l’informatica si adeguerà alla nuova vulgata? Altra scommessa: il termine maschicidio non diverrà mai di moda.
[14] Si veda l’accurata e documentata analisi contenuta nel libro di F. Marchi Contromano – Critica dell’ideologia politicamente corretta.
[15] E tutti quelli realmente influenti.
[16] E pure di una tv che si prefiggeva lo scopo di acculturare il popolo, trasmettendo sceneggiati ecc.; poi, a metà anni ’80, si passa con Drive in a “danze dei sette veli” inscenate per rincitrullire un sovrano (ex art. 1) che non dovrà più avvicinarsi troppo alla reggia.
Fonte foto: Savoia – Benincasa (da Google)