Trieste, porto conteso nel (falso) nome della “democrazia”

Non sono un esperto di “vie della seta”, anche se ho percorso un breve tratto di quella storica, e neppure – questo è ovvio – sono al corrente dei contenuti di un ipotetico accordo fra Italia e Cina riguardante (anche) il porto di Trieste: immagino, da profano, che esso arrecherebbe alla città vantaggi economici, potrebbe arrestarne il declino (persino quello demografico, in ipotesi), ma non è questo il tema della mia breve riflessione.

Sottolineo piuttosto il tono rassegnato e in certi casi “inspiegabilmente” garrulo con cui la politica giuliana ha accolto l’intervento a gamba tesa di Stati Uniti e UE sulla questione: questo matrimonio non s’ha da fare, ci intimano – col tono di un bravaccio qualsiasi. Se il mondo fosse come i media ce lo dipingono, una tale ingerenza sarebbe assurda, sbalorditiva: ma come, non è forse parte il nostro Paese di una sorta di salvifico “asse del bene”, un consesso di virtuose nazioni democratiche che, su un piano di parità e rispetto reciproco, collaborano per garantire al pianeta pace e prosperità affidandosi alla libera contrattazione? Non sarebbe la cooperazione con la gigantesca economia cinese un modo per favorire la crescita, non solo locale, sbloccare un Pil asfittico e magari gettare le basi per migliori rapporti con l’Estremo Oriente? In questa via ci sono molti TAV, verrebbe ironicamente da chiosare.

E invece no, perché il Padrone d’oltreoceano non vuole: uno Stato valvassore, quale è considerata l’Italia, può anche ingegnarsi per crescere, ma sempre nell’osservanza scrupolosa del patto leonino che ci piega agli interessi imperiali dell’oligarchia a stelle e strisce. Un’alleanza altrimenti anacronistica, la NATO, e il reticolo di impedimenti noto come Unione Europea si rivelano per quello che realmente sono: strumenti di dominio in pugno all’élite economico-finanziaria che ha per propria capitale Washington e conduce una guerra senza remissione contro la parte del mondo non (ancora) allineata.

L’accerchiamento della Russia sta riuscendo solo in parte, grazie all’abilità di Putin, ma l’Iran fatica a parare colpi concentrici e sempre più bassi che gli vengono inferti senza sosta, e la riconquista del Sud America “dimenticato” da Bush II è ormai quasi completata: in Brasile il golpe è stato attuato per via giudiziaria da un “eroe” subito premiato con uno scranno ministeriale, in Ecuador si sono comprati addirittura un Lenin (Moreno); da ultimo, in Venezuela, sta andando in scena il grottesco spettacolo di un golpista fotogenico additato a testimonial di democrazia da pupari privi di scrupoli che – come ci ricorda Pino Arlacchi – dopo aver strangolato il Paese con l’embargo e feroci sanzioni, ricorrendo a un modus operandi tristemente collaudato, attribuiscono sfrontatamente la responsabilità della crisi economica a un governo la cui colpa principale è quella di non essere asservito agli USA. Sembra una tragica pochade, ma la servitù – quella autentica – non ride né s’indigna: al contrario, ripete pappagallescamente slogan coniati da esperti di psyops in stasi creativa e inneggia a una “democrazia” che non a caso fa rima con parodia. Black out, insomma – e non solo a Caracas: all over Europe.

Chi si salva per il momento? Il paffuto Kim Jong Un, trattato con i guanti perché ha avuto il buon senso di farsi l’atomica, cioè l’unica assicurazione sulla vita (non solamente politica) oggidì efficace.

Da noi europei di serie B, infine, si pretende obbedienza perinde ac cadaver (non è una metafora: la Grecia insegna), quindi il niet americano all’intensificazione dei legami tra la Cina e Trieste (cioè l’Italia) non va nemmeno considerato un’invasione di campo, ma una semplice tirata alle briglie. A questo stato di cose, che platealmente contraddice la mascherata informativa, si può reagire con rassegnazione – se lo si tollera –, addirittura con entusiasmo se lo si accetta di buon grado, magari facendo parte di una sub-élite locale; se invece lo si ritiene intollerabile tocca adoperarsi per cambiarlo, vale a dire per recuperare uno spazio autonomo, al di fuori di alleanze oppressive, carceri economiche continentali e sistemi pensati e “implementati” per distribuire a pochissimi l’immensa ricchezza prodotta da molti.

Senza rivoluzionare l’esistente si potrà, al più, fare filosofia da salotto e, nella migliore delle ipotesi, vedersi accreditare una bella indennità per concioni in parlamento che hanno – e avranno – le stesse ricadute pratiche di un discorso estemporaneo allo Speakers’ corner.

 

NB: pare che sull’accordo con la Cina il Governo Conte – quello che, per primo, ha osato batterli per davvero, i pugni in Europa – voglia andare avanti. Ne sono lieto, ma per il momento siamo alle intenzioni, e una crisi politica non meno “assurda” di questa vicenda già incombe.

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Fonte foto: glistatigenerali.com (da Google)

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