Vengono chiamati ipocritamente “migranti” ma dovrebbero essere chiamati per quella che è la loro reale condizione, cioè espulsi. Perché di questo si tratta.
Nessuno, infatti, ha mai scelto di emigrare per gusto dell’esotico ma per una dolorosa necessità, quella di sopravvivere, di cercare un’esistenza più dignitosa e di sfuggire alla povertà, alla miseria, al saccheggio, allo sfruttamento e a condizioni di vita che ad un certo momento non si ritengono più sopportabili. E allora si sceglie di emigrare, pur essendo consapevoli delle immani difficoltà a cui si andrà incontro, che per lo più ci si ritroverà in un ambiente ostile e che si continuerà, nella maggior parte dei casi, ad essere sfruttati. E però, la speranza – spesso anche concreta – di migliorare la propria esistenza e quella delle rispettive famiglie vince qualsiasi resistenza. Del resto, chi ha avuto la ventura e la possibilità di viaggiare fuori del contesto occidentale, sa perfettamente quali sono le condizioni di vita – inimmaginabili e invivibili per noi occidentali – di miliardi di persone in tutto il pianeta. Condizioni di vita miserabili che il nostro mondo (occidentale) ha contribuito a creare ed alimentare – nonostante ciò che sostengono i cantori a prescindere della globalizzazione – in virtù (si fa per dire) di un saccheggio sistematico e di scientifiche politiche di rapina a mano armata, nel senso letterale del termine, perpetrate nel corso dei secoli ai danni del resto del pianeta.
Del tutto normale, quindi, che uno degli effetti di questa spoliazione e di questo sfruttamento sistematico, sia l’immigrazione. Ma, appunto, come dicevo, sarebbe più corretto definirla espulsione.
Volendo sintetizzare all’inverosimile, sono fondamentalmente due le tipologie di “espulsi”. Ma questo più o meno da sempre, non da ieri, e in tutti i contesti storici. Restiamo però al presente per evitare di ampliare troppo il discorso.
La prima tipologia è formata da quelli che non hanno più nulla di nulla (se mai lo hanno avuto…), che hanno perso il lavoro oppure quello che hanno non è sufficiente neanche a soddisfare i più elementari bisogni legati alla mera sopravvivenza. Si tratta di persone con un livello di istruzione generalmente molto basso e il più delle volte sprovviste di qualsiasi competenza tecnica (oppure quella che hanno è del tutto inadeguata rispetto a quello che il “mercato” richiederebbe ai fini di un miglioramento della propria condizione professionale e sociale; pensiamo ad esempio alla massa di braccianti o di pastori o in generale di “lavoratori di fatica”, minatori, operai edili, manovali ecc. provenienti dall’Africa ma anche dall’Asia e dall’America Latina …). Questi sono dei nullatenenti, dei proletari nel vero senso del termine, cioè persone che non posseggono nulla se non le proprie braccia, la propria forza-lavoro e il “potere” di procreare, così da avere dei figli da avviare quanto prima al lavoro.
La seconda è invece formata da persone con un livello di istruzione più alto, che hanno condizioni relativamente migliori di esistenza (che restano, per i nostri standard occidentali, comunque miserabili…), che svolgono mestieri più qualificati rispetto alla media dei loro connazionali, e quindi con un tasso di conoscenza e consapevolezza sicuramente superiore. Questa fascia – cum (molto…) grano salis (e sempre ricordando che i nostri parametri occidentali sono ben altri…) – può essere considerata di piccola borghesia. Si tratta di quella fascia sociale che è cresciuta all’ombra del colonialismo il quale comunque aveva necessità, oltre che di appoggiarsi sui ceti sociali dominanti locali (formati da famiglie di proprietari, congregazioni religiose, clan e tribù dominanti varie ecc.) anche di una relativamente ampia fascia di “impiegati”, funzionari e dipendenti amministrativi, militari, poliziotti, addetti ai servizi, operai più o meno qualificati ecc.), ai vari livelli, naturalmente, dai più “alti” (sempre cum grano salis…) fino ai più bassi.
I figli di questa fascia sociale che per capirci definiamo piccolo borghese (lo ribadisco fino alla noia, sempre in relazione al contesto…) sono ovviamente più sensibili al richiamo del mondo occidentale nel quale vedono la possibilità di un riscatto o comunque di migliorare sensibilmente la loro condizione di vita. Del resto, è del tutto naturale e anche umanamente comprensibile che questa gente aspiri ad una vita più dignitosa.
Dopo di che c’è anche una componente ideologica che gioca la sua parte. Infatti, l’assenza di coscienza politica e di classe da parte dei ceti sociali subalterni – conseguenza del trionfo e dell’egemonia del capitale su scala mondiale – non è un fenomeno che riguarda soltanto i paesi capitalisti avanzati ma molto spesso anche i paesi coloniali o ex coloniali. Fino ad una trentina o una quarantina di anni fa i movimenti di liberazione anticolonialisti e antimperialisti africani, ad esempio, erano protagonisti dei grandi processi di liberazione che coinvolgevano intere masse popolari, dall’Algeria al Sudafrica, dall’Angola allo Zimbabwe, dalla Namibia al Mozambico, dai Saharawi al Benin, e via discorrendo. Quella spinta, purtroppo, si è esaurita da tempo (solo oggi siamo in grado di osservare con lucidità gli effetti del crollo del socialismo reale, pur con tutte le sue storture…) e anche le masse africane sono rimaste sole, ideologicamente, culturalmente e politicamente disarmate. Ovvio, quindi, che in questo deserto non solo metaforico, in una pressochè totale assenza di prospettive, l’unico orizzonte se non l’unica speranza sia quella di emigrare e cercare miglior sorte altrove. Quindi, anche in questo caso faremmo cosa giusta a parlare di espulsi e non di migranti. Ripetiamolo per maggior chiarezza. Si sceglie di emigrare per necessità e non per il piacere dell’avventura. Diversa la scelta di vivere in un altro paese per le ragioni più svariate; perché ci si trova meglio, perché ci piace di più, per il clima, perché ci è capitata una buona occasione professionale o magari per ragioni affettive o sentimentali o perché ci siamo innamorati di una persona. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’immigrazione che è, sempre, una scelta forzata, dettata da ragioni che nulla hanno a che vedere con una libera scelta.
Perché, dunque, chiamiamo migranti quelli che in realtà sono degli espulsi?
Per ipocrisia. Vediamo di capire il perché.
Il termine “migranti” torna molto utile sia alla vulgata ideologica e mediatica di destra che a quella politicamente corretta e di “sinistra” appunto perché serve a camuffare la realtà vera, e cioè che i “migranti” sono in realtà degli espulsi. Se infatti dovesse emergere che di espulsi in effetti si tratta, si dovrebbe spiegare alla “pubblica opinione” che la presenza degli immigrati (siano essi africani, asiatici o sudamericani) in Europa è in effetti dovuta a quel processo di sistematica spoliazione, saccheggio e sfruttamento che l’Europa stessa (per non parlare degli USA ma anche del Giappone) ha perpetrato per secoli ai danni di quei popoli. E gli si dovrebbe anche spiegare che tale processo è tuttora in corso. Non solo. Gli si dovrebbe spiegare che il relativo benessere di cui una larga porzione di popolazione europea gode (in buona parte la stessa che si lamenta per la presenza degli immigrati…) è proprio dovuto a quel processo di scientifica e sistematica spoliazione. Ma, ovviamente, questo la destra non lo può spiegare, altrimenti non sarebbe più tale ma un’altra cosa.
Ma non lo può fare neanche la “sinistra” la quale, per mantenere la sua funzione di garante della “governance” non può denunciare la realtà di cui sopra e deve limitarsi a recitare la parte del volto “buono, solidaristico e accogliente” del sistema, a differenza – appunto – della destra che invece recita la parte del volto “cattivo”, quello della chiusura delle frontiere, dei respingimenti violenti, dei fili spinati, dei muri ecc.
Nessuna delle due, quindi, spiega come stanno esattamente le cose, ed entrambe contribuiscono al depistaggio ideologico. Dal confronto-scontro fra queste due vulgate, entrambe organiche al sistema capitalista di cui sono un derivato, nasce una sorta di corto circuito che divide l’opinione pubblica ma anche le masse popolari. Da una parte la “sinistra” serve a coprire ideologicamente il processo di espulsione forzata e di sradicamento di masse sempre più crescenti di popolazione mondiale che serve alla costruzione di un “mercato del lavoro” (è veramente il caso di chiamarlo mercato, nel vero senso del termine…) formato da lavoratori ultra flessibili, ultra precarizzati e sradicati che vanno ad ingrossare le fila di un enorme esercito industriale di riserva. Questo processo viene appunto coperto e ideologicamente giustificato come il diritto di tutti ad emigrare, come se – appunto – l’immigrazione fosse una libera scelta e non una drammatica e dolorosa necessità a cui se si potesse si rinuncerebbe volentieri.
Dall’altra la destra – occultando le vere cause dell’immigrazione (se le denunciasse equivarrebbe a suicidarsi…) – alimenta lo scontro fra lavoratori autoctoni e immigrati (cioè espulsi dalle loro terre e paesi) spiegando e purtroppo molto spesso convincendo i primi che la causa del loro disagio sono i secondi che “gli tolgono il lavoro” e usufruiscono di risorse, servizi sociali e fantomatici privilegi di cui loro non godono.
Il risultato finale di questo confronto-scontro è, come dicevo, una sorta di corto circuito da cui traggono vantaggio i famosi “padroni del vapore”, cioè il sistema capitalista che ha interesse ad un mercato selvaggio del lavoro e dei lavoratori, che devono essere in competizione l’uno contro l’altro; in altre parole, a farsi la guerra.
Come vediamo, sia la destra che l’attuale “sinistra” servono da coperchio ideologico. E c’è da dire che ci riescono, purtroppo, e anche bene, perché ormai la grande maggioranza delle persone è divisa per tifoserie: i pro immigrazione (una parte consistente della media e piccola borghesia e una parte, ma non maggioritaria, dei ceti popolari) e gli anti immigrazione (un’altra parte di media e piccola borghesia, e la parte maggioritaria dei ceti popolari). L’alta borghesia (oggi rappresentata dal grande capitale nazionale e transnazionale) – sempre provvista di coscienza di classe a differenza dei ceti popolari e subordinati – si limita ad osservare dall’alto questa querelle alimentata ad hoc. Per cui da una parte sposa il “cosmopolitismo” e il “multiculturalismo” in salsa liberal e politicamente corretta, e dall’altra lascia sciolti i suoi cani da guardia della destra, consapevole che proprio questa finta “dialettica” consolida il suo dominio.
Su come affrontare la questione dell’immigrazione – che naturalmente è un fenomeno reale e non soltanto una bolla mediatica – rimando ad altri articoli che ho scritto e ad altri che scriverò prossimamente. Lo scopo di questo articolo era un altro.
Foto: Il Giornale (da Google)