Sono ben felice di pubblicare questa interessantissima e lucidissima analisi di Eros Barone, un pensatore marxista di razza, come si suol dire, che mi onora personalmente della sua attenzione, rispondendo ad un mio articolo nel quale, a mia volta, commentavo una sua riflessione. Non mi aspettavo e non speravo tanto e, naturalmente, lo ringrazio per il tempo, l’attenzione e le energie che mi ha dedicato. Superfluo dire che sarò e saremo ben felici di ospitare ulteriori suoi contributi che portano lustro al nostro giornale.
(Fabrizio Marchi)
«Amico, non veniamo per Callia e non siamo sofisti. Forza, apri! Siamo venuti per vedere Protagora. Digli che siamo qui!»
Platone, Protagora, 314, c-e.
Ringrazio innanzitutto Fabrizio Marchi per avermi offerto la preziosa e stimolante opportunità di sviluppare e approfondire il discorso a partire dai punti di consenso e di dissenso che egli ha espresso, sia pur sinteticamente, nella nota dedicata ad alcuni aspetti cruciali del dilemma “Dialettica o eclettismo?” qui , che ho posto al centro del mio articolo qui, laddove non può sfuggire l’importanza teorica e il carattere dirimente di tale dilemma sia nell’analisi scientifica che nell’orientamento pratico del movimento di classe. Seguirò quindi, nella mia disàmina, l’ordine di successione adottato da Marchi nella sua nota.
- Il ‘metodo delle etero-integrazioni’ e l’autonomia teorica del marxismo
Prima di entrare nel merito delle questioni poste dal mio interlocutore, ritengo opportuno premettere alcune considerazioni generali e di metodo. Orbene, è un classico ‘topos’ della cultura borghese di sinistra, al quale mi sembra che anche Marchi in qualche misura soggiaccia, distinguere tra un marxismo ‘critico’ ed ‘aperto’ e un marxismo ‘dogmatico’ e ‘chiuso’. Questa distinzione è stata spesso assunta e fatta propria da un buon numero di marxisti i quali, non avendola basata sui propri princìpi, cioè in sostanza non avendola ritradotta in un linguaggio rigoroso, hanno finito col mutuarne tutto il contenuto ideologico di origine: ciò è avvenuto non solo in Occidente, ma anche negli stessi paesi socialisti, quantunque lì la ricezione del ‘topos’ sia avvenuta ‘a posteriori’, cioè per opporre il nuovo ‘Diamat’ al vecchio ‘Diamat’. In realtà, la suddetta ricezione si è sempre realizzata, in un senso o nell’altro, sull’onda di una qualche ‘criticità’ del pensiero borghese, da integrare in quello marxista.
La categoria filosofica della ‘critica’, infatti, è nata con la borghesia, ma i suoi contenuti sono così poco immutabili (essendo determinati dagli stadi del modo di produzione capitalistico e dal conflitto tra le classi) che, nel passaggio dalla fase rivoluzionaria della borghesia a quella imperialista, si sono quasi completamente rovesciati.
Pertanto, la principale conseguenza dell’‘apertura’ della teoria verso le ‘criticità’ proprie del pensiero borghese è stata l’immediata dissoluzione dei princìpi di sistematicità propri di una teoria scientifica, quale è e vuole essere la teoria marxista. In questo senso, si potrebbe affermare, sotto il profilo epistemologico, che questo è il punto di partenza di quel processo teorico, ideologico, politico e culturale in cui consiste il revisionismo. Se la teoria marxista cessa di essere scientifica perché irrigidisce ‘dogmaticamente’ i princìpi (ma oggi la situazione è proprio quella opposta), non meno cessa di essere scientifica la teoria marxista che adotta come prassi il ‘metodo delle etero-integrazioni’ e il ‘liberalismo dei princìpi’, ossia l’accoglimento di princìpi che sul piano sistematico si elidono a vicenda o, per meglio dire, elidono quelli propri della teoria marxista. A questo primo effetto della ‘criticità’ – cioè la disposizione a trattare per principio relativisticamente e dubitativamente i propri princìpi e quindi ad accoglierne ‘liberalmente’ di nuovi, per lo più distruttivi dei primi – se ne aggiunge e connette un secondo più specifico: l’assorbimento degli elementi antimaterialistici e antidialettici che nel pensiero borghese sono sottesi a quella categoria. Si tratta chiaramente di una posizione teorica revisionista, il cui fondamento filosofico è lo storicismo, inteso (non come riconoscimento di una storicità correlata alla dinamica differenziale dei modi di produzione e della lotta fra le classi ma) come forma di relativizzazione e liquidazione dei princìpi teorici del marxismo-leninismo. La versione ormai classica di questo storicismo, la cui origine risale al famoso saggio di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione partenopea del 1799, è quella che Togliatti ha elaborato nel nostro paese, dando vita ad una variante sofisticata (ma pur sempre controrivoluzionaria) di revisionismo, i cui amari frutti (istituzionali, politici e culturali) stiamo ‘gustando’, come militanti della sinistra di classe, da alcuni decenni. Né vi è bisogno di aggiungere, a questo punto, che il marxismo è, al contrario, una concezione “totalitaria” del mondo, proprio nel senso di Labriola ripreso da Gramsci: «Solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente». E invero l’autonomia teoretica e il metodo della critica immanente nella battaglia delle idee contro il pensiero borghese, piccolo-borghese e revisionista costituiscono nel marxismo quell’unità degli opposti in cui consiste la sua dirompente forza dialettica.
Sennonché tra le lacune che Fabrizio Marchi imputa a Marx ed Engels vi è quella inerente “alla sfera psicologica e psichica delle persone, che – egli afferma – non è una realtà metafisica o iperuranica ma un fatto reale che appartiene alla realtà…, che né Marx né Engels indagarono”. Lungi da me l’idea di sottovalutare i contributi scientifici forniti da Freud, che viene espressamente citato; tuttavia, dopo aver rammentato che in tali contributi l’elemento scientifico va separato da quello ideologico, cui spesso è inestricabilmente commisto, da un punto di vista marxista non si può non ribadire: a) che la psicologia non detiene affatto il ‘segreto’ dei fatti umani, e ciò per la semplice ragione che tale ‘segreto’ non è di ordine psicologico; b) che tramutare le contraddizioni economiche in problemi psicologici è uno dei classici giochi di prestigio dell’ideologia borghese. Insomma, per evocare la similitudine adoperata da Marchi, io certo non penso “di andare a vedere una partita di calcio osservando solo una metà del campo…”, ma rivendico la legittimità e la fecondità del mio ‘Standpunkt’ marxista e comunista, a partire dal quale osservo, analizzo e decifro tutto quel che accade nell’intero campo della storia in atto.
- Teoria marxiana e marxismo sono inscindibili
Quando si affronta l’esame e la discussione di un pensiero complesso come quello di Marx, è innanzitutto opportuno definire preliminarmente che cosa sia il marxismo (= pensiero di Marx + scuola marxista), sia per non confondere i molteplici livelli teorici in cui esso si articola sia per comprendere quale sia l’interconnessione che fa di esso un “lucido blocco d’acciaio” (Lenin). Come vede, caro Marchi, io non ritengo che, dal punto di vista metodologico, prasseologico e storico, essendo il marxismo “una guida per l’azione” e non solo un metodo di analisi o un criterio di interpretazione, la storia del marxismo (e quindi delle sue applicazioni alla realtà del XIX e del XX secolo) sia un filtro sporco da depurare con dosi massicce di una marxologia accademicamente evasiva e politicamente innocua. La storia del marxismo è invece consustanziale, esattamente come la dialettica ‘pratica-teoria-pratica’, alla dottrina di Marx, da cui è inscindibile.
Orbene, alla domanda: “che cos’è il marxismo?”, è allora corretto rispondere: 1) che è un criterio d’interpretazione scientifica dei processi storici (= materialismo storico = teoria-chiave del rapporto ‘base-sovrastrutture’); 2) che è una ‘critica dell’economia politica’, ossia un modello teorico del modo di produzione capitalistico (= Il capitale) che, attraverso tutta una serie di relazioni e concetti teorici (valore e plusvalore, forza-lavoro, lavoro astratto, lavoro produttivo e improduttivo, salario, prezzi di produzione, composizione organica del capitale, saggio medio di profitto ecc.), permette di descrivere, spiegare e prevedere la struttura e il movimento del sistema economico-sociale che poggia su tale modo di produzione; 3) che consiste nell’applicazione di questo modello a paesi e sistemi sociali concreti (ad es., Lo sviluppo del capitalismo in Russia e L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin, la Agrarfrage di Kautsky, Il capitale finanziario di Hilferding, le Tesi di Lione del P.C.d’I., il Saggio sulle classi della società cinese di Mao Zedong ecc.); 4) che è una teoria della transizione dal capitalismo al comunismo (= socialismo scientifico), che comprende un insieme di teorie e sotto-teorie (dello Stato borghese, della democrazia borghese, del partito proletario, del sindacato, dell’egemonia, della conquista del potere politico di Stato, delle alleanze di classe, dello Stato socialista, della democrazia proletaria, della rivoluzione culturale ecc.); 4) che è una visione filosofica del mondo, del pensiero e della natura (= materialismo dialettico = teoria della contraddizione + teoria del rapporto fra teoria e pratica + teoria della conoscenza + teoria dell’ideologia + teoria del rapporto fra scienza, ideologia e filosofia + metodo dell’astrazione determinata ecc.).
Da ciò consegue che il procedimento, seguìto dagli avversari e dai critici del marxismo, che consiste nello “smontare” il pensiero di Marx per capirne il meccanismo sottostante, individua giustamente in Hegel ‘il maestro di color che sanno’ della modernità. È da osservare che tale procedimento, caratterizzato dalla pretesa di far corrispondere meccanicamente fra di loro concetti, oggetti e relazioni, in modo che siano immunizzati da intrinseche contraddizioni e da mediazioni, è un’utopia reazionaria (= filosofia borghese, idealistica e/o empiristica, dell’identità). Sennonché proprio Hegel, spesso citato a proposito della categoria di “rapporto” e dell’intreccio fra ‘ratio essendi’ e ‘ratio fiendi’, ci mette in guardia dalle presunzioni rassicuranti di un “intelletto tabellesco” e ci insegna concretamente, con le sue mirabili analisi, così ricche di determinazioni logico-storiche, come la “fatica del concetto” non possa fermarsi alla fissazione dell’essenza incontraddittoria (= identità di un oggetto con se stesso e sua differenza dagli altri), ma imponga, per promuovere un ulteriore sviluppo dell’indagine, lo “studio della contraddizione nella cosa stessa” (= definizione leniniana della dialettica). Da questo punto di vista, la semplice negazione, da parte di coloro che non le ritengono essenziali, di quelle determinazioni che altri ritengono essenziali per caratterizzare un oggetto qualsivoglia, lascia il tempo che trova, poiché proprio Hegel ci insegna che la battaglia delle idee viene vinta dalla concezione teorica che sa mediare il proprio apparato conoscitivo con quello di altre concezioni teoriche, assumendo criticamente anche il loro discorso come parte (sempre mediata dalla critica) del proprio (= insopprimibile istanza della critica della teoria e/o dell’ideologia prodotte dalla classe borghese, il cui modello esemplare è depositato nei quattro libri del Capitale).
- Universalità e realtà della dialettica
Esiste un’evidente affinità oggettiva tra la dialettica, così come viene definita da Marchi, e, ad esempio, i tropi scettici, le antilogie sofistiche ecc. (e in questo senso la dialettica è un’‘arte’). Ma è anche chiaro che su questo impianto logico può fondarsi, e di fatto si è fondata, una concezione realistica della dialettica, ove la ‘realtà’ viene intesa come totalità capace di comprendere e riconciliare le differenze, talché attributi che in sé sono contraddittori coesistono nella concretezza della vita e dell’esperienza reale.
Illuminante, a questo proposito, è l’apologo indiano di sei ciechi che descrivono l’elefante, ponendo ciascuno la mano su di una parte del suo gran corpo. Chi tocca l’orecchio afferma che l’elefante è un grande ventaglio; chi la zampa, una colonna ecc. Prese isolatamente, le sei descrizioni sono contraddittorie, ma nella loro totalità sono invece compatibili, e l’interrelazione concreta che hanno nella realtà le rende vere (laddove la verità totale è, appunto, data dalla somma dialettica delle verità parziali). In altri termini, il fondamento reale dell’universalità della dialettica è nell’universalità del divenire, nella molteplicità e totalità delle relazioni, e nella negatività del reale. Si tratta di una oggettività che si impone ad ogni pensare intelligente. L’espressione aristotelica, secondo cui essa è stata “scoperta”, va dunque intesa in tutta la sua pregnanza, nel senso che l’oggetto della dialettica “preesiste” alla sua scoperta, alla sua cosciente formulazione concettuale. Vale anche qui un fondamentale assunto del realismo aristotelico.
La dialettica, allora, in quanto “pensare intelligente”, va intesa in un senso molto più vasto che non quello ad essa attribuito dalla filosofia, poiché l’esperienza dialettica abbraccia tutti i campi della vita umana (dalle scienze matematiche e della natura alla letteratura, dalle arti alla fede religiosa, ivi compreso quel vissuto intensamente dialettico che è l’amore). Si può dire pertanto che in filosofia questa universalità della dialettica viene colta sotto forma di sistematica ideale, e in questo senso lo sviluppo delle interpretazioni che di questa forma sono state date, la riflessione sulle mediazioni tra esse e tutti i campi del reale, nonché la loro ricapitolazione concettuale, costituiscono, nel loro insieme, un processo di progressiva “scoperta” della dialettica. Da questo punto di vista, sono altamente istruttive le critiche demolitrici che grandi dialettici hanno fatto al formalismo schematico, ricorrente perversione della dialettica ed antico quanto essa. Classica è la critica di Marx a Proudhon che, «incapace di seguire il reale movimento della storia, costruisce una fantasmagoria che egli pretenziosamente definisce dialettica», e che consiste nell’applicare pedissequamente a corpose contraddizioni economiche una tabellina che vorrebbe distinguere tra “lati buoni” e “lati cattivi” della realtà sociale. Il monopolio, ad esempio, che avrebbe il lato buono di togliere l’anarchia del mercato, «è qui il lato positivo»; ma poiché ci sono anche gli «effetti dello sviluppo, in senso negativo, del monopolio», ecco pronto il rimedio, rappresentato dal fisco, nuova categoria con la quale Proudhon pretende di purificare il lato cattivo del monopolio, e così via. Sennonché, adoperando questa tabellina, Proudhon mostra soltanto quanto egli sia «affetto da sterilità quando si tratta di dar concepimento, attraverso il travaglio delle generazione dialettica, ad una categoria nuova. Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e la loro fusione in una nuova categoria. Basta in realtà porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liquidare di colpo il movimento dialettico».
- “Was ist das Proletariat?”
Arriviamo così all’ultima questione posta da Marchi, che riassumo nella domanda che dà il titolo a questo paragrafo. Orbene, la classe si definisce in rapporto al posto occupato da un insieme di individui nel processo di produzione (e, di conseguenza, nei rapporti di produzione). In questi ultimi decenni abbiamo sentito parlare molto della presunta scomparsa della classe operaia. In realtà, come afferma il geografo D. Harvey, «il proletariato globale è più numeroso che mai».
Certo, la classe operaia formata dai lavoratori manuali dell’industria è diminuita in modo netto nelle società capitalistiche avanzate, ma solo perché buona parte di questo lavoro è stato esportato verso i paesi più poveri del mondo. Si tratta, ad ogni modo, di fenomeni antichi: basti pensare che, quando Marx ed Engels davano alla luce il Manifesto e la Gran Bretagna era l’“officina del mondo”, gli operai manifatturieri erano già stati superati, in termini numerici, dal personale impiegato nei servizi domestici e dai lavoratori del settore agricolo. Inoltre, la tendenza alla diminuzione del lavoro manuale e all’aumento dei “colletti bianchi” non è un fenomeno ‘postmoderno’, poiché, al contrario, essa risale agli inizi del XX secolo. Marx, ad esempio, nel Capitale colloca i lavoratori impiegati nel commercio allo stesso livello di quelli industriali e non identifica il proletariato esclusivamente con i lavoratori produttivi. Pertanto, la classe operaia comprende tutte quelle persone che sono costrette a vendere la propria forza-lavoro al capitalista, che sono sottoposte alla sua disciplina oppressiva e che hanno poco o nessun controllo sulle proprie condizioni lavorative. Così, vi è pure una classe operaia di “colletti bianchi”, che include moltissimi tecnici, impiegati e amministrativi privi di qualsiasi forma di autonomia o autorità. In questo senso, per definire correttamente una classe occorre sempre distinguere tra la proprietà giuridica, che è astratta, e il possesso o il controllo degli strumenti di produzione, che è concreto.
Sennonché coloro che vorrebbero celebrare il funerale della classe operaia ed archiviare come obsoleto il termine di proletariato hanno attribuito grande importanza alla crescita impetuosa del terziario e delle TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione). È vero che si tratta di cambiamenti importanti, che incidono sulla composizione di classe, ma è ancor più vero che nulla di tutto questo ha modificato la natura fondamentale dei rapporti di proprietà capitalistici. Insomma, la classe operaia è una parte immensa della popolazione mondiale (intorno ai tre miliardi di persone).
D’altra parte, qualcosa va detto, per riprendere l’osservazione di carattere storico richiamata da Marchi, sulla scomparsa, non altrettanto decantata, dell’alta borghesia tradizionale, giacché anche la composizione di classe della borghesia cambia. Al posto dei vecchi capitalisti con la tuba e la marsina è infatti subentrato un universo monetario di manager, revisori dei conti, amministratori e speculatori del capitale contemporaneo. È tipico del capitalismo avanzato generare l’immagine ingannevole di una presunta assenza delle classi, e ciò fa parte della natura stessa del mostro. Lapo Elkann – un cocainomane frequentatore di transessuali -, John Elkann – un signorino azzimato con la erre moscia – e Sergio Marchionne – un manager che vestiva in modo informale, catasterizzato sia da vivo che ‘post mortem’ – sono tre icone di questa classe che mostrano, da un lato, una certa discontinuità con la tradizione dei “padroni delle ferriere” e, dall’altro, un’organica continuità con un sistema globale in cui le disparità di ricchezza e di potere si sono ampliate più che mai. Basti pensare che nel nostro paese, tra i più diseguali e con minore mobilità sociale che esistano in Europa, statistiche ISTAT alla mano, è praticamente impossibile che il figlio di un operaio possa diventare medico o magistrato.
- Destra-Sinistra: una distinzione assiale
Fatta questa premessa, sulla quale mi sembra difficile non convenire, sono automaticamente risolte le due questioni, fra di loro strettamente connesse, che ne dipendono e che riguardano la distinzione (sostanzialmente assiale, ma anche formalmente mutevole) tra destra e sinistra, nonché il giudizio sulla parabola politica e intellettuale di Costanzo Preve (una parabola fortemente condizionata, occorre riconoscerlo, dall’acuta consapevolezza della degenerazione politica, culturale ed umana della sinistra ‘storica’ e di larga parte di quella cosiddetta ‘radicale’).
Osservo, innanzitutto, che nell’epoca presente, caratterizzata dalla crisi della politica, è invalso l’uso di ritenere che, quanto meno in tale campo, non sia più d’attualità, e neppure necessario e utile, distinguere tra ‘destra’ e ‘sinistra’. Vi è stato e vi è perfino chi, per un malinteso senso di modernità, lasciandosi sedurre dal fascino del “mostro mite”, cioè dal nemico irrazionalista e nichilista, pensa addirittura che quella distinzione sia del tutto obsoleta. Tuttavia, se non bastasse a demistificare questa posizione, il riferimento ai dizionari che attribuiscono alla prima una tendenza conservatrice, di contro alla seconda che esprime la politica innovatrice, progressista o rivoluzionaria, basterebbe considerare, molto semplicemente, che l’alternativa destra-sinistra corrisponde, dal punto di vista marxista e comunista, all’alternativa borghesia-proletariato e che, a differenza di quanto pensava Preve e di quanto pensa La Grassa, è proprio questo che la rende storicamente insuperabile.
Certo, Marchi rammenta che anche nella visione di Preve esistono classi dominanti e classi dominate, ma io sottolineo che questa contraddizione è isolata e rescissa dalla contraddizione che è primaria e determinante in ultima istanza, anche quando, come insegna la dialettica, non è quella dominante: la contraddizione tra classi sfruttatrici e classi sfruttate. Di mezzo vi è un piccolo dettaglio rappresentato dalla teoria del plusvalore e dello sfruttamento capitalistico. Ed è liquidando questa teoria-chiave del marxismo che Preve e La Grassa sono approdati alla liquidazione dell’alternativa destra-sinistra e all’‘embrassons-nous’ con i circoli (culturali?) dell’estrema destra nazifascista.
Naturalmente, non intendo scotomizzare il carattere onnipervasivo dell’‘ethos’ capitalistico del successo e del calcolo, così come non dimentico – è questo un problema fondamentale della lotta per l’egemonia – che ancora una volta la forma di individualità che prevale nella borghesia non è limitata alla borghesia, in quanto filtra nel proletariato e deforma il processo per cui questa classe cerca di costituirsi come soggetto storico. Un proletariato che è composto in parte da individui borghesi rappresenta senza dubbio una contraddizione, ma è una contraddizione che appartiene alla realtà, non semplicemente ai concetti. Non a caso, il leninismo insiste giustamente sulla centralità della categoria di coscienza di classe “portata dall’esterno” ad opera del partito (un partito che non solo esprime la classe ma, in una certa misura, la crea), nonché sull’importanza strategica, che ne è il logico corollario, della lotta congiunta contro l’imperialismo e contro l’opportunismo, per la rivoluzione socialista.
- “Sincretismo erudito” ed “eclettismo senza carattere”
Riporto, quale ‘explicit’ di questa anticritica sul dilemma “dialettica o eclettismo”, un brano ricavato dalla fusione di due passi particolarmente significativi della critica marxiana dell’economia politica: i capitoli III.25, “Credito e capitale fittizio”, e III.29, “Elementi del capitale bancario”, del Capitale e l’“Appendice: il reddito e le sue fonti; l’economia volgare”, III.1-5, delle Teorie sul plusvalore .
«Il capitale in questa sua figura monetaria, che è la più strana e nello stesso tempo la più vicina all’immagine maggiormente diffusa, è tanto la “forma fondamentale” degli economisti volgari quanto il primo punto d’attacco di una critica superficiale. Da una parte, sia perché il nesso interiore qui appare meno che altrove e il capitale si presenta in una forma in cui pare una fonte autonoma di valore; sia perché in questa forma il suo carattere antitetico è completamente dissimulato e cancellato, perché non c’è contrapposizione al lavoro. D’altra parte, essendo la forma in cui si presenta nel modo più irrazionale, offre il fianco all’attacco perché è la più facile per i socialisti volgari. Per la loro conoscenza superficialissima della scienza, essi l’“abbelliscono” nell’interesse ultimo della classe dominante. Nella “forma professorale”, che li contraddistingue, raccolgono qua e là il “meglio”, senza badare a contraddizioni, bensì alla completezza [ossia alla complessità e al pluralismo]. Codesta forma di sincretismo erudito e di eclettismo senza carattere toglie lo spirito vitale a tutti i sistemi, da cui elimina rigorosamente il mordente, cosicché si ritrovino pacificamente riuniti nella compilazione. Qui l’erudizione osserva con benevola superiorità le esagerazioni dei pensatori economici e le tollera solo come curiosità che galleggiano nella sua mediocre poltiglia. Lavori di questo genere appaiono solo quando si chiude il cerchio dell’economia politica come scienza e sono, allo stesso tempo, le “tombe” di questa scienza. È anche chiaro, perciò, perché la critica superficiale si rivolga con tutta la sua sapienza riformatrice contro il capitale produttivo d’interesse [la speculazione e la rendita finanziaria parassitaria, come dicono i riformatori odierni] senza toccare veramente la produzione capitalistica, ma attacchi soltanto uno dei suoi risultati. È questa polemica contro il capitale produttivo d’interesse dal punto di vista della produzione capitalistica – polemica che agli albori del capitalismo industriale serviva per imporsi nei confronti dell’usura di vecchio stampo – che, al giorno d’oggi, si dà arie di “socialismo”.»
Note
A. Gramsci, Quaderni del carcere , edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007, Quaderno 8, p. 1051.
Si veda per un approccio marxista criticamente agguerrito a questo tema il saggio di L. Althusser Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994. Dopodiché, spero che non vi sia bisogno di precisare che il marxismo, in quanto analisi positiva del presente e critica spietata dell’esistente, può e deve sottoporre al vaglio del suo metodo-concezione qualsiasi altra corrente, teoria, idea e categoria, che la civiltà antica e quella moderna abbiano formulato, esattamente come hanno fatto i classici del marxismo-leninismo e i pensatori che ne hanno seguito la lezione con i contesti storico-culturali del loro tempo. Quindi Smith e Ricardo, Hegel e Feuerbach, ma letti con la lente di Marx; quindi Berkeley, Hume, Kant e Mach, ma letti con la lente di Lenin; quindi Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein e Sartre, ma letti con la lente di Lukács; quindi Freud, Lacan e Monod, ma letti con la lente di Althusser ecc. ecc.
Il marxismo del Novecento si è confrontato teoricamente e praticamente con la psicologia e con la psicoanalisi seguendo più indirizzi e utilizzando differenti metodologie. Tra gli autori cui si devono contributi di notevole spessore scientifico, filosofico e metodologico meritano di essere citati almeno i seguenti: L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, edizione integrale a cura di L. Mecacci (ed. or. 1934), Laterza, Roma-Bari 1990; J. Gabel, La falsa coscienza, De Donato, Bari 1967; L. Sève, Marxismo e teoria della personalità, Einaudi, Torino 1972; R. Jacoby, L’amnesia sociale. Critica della psicologia conformista da Adler a Laing, Edizioni di Comunità, Ivrea 1978.
“…una relazione dialettica complessa a sua volta composta da una serie altrettanto complessa di relazioni dialettiche complesse che rimandano a loro volta ad altre relazioni”. È un chiaro esempio di “cattivo infinito”, per dirla con Hegel; la definizione acquista però un significato corretto nel momento in cui viene connessa alla fondamentale categoria della “totalità” (operazione che, a mio avviso, l’ottimo Marchi teme di compiere). Eppure questa è proprio la categoria centrale del metodo dialettico marxista (cfr. Lukács).
«Quando noi scopriamo le varie scienze, già preesistono i loro oggetti…: se non sussiste l’oggetto del sapere, difatti, non sussiste neppure la scienza (poiché ormai non sarà più scienza di nulla), mentre nulla impedisce che, pur non sussistendo la scienza, sussista cionondimeno l’oggetto del sapere. Ammettendo ad esempio che la quadratura del cerchio sia un oggetto del sapere, si può constatare che non esiste ancora una scienza di tale quadratura, ma l’oggetto del sapere, come tale, sussiste (Categorie, 7b).
Ibidem, p. 96. Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza (non solo critico-economica ma anche) teorica e metodologica di questo libro di Marx, spesso frettolosamente derubricato a semplice ‘pamphlet’ anti-Proudhon.
Per un’incisiva fenomenologia del capitalismo contemporaneo si veda il saggio di R. Simone, Il mostro mite, Garzanti, Milano 2008.