Pubblichiamo questa interessante analisi di Carlo Galli sul PD che, a nostro parere, può essere estesa anche alla cosiddetta “sinistra radicale”.
Se il Pd è un partito di sinistra, e se la sua rinascita è indispensabile alla rinascita di questa, allora c’è poco da stare allegri: il suo orizzonte è infatti diviso fra chi non ammette alcun errore e incolpa i cittadini di avere sbagliato a votare, chi vuole cambiare nome come se non si dovesse anche cambiare politica, e chi, come Veltroni non trova nulla di meglio che identificare la sinistra con il «sogno» e la «speranza».
Nel momento di più cupo smarrimento e di più evidente mancanza di strategia, si propone quindi come soluzione della crisi lo stile politico che l’ha generata: uno stile sovrastrutturale, centrato sulla comunicazione e sull’illusione mediatica – al più, corretto dall’ammissione che il Pd non ha saputo stare «vicino a chi soffre», detto con un linguaggio che ricorda più la beneficenza che la politica –; uno stile lontano da ciò che è veramente la sinistra: teoria e prassi, analisi e lotte, materialismo e realismo, disegno di una società futura che parte dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprime, è conflittuale e non neutrale, e che quindi la liberal-democrazia non è una universale panacea formalistica che realizza l’accordo di tutti i cittadini ma il risultato, in equilibrio dinamico e precario, di tensioni e di contraddizioni che non si possono togliere né superare in «narrazioni» e in «visioni».
Come lascia assai poco a sperare la decisione – che accomuna il Pd a molta opinione “progressista” – di cercare la via d’uscita dalla impasse politica nella sempre più acuta polemica “antifascista” contro il governo; una mossa che esprime una lettura “azionista” cioè moralistica – o, se si vuole, “liberal” – della politica, a cui la sinistra dovrebbe preferire la analisi storica ed economica sullo stile di Gramsci. Non lo sdegno ma la comprensione dei processi è il solo inizio possibile se la sinistra vuole avere qualche chance di non scomparire.
In realtà, quindi, il sogno e l’antifascismo, che sembrano l’uno opposto all’altro, sono le due facce di una medesima mancanza di analisi radicale, di un pensiero pigro, stereotipato, privo di spessore storico, che impedisce al Pd di comprendere se stesso, il proprio ruolo, i propri errori (non quelli occasionali ma quelli strategici), un pensiero che procede per slogan e che non afferra la realtà; e che si espone al rischio o della inefficacia o di innescare una reale dinamica amico/nemico – a ciò infatti si giunge se si prende l’antifascismo sul serio –. Infine, questa politica infondata, inerte e al contempo pericolosa, è tatticamente un errore: non pare infatti utile a (ri)trovare voti e consenso l’attitudine a definire «fascisti», «barbari» e «nemici» i cittadini che hanno votato per i partiti di governo. Criminalizzare la maggioranza degli italiani non è una buona politica: è vittimismo arrogante e subalterno, che unisce la pretesa di superiorità morale alla implicita denuncia della impotenza della sinistra.
Soprattutto, una sinistra liberal che mette insieme il capitalismo più spregiudicato e le sue vittime, i licenziati e i licenziatori, che si prefigge uno schieramento «da Macron a Tsipras», non vede le proprie interne contraddizioni e le rigetta sul “nemico” fascista: il cleavage fascismo/antifascismo serve a occultare la vera natura del Pd, ovvero che questo è il partito dell’establishment, e che quindi è stato travolto dalla crisi di questo, e non solo è incapace di mettere in campo un’alternativa di pensiero e di azione, ma anche di rendersi conto della propria situazione storica reale.
Che è di essere un partito che difende il neoliberismo e l’ordoliberalismo quando questi sono in crisi – o meglio, quando producono crisi sempre più acute –; che resta attaccato alla Ue quando questa è ormai solo il cozzo delle sovranità e il teatro dell’egemonia tedesca attraverso l’euro; che scommette sulla liberaldemocrazia dopo avere contribuito a svuotarne il senso materiale – lo Stato sociale, l’allargamento del ceto medio, la ragionevole gestione delle disuguaglianze sociali, la sicurezza (a tutto tondo, cioè come garanzia della pienezza delle aspettative di vita) per la grande maggioranza dei cittadini –; che non sa vedere il cambiamento politico e culturale che stiamo vivendo. L’Occidente privo della presenza dell’America; l’Europa priva di progetti che non siano gli utili degli Stati (delle élites economiche e politiche che vi si sono insediate) e i sacrifici per i popoli; la globalizzazione “povera”, ovvero la sovranazionalità dell’economia e al contempo l’assenza, il fallimento, della società aperta; il liberalismo nutrito di privatizzazioni oligarchiche, divenuto liberismo senza persone e senza popolo, che per di più si meraviglia se il popolo lo abbandona in cerca di protezione – probabilmente illusoria – presso i “populisti”.
No. Proprio non si possono definire “barbari” quelli che non credono più alla civiltà “atlantica” del dopoguerra; questa non è crollata per l’irruzione dei popoli delle steppe, ma sta morendo di propria mano, per le proprie contraddizioni. Le cure tecnocratiche e rigoriste, dopo l’euforia della new economy, hanno ferito le società, rescisso il legame sociale, le appartenenze collettive (non diciamo la coscienza di classe), e consegnato i singoli alla rabbia e al rancore, alla paura e al confinamento entro i recinti egoistici della famiglia.
Chi non voglia inseguire ipotesi qualunquistiche e autoritarie – che sono più il sintomo che non la cura di questi mali – dovrà almeno riconoscere la verità; dovrà sapere da dove iniziare un nuovo corso culturale e politico; e non potrà fare opposizione con sermoni e prediche, con manifestazioni di piazza; chi come alternativa alla destra sa offrire solo l’elogio del vecchio mondo, o l’anatema delle nuove realtà che emergono, per quanto spiacevoli, pensando di esorcizzarle con qualche sdegnata narrazione, ignora che il grande passaggio storico in cui ci troviamo prenderà forma – dopo una fase di disorientamento, di comprensibile affannosa ricerca di protezione, dopo una lunga e ibrida transizione – grazie al combinarsi (come sempre è avvenuto) di idee e di interessi concreti: e che compito della sinistra è individuare gli interessi progressivi – cioè rivolti all’emancipazione dal bisogno dalla sofferenza dall’insicurezza –, e dare loro forza e idee. Soprattutto, l’idea che l’economia crea problemi che non sa risolvere, la cui soluzione sta nella politica “sovrana”. Ovvero nella politica capace di esprimere un comando legittimo davanti a cui anche la potenza dell’economia debba fermarsi. Gli Stati – e anche l’Europa sovrana, se mai ci sarà – non si governano con i padrenostri.
Finché la sinistra saprà opporre a Salvini soltanto i sogni e le speranze, il ribaltamento dei rapporti di forza resterà appunto un sogno – un informe, inconsapevole «sogno di una cosa» –. E Salvini la potrà lasciare sognare, e anzi augurarle «sogni d’oro». Si preoccuperà, invece, se e quando un leader di sinistra nuovo e credibile – portatore non di sogni ma di idee, nutrita di analisi cruda della realtà e non di edificanti narrazioni – saprà sfidarlo per dare all’Italia protezione dallo sfruttamento e non solo dai migranti.
Fonte: https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/09/05/sogni-e-realta/